venerdì 10 settembre 2010

DIALOGO IMMAGINARIO SOPRA UN MASSIMO SISTEMA

Ho immaginato di dialogare ancora una volta con Bernardo, mio maestro di sempre.

A. E’ da poco trascorsa la data di una doppia celebrazione : per i duecent’anni dalla nascita di Charles Darwin e i centocinquanta dall’uscita dell’Origine delle specie. E come c’era da attendersi, queste ricorrenze sono state occasione per il riacutizzarsi di dibattiti dai toni accesi e spesso polemici intorno alle teorie di quell’autore.

B. Sì, certo, può sorprendere che, al contrario di altri grandiosi sistemi teorici ottocenteschi riguardanti l’uomo, finiti nel cassetto o assimilati nel nostro pensiero senza troppi contrasti, l’evoluzionismo nella sua forma più compiuta – quella darwiniana – veda a confronto avversari accaniti e appassionati difensori, così come quando fu presentato. D’altra parte, come lo stesso Darwin diceva, egli aveva affrontato il ‘mistero dei misteri’.

A. Lasciamo perdere gli avversari bigotti, che sembrano irrecuperabili, così volutamente ciechi davanti alla massa di evidenze che sempre più arretrano l’origine della vita sulla Terra e l’età della Terra stessa. Piuttosto, sembra essersi diffusa una sorta di pensiero scettico, che suona all’incirca così : quella darwiniana è ‘solo’ una teoria, ma rimane valida perché finora non se ne è trovata una migliore. Mentre l’evidenza è tutt’altra. La genetica, che al tempo di Darwin non esisteva, va confermando puntualmente, con prove scientifiche ben più solide, quanto egli aveva affermato basandosi su scarsi reperti fossili e sulle conoscenze geologiche di allora. Mai avrebbe potuto sognare un tale sostegno postumo alle sue idee.
Ma ora, piuttosto, mi preme affrontare un’altra questione, per evitare di cadere in quell’errore – anzi, in quella vera e propria deformazione non ingenua dell’evoluzionismo nelle scienze naturali – che fu l’evoluzionismo sociale. In che modo noi, antropologi culturali, possiamo ora entrare in questo dibattito ?

B. Non solo ci siamo lasciati alle spalle il positivismo, per cui la realtà intorno a noi era qualcosa di fisso e misurabile, ma anche il più moderno strutturalismo à la Lévi-Strauss, che opponeva la natura alla cultura : la prima era il regno delle regole universali a cui era sottoposto anche l’uomo e che egli non poteva modificare, mentre la seconda era il campo della diversità, delle regole risalenti alle scelte fatte dalle società umane. Se questa distinzione, almeno da un punto di vista strumentale, poteva giustificare una separazione, o almeno una distinzione dei campi di ricerca, tra le discipline di antropologia fisica e di antropologia culturale, nel giro di pochi anni essa ha perduto una sua sostenibilità : da una parte, l’uomo sta cercando di manipolare geneticamente la sua stessa natura, dall’altra le grandi leggi di equilibrio ecologico appaiono sempre più influenzate o addirittura messe in pericolo dagli interventi umani. Quella vecchia affermazione, secondo la quale la natura dell’uomo è la sua cultura, andrebbe intesa in modo più stretto e vincolante di quando fu formulata, e i due campi d’indagine non possono più rimanere separati.

A. Qualcosa possiamo mantenere, forse, della distinzione tra le ‘due culture’, quella sperimentale e quella umanistica, se così vogliamo chiamarle, nel senso che la prima va alla continua ricerca di certezze e conferme, mentre la seconda sembra essere più prudente, limitandosi a dire ‘per quel che ne sappiamo, così come ci appaiono le cose’, avendo appreso dalla storia che non cambiano solo i fatti ma anche i modi con cui pensiamo e con cui giudichiamo i fatti. Un certo distacco può forse giovare a noi utimi per evitarci certi abbagli : come quando, per tornare all’evoluzionismo, pensammo che le nostre fossero le società dei ‘più adatti’ nella lotta per l’esistenza, avendo progressivamente distanziato chi appariva ai nostri occhi rappresentare un ‘prima’ evolutivo.

