lunedì 13 settembre 2010

IL CORPO ASTRALE DI UN'ISOLA *

Il titolo è troppo bello per essere mo: l’ho preso da una frase di Joseph Conrad, scrittore eccelso nel navigare tra isole. Possiamo pensare che quell’immagine gli sia venuta nel veder emergere dalle brume monsoniche dei mari del Sud qualcosa di solido, corporeo, su cui approdare, e al tempo stesso immerso, come una stella nel firmamento, in una sterminata vastità d’altra natura, liquida piuttosto che aerea.
Per noi, quell’immagine sarà lo spunto per riflettere su altre isole, isole metaforiche, isole di appartenenze e di significati, a partire da quella, viva, solida e corporea, che ora ci ospita.
Vorrei iniziare avvicinando con il pensiero un’isola lontana, anzi quell’insieme di isole che è il Giappone. I periodi di ricerca trascorsi là in tempi e zone diverse avevano come punto comune di interesse quello di cogliere la presenza di valenze tradizionali in contesti più o meno fortemente occidentalizzati. Fu soltanto dopo un certo periodo che mi resi conto di come fosse vano assegnare comportamenti individuali unitariamente a questo o quel modello culturale e inglobarlo, per così dire, in un unico, coerente sistema di regole sociali. Ogni individuo sembrava muoversi entrando ed uscendo di volta in volta, anche nell’arco di una stessa giornata, da luoghi sociali all’interno dei quali vigevano regole e principi riferiti a quel contesto specifico, senza pretesa di universalità, etica piuttosto che funzionale. Più che a una coerenza interiore, affidata ai singoli individui, si mirava a una ‘armonia’ tra le varie forme e le varie componenti della vita sociale, ereditando un principio confuciano ancora oggi attuale.
D’altra parte, la stessa storia nazionale dalle cui vicende anche i giapponesi fanno derivare la propria eredità culturale, viene percepita e trasmessa come segnata da forti cesure e discontinuità, trascurando i nessi e le evoluzioni interne, che la nostra storiografia tende invece a sottolineare. ‘Fare i conti con il proprio passato’, come diciamo noi, è qualcosa di estraneo alla mentalità giapponese, spesso difficile da comprendere e ritenuto offensivo alla memoria sacra dei propri antenati: ciò che, come sappiamo, crea talvolta dei malumori diplomatici. Anche in tema di eredità nazionale, si procede per isolati, dotati di una forte fisionomia, ben distinta da quelle di epoche precedenti o successive.
A queste diversità interne si sommano le influenze culturali esterne che, come si sa, hanno fortemente plasmato la società giapponese, da quella antica, di provenienza cinese – negli ambiti più vari, dalla scrittura alla religione agli stili di vita – alla più recente occidentalizzazione che, vista dall’Occidente, fa pensare a una scomparsa della autentica ‘giapponesità’.
Ma dall’interno, anche oggi, nel periodo di più esasperato meticciato culturale, pochi sarebbero disposti a mettere in dubbio il carattere unico e autentico di questa ‘giapponesità’ : quell’insieme di aspetti che in un passato recente diede luogo a un ambito di studi e di produzione letteraria denominato Nihonjinron.
Ci troviamo, quindi, di fronte a un diverso modo di pensare la vita collettiva e di conseguenza le forme stesse di organizzazione sociale. Là dove le società occidentali, figlie dell’Illuminismo, assegnano all’individuo come entità autonoma il compito di guidare con coerenza e senso di responsabilità le proprie azioni, un modello estremo orientale assegna coerenza e responsabilità ai gruppi sociali, nei quali i singoli individui entrano e dai quali escono rispettandone, di volta in volta, le regole e l’etica collettiva.
Mi venne in mente allora la metafora dell’isola, per indicare quegli insiemi dotati di forte coesione interna e al tempo stesso di comunicazione continua tra di essi attraverso gli individui che, come naviganti, passavano dall’uno all’altro: isole di significato, le chiamai.
Quella metafora mi è tornata in mente quando, in epoca più recente, mi sono interessato ai fenomeni migratori in Europa. (Per inciso, ogni tanto qualcuno, scorrendo schedari di biblioteche, si stupisce della mia longevità imbattendosi nell’opera ‘Emigrati’, il cui primo volume uscì nel 1880, e il cui autore porta il mio nome. Sono io, piuttosto a portare il suo: si tratta, infatti, di mio nonno, attento nel seguire migrazioni, che allora ci vedevano protagonisti, e del quale immeritatamente seguo le orme).