B. Proprio quel distacco, quel vedere le cose in prospettiva, che tu presenti come virtuoso, a essere oggetto delle più forti critiche, con l’accusa di introdurre incertezze destabilizzanti, un relativismo che condurrebbe al nihilismo.

A. A me, a dire il vero, pare che il relativismo abbia ben poco a che spartire col nihilismo. Il problema, forse, sta nel fatto che si pone al centro di ogni ragionamento l’io pensante intorno a cui, come in un sistema tolemaico, tutto ruota. A mio modo d’intendere, relativismo significa tutto l’opposto : significa porsi all’infuori di noi e vedere ciò che noi siamo, ciò che noi pensiamo, relativamente al variegato concerto dell’umanità. Significa vedere noi stessi attraverso gli occhi degli altri, pensare attraverso il pensiero degli altri, porre al centro non già noi stessi ma la diversità : quella diversità che ci fa vedere noi stessi relativamente agli altri, e rispetto al modo con cui gli altri vedono noi e giudicano il nostro modo di pensare : di pensare noi stessi, di pensare gli altri, di pensare gli universali dell’umanità e del destino umano. Non considerare l’esistenza dell’alterità, dei modi ‘altri’ di pensare è anzitutto un errore metodologico, prima ancora che una questione etica, come viene spesso prospettata.

B. Così presentata, la tua posizione mi appare più convincente e richiama quella che possiamo considerare la vocazione originaria dell’antropologia : dopo il ‘conosci te stesso’ greco, il conoscere gli altri ; altri che non sempre sono ‘il tuo prossimo’, vicino nei modi di vivere e di pensare. Qui potremmo trovare un punto di contatto con il padre dell’evoluzionismo, ben diverso da quello a cui si accennava prima. Darwin afferma spesso che alla base della sua analisi sta l’idea della ‘variabilità’, e che è a partire da questo concetto che si è basata la sua teoria : un’impostazone di grande modernità, che non viene spesso sottolineata. E noi potremmo trovare non già una derivazione, ma piuttosto un parallelo tra la variabilità delle specie in natura e quella varietà dinamica che sta alla base delle diversità culturali e delle loro incessanti trasformazioni.

A. Credo, piuttosto, che vi sia un legame forte tra l’evoluzionismo basato sulla selezione naturale, che avrebbe portato all’uomo moderno, e lo studio, di cui noi ci occupiamo, degli uomini d’oggi : quale sia la nostra condizione, chi siamo, qualunque sia stato il percorso per arrivarci. E’ Darwin stesso a passarci il testimone, quando dice che nelle società moderne la morale e altre regole di convivenza bloccano la selezione naturale e finiscono per vanificare l’effetto anche della successiva selezione sessuale basata sull’attrazione verso certe caratteristiche puramente fisiche del partner desiderato. Dopo la lotta per la sopravvivenza, anche il piacere perderebbe quindi la sua forza : quali sarebbero allora le nostre pulsioni, individuali e collettive ? Forse è di questo di cui dovrebbe occuparsi lo studio della condizione umana oggi.

B. Colgo in quel che dici il pericolo di una confusione circa l’oggetto stesso della nostra attenzione. Non mi è chiaro, cioè, se si parli dell’uomo, come idealtipo, come astrazione rappresentante la specie umana ; oppure degli uomini, quelli in carne ed ossa, diversi l’uno dall’altro. Si tratta di due modi differenti di affrontare un argomento, due modi di ‘fare scienza’, se vuoi, che possono portare a ragionamenti e conclusioni distanti tra loro. Ti faccio un esempio, riportando cose che ho udito. Ipotizziamo una catastrofe ecologica, che possiamo immaginare causata da un balzo in alto delle temperature del pianeta assai maggiore degli aumenti che già ora ci allarmano, che in conseguenza di ciò la vita del genere umano diventi impossibile, ma che in qualche nicchia ecologica qualche uomo e qualche donna in età riproduttiva si salvi. L’ « uomo » come specie è salvo, anche se sono stati cancellati dalla faccia della Terra miliardi di « uomini ». Non è solo un’ipotesi fantascientifica : c’è chi sta pensando seriamente, se le cose dovessero andare davvero male in modo irreversibile, a lanciare nellospazio una navicella con dei novelli Adamo ed Eva per riprodurre su un altro pianeta il genere umano, che sarebbe in tal modo ‘salvo’.

A. Vedo la questione che hai sollevato sotto un’altra prospettiva. A proposito dell’uomo, Darwin afferma che « ..non vi è alcuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori per quanto concerne le loro facoltà mentali ». Qualcosa che certi ricercatori contemporanei sembrano aver riscoperto ! Ma tiene anche a sottolinere un punto per lui essenziale, come abbiamo già avuto modo di ricordare, e cioè che « il variare delle facoltà in individui della stessa specie è per noi un punto essenziale ». E veniamo a un passo ben noto, in cui si afferma che « potrebbe essere stato un immenso vantaggio per l’uomo l’essere derivato da qualche creatura comparativamente debole ». Ciò l’avrebbe spinto ad aguzzare l’ingegno per sopravvivere o, come scrive il Nostro, a sviluppare « poteri intellettivi » e « qualità sociali ». Non andrebbe comunque dimenticato che, per quanto sia grande « la differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori », essa « è certamente di grado e non di genere ».
E’ questo che mi pare essere lo snodo centrale che ci consente di volgere il nostro sguardo al presente e a interrogarci sul futuro della nostra specie senza soluzione di continuità rispetto alle riflessioni di Darwin. Ricorderò quindi senza un ordine preciso gli elementi che, secondo quell’autore, avrebbero edificato questa differenza mentale : l’imitazione, l’attenzione, la memoria, l’immaginazione e, al vertice, la ragione, seguita dalla capacità di astrazione. L’acquisizione del linguaggio, una facoltà superiore rispetto a altre modalità di comunicazione animale, occuperebbe un posto di primo piano ; e poi vi sarebbe il senso del bello e la religione. Viene poi la dimensione collettiva, della socialità, i sentimenti della simpatia e dell’amore, che l’uomo possederebbe in grado assai più sviluppato degli animali sociali : qui, dice, l’espressione più alta è rappresentata dal senso morale, che spingerebbe ogni uomo a desiderare il bene del suo prossimo.
Ho voluto farti questo lungo elenco delle caratteristiche dell’uomo moderno secondo Darwin per mostrarti come tutti rientrino nel nostro concetto antropologico di cultura.
Esaurita la spinta della selezione naturale, e confusa tra altri elementi sociali la selezione sessuale (all’attrazione esercitata dalla bellezza e dalla forza si sono aggiunti il prestigio, la ricchezza), il cammino dell’umanità sembra essere guidato da scelte culturali e da uno sviluppato senso di socialità. In un simile contesto, gli uomini non si troverebbero più in una situazione comune, determinata dal grado evolutivo della specie, pur ammettendo un certo tasso di variabilità individuali e di gruppo ; nè il comportamento individuale potrebbe più ritenersi standardizzato, seguendo comuni e non plasmabili indicazioni fornite dagli istinti. Nell’uomo moderno, è la ragione a prendere progressivemente il posto degli istinti. Se ammettiamo, come ci dice lo stesso Darwin, che « la vera essenza di un istinto è che è seguito quasi indipendentemente dalla ragione », mentre quest’ultima trova in se stessa la propria autovalidazione, ci troveremmo nell’impossbilità di considerare la condizione dell’umanità, e il suo destino, nel suo complesso.

B. Potremmo, tuttavia, interpretare l’evoluzionismo così come ci ha suggerito uno dei suoi più entusiasti seguaci, Stephen Jay Gould, in termini di specie e non già individuali, dell’idealtipo ‘Homo sapiens’. Se, seguendo Gould, riteniamo che il cammino evolutivo proceda non già per lenti e graduali mutamenti cumulativi, ma attraverso una serie di balzi seguiti da fasi di stasi, possiamo considerarci in uno di questi « istanti geologici » di equilibrio, ciò che egli chiama la « punteggiatura » dell’evoluzione ; anche se a noi, che all’interno di esso abbiamo costruito la storia della nostra specie, questo equilibrio appare assai dinamico e turbolento. Se quindi adottiamo i lunghi parametri di misura dei naturalisti e proiettiamo al presente e al futuro dell’umanità l’ipotesi di Gould su come sarebbero andate le cose nel lungo cammino evolutivo della vita sulla Terra, potremmo vedere le cose, per così dire, dall’alto. La storia della nostra specie, che a noi appare caratterizzata da grandi sconvolgimenti sociali come pure dagli effetti dello sviluppo mentale che trovano espressione nelle idee, nelle credenze, nelle scoperte scientifiche e tecnologiche e nelle più varie forme di sviluppo, potrebbe essere nient’altro che la forma variegata assunta dalla nostra specie in uno dei suoi punti di equilibrio evolutivo, esaurita la spinta della selezione naturale e sessuale. E potremmo quindi ritenere che ci attenda, come specie, chissà quale forma evolutiva : non più, o non necessariamente, dipendente dallo sviluppo mentale, e dai suoi prodotti – le conoscenze, i caratteri psichici individuali e le regole sociali, in generale la cultura umana – ma dagli aspetti fisici, genetici della specie, e soprattutto dalle mutazioni geologiche della Terra. Di questo scenario neoevoluzionista possiamo comunque ritenere questo : anche la natura, contrariamente a un detto comune, farebbe dei salti, seppure a una scala temporale diversa da quella della cultura.