L’immagine dell’immigrato e dell’immigrata che, solitari, tentano l’avventura dell’esodo, spinti da necessità economiche, guerre o carestie, per poter mantenere la famiglia rimasta sul luogo, e nella prospettiva, più o meno procrastinata o piuttosto mitizzata, di un ritorno, è del tutto obsoleta, se mai fu realistica o non piuttosto, a sua volta, mitizzata. Anche a seguito degli orientamenti legislativi in tema di ricongiungimenti, è ora la famiglia il soggetto sociale delle migrazioni. Parallelamente, è diventato sempre più inconsistente un altro schematismo, quello che vedeva i movimenti migratori polarizzati tra paese di provenienza e paese ospitante. Le migrazioni avvengono a gruppi, per lo più familiari, e danno luogo a unità transnazionali, i cui singoli membri si muovono intensamente, appoggiandosi via via a questo o quel parente, a questo o quel connazionale legato da una rete invisibile di solidarietà e senso di comune appartenenza, secondo variegate strategie, dipendenti da molti fattori quali l’età, le opportunità di lavoro, le politiche sociali e in tema di immigrazione delle varie nazioni.
Ecco che riappariva ai miei occhi il modello delle isole di significato, in forme e secondo strategie diverse: gruppi familiari, generazionali, di appartenenza religiosa, linguistica, culturale, reti di solidarietà, che interagiscono con altri contesti sociali, dai quali i singoli individui entrano ed escono.
Isole di significato, mobili nella galassia della globalizzazione, sono quelle di cui sono protagonisti attivi, non già passivi portatori e portatrici come viene spesso inteso, i nuovi migranti. Questi nostri nuovi vicini trasferiscono, rielaborano, adattano, inventano di continuo strategie di confronto con la realtà umana nella quale si trovano inseriti. Ci fanno comprendere il carattere funzionale e dinamico di quella definizione astratta che sta in molti testi di antropologia: che, cioè, la natura dell’uomo è la sua cultura.
La prossimità fisica, corporea, degli immigrati ci rende vicino il loro universo culturale, e viceversa. Sono isole di significati che si avvicinano, entrano in contatto fino a compenetrarsi, ma senza confondersi. Sono veri e propri laboratori di dinamica culturale.
E’ questo uno degli aspetti più significativi del momento storico in cui viviamo. Gli attuali movimenti migratori e quelli crescenti che ci attendono a breve termine rappresentano una risposta spontanea che il genere umano, nel suo complesso, dietro la miriade di casi idividuali, sta dando per la sopravvivenza della propria specie, di fronte all’esplosione dei problemi che l’umanità stessa è andata creandosi. Qualcosa che può paragonarsi alle risposte date in epoche remote alle grandi mutazioni geologiche e climatiche dai nostri progenitori, mentre se ne tratta oggi nei termini sensazionalistici della cronaca o in termini cosiddetti ‘politici’, cioè di difesa di interessi di parte.
Non spetta a un antropologo proporre scenari futuribili di omologazione (sappiamo bene a quale modello culturale –ancora una volta!- si fa riferimento, in questi casi). La vena nostalgica con la quale Lévi-Strauss parlava tanti anni fa della ‘fine dei viaggi’ non è certo smentita dall’aumento esponenziale del turismo planetario, e il suo avvertimento del pericolo derivante dalla scomparsa degli ‘scarti differenziali’ tra le culture suona ancora, o dovrebbe suonare, come un campanello d’allarme, di fronte al rischio di una sorta di pandemia culturale provocata dalla mancanza di confronti possibili e quindi di una dinamica.
La persistenza di isole di significato all’interno di un universo umano sempre più interconnesso rappresenta un prezioso patrimonio per tutti. Siamo tutti, in fondo, degli isolani, se pensiamo alle nostre specificità identitarie di gruppo. Ma è vitale –così come è avvenuto per la Sicilia quanto per il Giappone nel corso della loro storia- che l’insularità, fisica, delle relazioni locali ristrette, delle abitudini e delle regole sociali, non si tramuti in isolamento.
In Sicilia troviamo un’identità forte al suo interno, un’identità che come sappiamo si è andata formando nei secoli attraverso una intensa tessitura di relazioni e di scambi con l’esterno, a tutto campo: a sud, a nord, a est e ad ovest (e, in ogni direzione, con popoli, nazioni, culture). Questa fitta trama, che è parte essenziale della cultura interiore, è stata probabilmente favorita dal non dovere costantemente definire i confini territoriali della propria appartenenza.
Questo forte senso di appartenenza radicato in un territorio non necessita evidentemente di una insularità fisica per creare e alimentare isolati culturali fortemente coesi all’interno e al tempo stesso in interazione più o meno intensa con l’esterno. E’ il caso delle minoranze linguistiche e culturali all’interno di una unità nazionale provvista di un’identità unitaria sua propria; caso diverso, quindi, da quello di altre unità politiche e sociali al cui interno alcuni gruppi possono definirsi identitariamente, come si suol dire, con un trattino, e di cui gli italo-americani sono il miglior esempio. Di queste minoranza linguistiche e culturali altri, più esperti di me, tratteranno.