A. Una delle cose che sembra più mutare, a sua volta, è proprio ciò che noi pensiamo di essere. Sono rimasto sconcertato nel leggere Richard Dawkins, non soltanto appassionato neoevoluzionista ma scienziato profondo conoscitore dei caratteri genetici e delle attività cerebrali in particolare, definire l’uomo una « macchina vivente ». Nessun intento divulgativo, se mai questa era l’intenzione, potrebbe giustificare una visione così meccanicistica. Ma Dawkins vi insiste : dopo aver sottolineato l’incredibile complessità del funzionamento del cervello, anche in termini semplicemente quantitativi di elementi componenti di quell’organo, cade nella banale analogia con il computer. E dello stesso tono è la sua analogia tra l’occhio umano e la macchina fotografica. Sappiamo bene che l’uomo ha preso a modello certe proprie funzioni di cui riteneva di conoscere i meccanismi e la logica soggiacente, per costruire macchine, che fosse per intenti pratici o per un sogno faustiano. Ma l’operazione inversa è concettualmente fuorviante.
Il cervello, evolutosi per rispondere alle esigenze naturali del suo corpo e dell’ambiente - il vantaggio della gracilità, secondo Darwin -, così da dare risposte adattive particolarmente appropriate, è stato l’elemento che ha portato l’uomo dapprima a adattarsi al proprio habitat e quindi a intervenire su di esso, in modo talmente massiccio da fare temere una deriva antievolutiva, che metta in pericolo un equilibio ecologico tra uomo e ambiente e la vita stessa della nostra specie sul pianeta. Ha costruito un suo proprio mondo, quello della cultura, con propri obiettivi e regole per una vita in collettività, nelle più disparate varianti, che hanno portato anch’esse a mutazioni nella condizione umana e nella sua presenza sulla Terra ; com’è avvenuto, ad esempio, con i movimenti migratori di massa.
Infine, di recente, è arrivato a indirizzare interventi di manipolazione genetica umana, infrangendo quella linea di separazione tra natura e cultura e sollevando interrogativi sui pericoli e sulla legittimità di questi interventi, che potrebbero preludere all’assunzione del controllo da parte della cultura dei meccanismi di riproduzione umana, con la conseguente possibilità di indirizzarla, secondo scelte più o meno condivise. E anche qui ritroviamo quel contrasto di scala dimensionale tra le vicende
umane indotte da interventi culturali – dalla manipolazione genetica rivolta a singoli casi di laboratorio al degrado ambientale reso progressivamente inadatto alla vita sul pianeta, fino alla stessa possibilità di distruzione atomica – e il destino della nostra specie all’interno dell’evoluzione geologica più o meno ‘punteggiata’ - del pianeta.

B. La nostra miopia, che ci porta a mettere ciò che noi pensiamo, e ciò che noi pensiamo di essere – la cultura, quindi – al centro di tutto si rivela in tutta evidenza proprio considerando queste differenze di scala. La grande paura atomica riguarda la distruzione di città, di parti di nazioni, magari la morte di milioni di persone, ma non i sette miliari di abitanti del pianeta. La peggiore catastrofe ecologica provocata da interventi umani potrebbe provocare l’innalzamento della temperatura della Terra di tanti gradi sufficienti al scioglimento dei ghiacciai, del livello delle acque marine sufficiente alla sommersione degli abitati costieri. Si potrebbe persino immaginare, in una visione forse fantascientifica, un pianeta arroventato al punto da renderlo inadatto alla vita umana, a meno di ipotizzare una ulteriore variazione adattiva della nostra specie a mutate condiioni ambientali. Ma gli appelli a ‘salvare il pianeta’ rivelano come l’uomo, ponendosi al centro di ogni cosa, sia portato a considerarsi un demiurgo, persino a livello geologico. Una Terra arroventata potrebbe benissimo continuare a esistere senza umanità, magari abitata ancor da forme viventi, come gli insetti, meno dipendenti dalla temperature esterna.

A. Da quello che dici, mi pare di intravvedere una distinzione di nuovo genere rispetto all’opposizione che siamo abituati a considerare : quella che vede, da una parte, gli evoluzionisti atei e dall’altra chi segue la tradizione religiosa. Giunti come siamo nell’elaborazione culturale delle nostre conoscenze e della possibilità di intervenire sulla nostra natura così come su quella inanimata, fino al punto di poter determinare la nostra stessa autodistruzione e la modificazione delle condizioni ecologiche del pianeta, la linea di demarcazione di chi si interroga sul ‘chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo’ dovrebbe piuttosto vedere, da un lato, tutti coloro che ritengono l’uomo governato da leggi naturali piuttosto che da leggi sovrannaturali – che si tratti cioè di selezione naturale oppure di ‘disegno intelligente’ di origine divina ; e, dall’altra, chi ritiene l’uomo demiurgo, arbitro incontrollato del proprio destino in quello che potremmo considerare un delirio di onnipotenza se non fossimo noi stessi parte in causa e quindi, per principio, impossibilitati a giudicare dall’esterno rispondendo a quegli interrogativi.

B. Puoi metterla in questo modo, anche se io mi atterrei piuttosto a evidenziare le diverse caratteristiche dell’evoluzione naturale e della dinamica culturale, ripensando alla distinzione tra ciò che di naturale e ciò che di culturale orienta il comportamento umano. Penso alla separazione tra istinti e ragione, che Darwin riprende dal senso comune. Le moderne neuroscienze, esplorando l’attività del nostro cervello e la localizzazione delle sue molteplici funzioni, ci invita a non considerare così netta la separazione tra ciò che viene ricevuto passivamente e replicato nel comportamento – gli istinti naturali – e ciò che viene in modo autonomo elaborato, trasmesso e appreso. La prima dimensione appartenente all’ambito naturale, la seconda a quella della cultura. Quando si afferma che la natura dell’uomo è la sua cultura, si intende dire che alla base di ciò che rende unica l’evoluzione umana, ciò che ci ha resi gli esseri pensanti, ‘superiori’ rispetto alle altre specie, è proprio il fatto che ci siamo liberati dalla schiavitù del comportamento deterministico indotto dagli istinti. Ma stiamo iniziando a conoscere le basi biochimiche di alcune nostre fondamentali attività culturali, dalla memoria al linguaggio, e ciò può indurci a considerare non già un’oposizione ma piuttosto una collaborazione tra ciò che è la nostra natura e vi è depositato e i modi con cui la nostra cultura utilizza questo potenziale naturale. Ricadendo anche noi nell’abusata analogia con il computer, potremmo dire che siamo il risultato di una collaborazione tra un hardware di cui fino a epoca recentissima non potevamo immaginare la straordinaria complessità (altro che semplici misure di peso e dimensioni del cervello !) e un software che non è pura fenomenologia di comportamenti individuali e collettivi.