Cannibalismo culturale

Vorrei ora accennare a un pericolo nel quale mi pare incorrano oggi queste unità culturali fortemente caratterizzate, siano esse vicine o lontane, alla luce di quella visione del mondo globalizzato che siamo qui invitati a considerare. In uno scenario ristretto alla dimensione nazionale, la questione così come è stata evidenziata e approfondita particolarmente dagli studi demologici italiani, si poneva in termini di rapporti tra una cultura dominante, o egemone, e le culture –per alcuni, sottoculture- locali, o subalterne. Se i rapporti di forze erano evidentemente ineguali, i soggetti sociali erano provvisti di una propria identità e dignità, e la tensione si polarizzava tra omologazione e isolamento.
Nel mondo globalizzato, lo scenario tra centri e periferie cambia, sia in termini di confronti culturali che di rapporti di forze. Nel generale, indubitabile appiattimento nei modi e negli stili di vita, in cui progressivamente gli abitanti del pianeta sembrano assemblarsi come consumatori di un mercato generalizzato dei beni e delle idee, ecco emergere, o riemergere sotto nuova forma, isole culturali a variegare un paesaggio altrimenti appiattito. Il vecchio folclore viene rispolverato, lucidato per così dire e reso attraente agli occhi di consumatori di programmi televisivi. Ognuno prende i propri eroi a disposizione, in un’operazione spontanea di disneylandizzazione su scala planetaria. Ed ecco emergere elmi con corna di bue in chi intende non già imitare Asterix bensì affermare la propria celticità, ecco i discendenti delle classi popolari cucirsi addosso velluti e broccati come nobili garzoni e damigelle medioevali e sfilare così addobbati impersonando gli un tempo esecrati aristocratici locali. Palii inventati spuntano da ogni dove in Italia, ogni paese tira fuori i suoi draghi e i suoi spiritelli.
Questa ricerca di una propria o altrui identità inventata, di una sorta di ‘etno-kitsch’, come potremmo chiamarlo, è un fenomeno anch’esso globalizzato, e alimenta un vasto mercato di turismo che viene venduto come ‘culturale’.
Una testimonianza tragicomica del fenomeno ci è fornita dal documentario Cannibal Tour, realizzato nel 1988 in Nuova Guinea dal film-maker australiano Dennis O’ Rourke: tra i turisti che risalgono il fiume Sepik in una sorta di safari fotografico e caccia al mercatino di souvenir con gli ‘ultimi selvaggi’ che si prestano alla sceneggiata c’è anche una famiglia brianzola trasportata fin lì da un’agenzia viaggi.
Anche all’infuori di un mercato ‘selvaggio’ di questo tipo, fioriscono ovunque episodi effimeri o stabili di spettacolarizzazione di un’etnicità pseudo-tradizionale. Si va da una nuova messa in scena delle feste paesane ai veri e propri musei all’aperto, ad imitazione dei primi ‘skansen’ nordeuropei, in cui abitanti locali in un ambiente ricostruito recitano la parte dei propri antenati. La Cina, impegnata in questi anni in un’opera di sistematica distruzione delle proprie città –quasi sempre con la partecipazione dei grandi studi di architettura occidentali-, nella ricostruzione dei nuovi centri, destinati ad accogliere turisti locali e occidentali (il primo appuntamento sono le prossime Olimpiadi a Beijing), non manca di proporre nuovissime ‘strade della cultura’, dove i negozi per stranieri hanno un look esotico di cemento, con tettucci a pagoda e colori sgargianti.