A. Mentre parlavi, osservavo il volo di un uccello. Fin dall’antichità, abbiamo sempre espresso ammirazione per la capacità degli uccelli migratori di orientarsi, spostandosi a grandi distanze, e di utilizzare al massimo le meravigliose caratteristiche del loro corpo sfruttando correnti aeree e individuando le basi ideali per la sosta durante i loro tragitti. Li abbiamo considerati delle macchine adatte a eseguire le indicazioni infallibili fornite loro da un imprinting istintuale. Ma quando lungo una rotta tradizionale si creano zone inadatte a essere sorvolate, a causa di inquinamento dell’aria o per altri mutamenti metereologici, gli uccelli sono in grado di ridisegnare mentalmente un’altra rotta, altrettanto efficace per raggiungere la meta. Essi mostrano quindi di possedere quella plasticità, svincolata dalla passiva replicazione istintuale, che noi consideriamo la prima caratteristica della cultura, l’essenza stessa del comportamento umano e la sua prima forza. Ma vi è di più. Non si è prestata molta attenzione a quello che precede la fase del volo. Gli uccelli devono evidentemente sapere che partiranno per un lungo viaggio, e dove andranno, prima di intraprendere il loro tragitto migratorio : essi ‘fanno il pieno’ energetico, controllano accuratamente il loro piumaggio, formano delle squadre di dimensioni ottimali per l’aiuto reciproco. Mostrano quindi di possedere capacità previsionali e di avere già nella loro mente una mappa del percorso, utilizzando evidentemente le risorse della loro memoria : non si limitano a eseguire gli ordini del loro istinto, anche se non si può in alcun modo ritenere che i loro comportamenti siano il risultato di ragionamenti consapevoli. Le cose sembrerebbero essere più sfumate di quanto viene presentato con l’opposizione tra natura e cultura : la prima, per quanto riguarda i comportamenti, dominata dagli istinti, la seconda guidata dalla ragione. Mettiamo ora a confronto il volo degli uccelli, di cui ho parlato finora, con quello degli aerei. Ciò che i primi sembrano raggiungere con facilità e assoluta affidabilità, è ottenuto dall’uomo con procedimenti complessi e macchinosi, che richiedono la collaborazione di molte competenze e di tecnologie sofisticate. Per superare i limiti delle proprie dotazioni naturali – in questo caso, spostarsi camminando – l’uomo mette in campo le potenzialità affinate dalla cultura, raggiungendo i propri scopi in modo ‘innaturale’ e artificioso. Macchine pesanti che superano la gravità con la potenza dei motori, collegamenti radio che guidano i piloti lungo rotte calcolate e controllate da terra...
Quella del volo degli aerei potrebbe essere una metafora utile a illustrare il cammino intrpreso dall’umanità. Staccatosi da terra e dai riferimenti affidabili offerti dalla condizione raggiunta evolutivamente per i propri comportamenti, fin dove potrà l’uomo proseguire nel proprio cammino affidandosi alle rotte che egli stesso va tracciando, lungo le diverse direzioni suggerite dalle culture e seguendo mutevoli percorsi, senza poter contare sulle verifiche più stabili e affidabili offerte dalla natura ?

B. In effetti, a questo punto l’uomo sembra essersi ‘staccato da terra’ e non seguire più le indicazioni per un comportamento naturale, più o meno ripetitivo, per definire piuttosto egli stesso le proprie regole di vita. Questo, di per sé, non vuol dire che, affidando il prprio comportamento a proprie scelte e a propri progetti di vita, l’umanità si sia svincolata dalla guida imposta dalle leggi naturali, come quelle dell’evoluzionismo darwiniano o da un disegno sovrannaturale. Potremmo essere, per dirla con Gould, in un ‘punto’ particolare del nostro cammino evolutivo, e l’uomo potrebbe illudersi di essersi svincolato dalla propria condizione naturale con la forze della ragione.

A. No, dobbiamo pensare alla ragione stessa come parte della nostra natura. E’ questo un approccio veramente antropologico. E’ in tale prospettiva che dobbiamo interrogarci sul ‘dove andiamo’, dopo aver fatto tesoro di quanto abbiamo appreso e riflettuto sul ‘chi siamo’ e ‘da dove veniamo’. Consideriamo la crescita demografica della nostra specie. L’andamento esponenziale della curva di crescita coincide perfettamente con l’evoluzione culturale delle nostre società. Le società arretrate hanno un basso tasso di fertilità, a causa delle epidemie a cui sono soggette, della cattiva alimentazione, di condizioni di vita poco igieniche e della morte di molti individui in età riproduttiva in faide, guerre e incidenti, e della pratica diffusa dell’infanticidio come regolatore della dimensione del gruppo e strategia domestica. E’ quanto osserva Darwin e molte ricerche antropologiche sul campo hanno in seguito confermato. Nelle società moderne, d’altro canto, osserva ancora Darwin, ai vantaggi igienici e alimentari si sommano fattori ‘morali’, che vietano gli infanticidi e spingono la società a prendersi cura particolare dei minorati, con il risultato di una forte crescita. Oggi, tuttavia, sembrerebbe avvenire un fenomeno inverso : una società come il Giappone, dove le condizioni di vita sono tra le migliori al mondo, raggiunge a stento un indice 1,3 di riproduzione, ben lontano dall’equilibrio, e la stessa Italia ha un tasso di crescita negativo. Sono fenomeni contingenti e locali, che i sociologi attribuiscono a cause diverse e spesso tra loro opposte – alto benessere piuttosto che incertezza economica – e che le nazioni pensano di poter governare con interventi sociali e normativi.

B. Considerando l’umanità nel suo complesso, la crescita appare fuori controllo, oggi assai più che ai tempi di Darwin, che pure se ne mostrava preoccupato, facendo affidamento su soluzioni malthusiane. Ogni società sembra voler fare da sé, riferendosi a principi elaborati all’interno della propria cultura o a strategie particolaristiche : meno figli come obbiettivo egoistico, edonistico ; più figli come strumento di affermazione di un gruppo sociale nei confronti di altri. Estesa evoluzionisticamente la fertilità a tutti i periodi dell’anno e abbandonato ogni riferimento comune a tutta la specie, l’umanità adotta, in questo come in altri campi, comportamenti differenti all’interno di nicchie culturali specifiche e mutevoli. Anche se da varie parti e con diversi accenti si fa riferimento a principi e a modi di affrontare comuni problemi che dovrebbero essere recepiti universalmente. Ma, al tempo stesso, l’attaccamento ai propri valori è considerato un legame irrinunciabile, il fondamento della propria identità, la guida alle azioni personali e collettive. Non è questo un punto critico, che potremmo individuare evoluzionisticamente nel passaggio dall’affidamento a regole comuni e non mutevoli fornite dall’istinto all’affermarsi della ragione con le sue molteplici interpretazioni di ciò che è positivo o negativo, e della morale, che in vario modo distingue ciò che è bene da ciò che è male ? Nei suoi scritti, Darwin saluta l’avvento della morale nelle società umane evolute ; ma sappiamo quanto dovette lottare, prima di tutto con se stesso, per proporre le sue teorie, che non erano compatibili con la morale corrente.

A. Gli etologi, tuttavia, sembrano ritrovare nel comportamento dell’uomo d’oggi gli impulsi originari della sua specie, quali l’istinto di sopravvivenza e l’aggressività. Non possiamo forse considerare, come è stato detto, che alcune manifestazioni culturali, dalla guerra allo sport, siano un’espressione sociale di impulsi aggressivi che condividiamo con altre specie ?

B. Ci andrei cauto : chi sostiene questo, dà spesso l’impressione di andare alla ricerca, in modo non ingenuo, di giustificazioni alla violenza ; la quale è una ‘qualità’ culturale umana, che non possiamo attribuire al comportamento aggressivo animale. E certe teorie che considerano la guerra un equilibratore demografico non sono troppo distanti da quelle che hanno portato all’Olocausto. L’uomo non può fingere di non sapere quello che fa : se la sua natura è la sua cultura, il suo comportamento deve essere guidato anche dai principi del bene e del male, e dalla consapevolezza delle sofferenze che è in grado di infliggere. Il problema, piuttosto, sembra essere quello che non vi è accordo su ciò che è bene e ciò che è male, e che molte società, pur proclamando l’universalità dei propri principi, fa riferimento al proprio modo di pensare e a quelli che vengono chiamati i propri, particolari valori culturali.