Certi fenomeni di folclorizzazione al fine di creare artificiose ‘isole culturali’ fanno seguito talvolta a sistematici annientamenti delle culture locali originali, anche con risvolti drammatici. Dopo aver subito negli ultimi decenni un’opera di colonizzazione amministrativa, economica e culturale (con l’imposizione, ad esempio, della lingua cinese nelle scuole), i Tibetani sono stati riscoperti dal governo cinese come una possibile, straordinaria attrazione turistica.
Durante gli anni tragici della cosiddetta ‘rivoluzione culturale’, che aveva come uno dei suoi principali obiettivi l’annientamento delle culture non-han, templi e altri edifici delle varie sette del buddismo lamaista erano stati distrutti, spoliati, svuotati dei suoi occupanti. Si è avuta in seguito una parziale ricostruzione, che è stata ora accelerata, in coincidenza con il miglioramento delle comunicazioni con la Cina centrale, culminato nella recente inaugurazione della linea ferroviaria che raggiunge Lhasa, la capitale del Tibet. Che importa se gli edifici e le opere d’arte che potranno visitare i turisti cinesi e stranieri non sono quelli originali, e i monasteri sono semivuoti? Il turismo di massa non è certo sensibile a certe sottigliezze.
L’affare può essere di grosse proporzioni, sfruttando i miti del ‘tetto del mondo’, di ‘Shangri La’ e dei loro abitanti, negli abiti tradizionali, cappello di pelo di volpe e volto cotto dal sole, il tutto condito in salsa buddista. Già si diffonde la pubblicità per la nuova ferrovia, la più alta del mondo, che supera i livelli dal mare raggiunti dai treni nella regione delle Ande sudamericane.
Ecco quale può essere il destino delle isole culturali, già gelose custodi nel corso dei secoli delle loro specificità e delle loro ricchezze, preservate nell’isolamento anche come ricchezze di tutta l’umanità. Non già quello di scomparire, inghiottite dall’appiattimento del mercato globale dei beni e delle idee. Ma di diventare la materia prima di un mercato non più ‘di nicchia’ ma in grande espansione: quello del kitsch folclorico, appendice del turismo culturale. Potremmo chiamarli ‘iperluoghi’, rovesciando l’inflazionato concetto di non-luogo: ricostruiti, anticati e spesso animati da chi si sente gratificato immaginandosi parte di quello spettacolo globale che –dentro e fuori dagli schermi televisivi- è anch’esso uno degli aspetti della globalizzazione.
Uno spettacolo che potremmo considerare l’amara parodia dei quella ‘conversazione dell’umanità’, come ebbe a chiamarla il filosofo Richard Rorty, che dovrebbe essere la grande opportunità da cogliere messa a disposizione dalla globalizzazione. Ma, come ci ha ricordato un brillante antropologo, spesso ‘i frutti puri impazziscono’.

* Intervento al Convegno organizzato dalla Fondazione Ignazio Buttitta a Palermo

BIBLIOGRAFIA

CONRAD, Joseph Twixt Land and Sea Tales. A Smile of Fortune, the Secret Shaker and Freye of the Seven Islands, Kessinger Publ., Whitefield MT., 2005.

MARAZZI, Antonio Emigrati, Dumolard, Milano, 1880-81.

MARAZZI, Antonio Giapponeserie. Un antropologo tra uomini e spiriti lontani, Unipress, Padova, 2001.

MARAZZI, Antonio (a cura) Voci di famiglie immigrate, ISMU-Franco Angeli, Milano, 2005.

O’ ROURKE, Dennis Cannibal Tours, 77 min. 35 mm. colore, O’ Rourke Ass., Brisbane,1988.

RORTY, Richard La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano, 1986.

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