A. Veniamo al punto centrale della nostra riflessione, che ha preso l’avvio da una sorta di passaggio delle consegne dalla ‘natura’ alla ‘cultura’ dell’uomo, cercando di mettere in evidenza continuità e discontinuità di questo snodo cruciale anche per i campi di studio che vi si trovano coinvolti. Seguendo l’evoluzionismo, possiamo considerare che l’uomo come specie abbia trovato un punto di forza nella sua gracilità fisica puntando tutto, selettivamente, sulle capacità mentali. Sviluppando queste, si è andato progressivamente distaccando da una serie di condizionamenti fisici e sensoriali per elaborare riferimenti autonomi al proprio comportamento. Si è costruito un habitat residenziale, territoriale e di vita sociale ed ha definito le regole per la convivenza in questo ambiente. In questo contesto, sempre più il suo comportamento individuale e collettivo è stato guidato da idee e principi che andava elaborando e che si depositavano nella memoria collettiva, formando la sua cultura. Al tempo stesso, si andava affievolendo quella guida che gli derivava dalla sua natura e che per ciò stesso egli si trovava a condividere con tutti i suoi simili, non con il proprio gruppo soltanto. Le straordinarie potenzialità della sua mente l’hanno reso in larga parte arbitro dei propri destini, e in modo crescente questo percorso è soggetto alla riflessione critica dell’uomo e ne è da ciò determinato. Ma è come camminare, lungo il filo del tempo che porta dal presente al futuro, senza avere una rete di protezione rappresentata dalla condivisione dei comportamenti individuali con l’interesse comune della specie ; che è quanto, in condizioni normali, possiedono le altre specie animali, le quali seguono la linea infallibile del proprio interesse intraspecifico. Interesse intraspecifico che, a sua volta, si mostra essere parte armoniosa di un equilibrio globale (la vera globalizzazione è questa !), costituirne anzi un elemento indispensabile.

B. Osserviamo in concreto ciò che è intorno a noi, per quel che possiamo, e di cui noi stessi facciamo parte. Soltanto pochi decenni fa, noi antropologi andavamo a fare ricerca in luoghi remoti, idealmente in isole sperdute negli oceani, dove incontravamo uomini di tante culture diverse, ognuna originale a suo modo. Ora però, come si afferma da ogni parte, viviamo nell’era della globalizzazione, dove tutto è connesso. Gli scambi di idee e di cose sono planetari ; si formano unità politiche sovranazionali, esistono organizzazioni internazionali dove si discutono i problemi di ogni angolo del globo ; la scienza fa enormi progressi per alleviare le sofferenze egli uomini e trovare soluzioni ai suoi problemi, estendendone le aspirazioni. E ancora : anche là dove si impongono i principi della democrazia, si affermano figure di leader che concentrano in sé poteri quasi illimitati. Tutte queste cose disparate, che osserviamo nel mondo contemporaneo, sembrano andare nella direzione di un controllo sempre più saldamente nelle mani dell’uomo, o almeno di alcuni di essi. E ciò potrebbe far sperare nella possibilità di affrontare in modo adeguato – in modo globale, appunto -, e in parte risolvere, i più gravi problemi dell’umanità, che mai come oggi sono sotto gli occhi di tutti.

A. A me pare invece che, aumentando di scala, i problemi dell’umanità aumentino di pari passo anche di gravità. Affievoliti o perduti progressivamente dei riferimenti certi, l’uomo rimane solo a orientare i propri comportamenti, che non hanno altro controllo se non i giudizi che l’uomo stesso elabora, in una sorta di circolarità. Mentre i problemi reali crescono, in molti casi le idee sembrano chiudersi in se stesse, in autovalidazioni e tautologie, e le soluzioni vengono cercate in opposizioni frontali, nell’affermazione cieca del più forte. Il campo delle conoscenze scientifiche si espande in modo spesso esaltante, le invenzioni e la creatività umana aumentano ; ma l’umanità nel suo complesso sembra avere perduto il controllo della situazione, interna ed esterna, sociale e ambientale. Dopo essersi affermato come dominatore assoluto, la specie umana sembra essere entrata in una fase di declino, e per le stesse cause che hanno portato al suo successo. Se ciò può preoccupare o angosciare dall’interno della nostra condizione, in una prospettiva naturalistica non può sorprendere. Tutte le specie passano attraverso fasi di crescita e di declino, talvolta fino a sparire. Ciò che rende particolare il declino della specie umana sembra essere il fatto di essere autodeterminata, di dipendere cioè da cause endogene. Guida straordinariamente efficace per il successo, la mente, sviluppando le capacità di ragionamento, di riflessione e di guida all’azione, potrebbe rivelarsi l’arma letale della autodistruzione, o almeno, per ora, del declino della specie umana.

B. Cultura contra natura, allora ? E’ una conclusione inaccettabile, visto che, come abbiamo detto, le due cose nell’uomo non possono separarsi. E’ forse nella nostra natura dover accettare il rischio di vivere.

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