In giapponese, il nome del rosa è ‘pinku’. E ‘pinku’ è ‘kawaii’. Per usare le parole dell’artista contemporaneo Takeshi Murakami, “la nozione di ‘kawaii’ è totalmente positiva. Esprime l’aspetto luminoso di un mondo fatato” (2002). E’ a partire da questi due termini che intendo sviluppare qualche riflessione.
Non credo ci sia bisogno, nel nostro caso, di scomodare la tanto spesso citata quanto poco documentata ‘ipotesi Sapir-Whorf’, alla quale si attribuisce l’idea che sia la lingua – e cioè siano LE lingue - a modellare i concetti. Il nostro è il classico caso in cui anziché teorie generalizzanti e di ampio respiro è il caso particolare a essere illuminante.
Pinku non è che la parola inglese ‘pink’ pronunciata alla giapponese (un giapponese avrebbe difficoltà a troncare sulla kappa: anche da qui derivano certi problemi nell’apprendere l’inglese) a partire dalla sua scrittura in ‘katakana’, l’alfabeto fonetico utilizzato per traslitterare le parole straniere, composto di segni sillabici che comprendono consonanti e vocali insieme. Cosa ci dice questo? Che prima del contatto con l’Occidente, ben rappresentato da quella contaminazione linguistica, non esisteva un termine per indicare un certo intervallo nella gamma del rosso? No, possiamo ritenere che quello che nella nostra lingua indichiamo come ‘rosa’, venisse indicato in passato in Giappone con ‘momoiro’. Che significa ‘momoiro’? Letteralmente, ‘colore-pesca’, e cioè il colore dei fiori di pesco. Possiamo vedere in molti disegni e stampe e in stoffe per kimono quanto frequenti fossero rami fioriti di pesco, qualcosa che evidentemente, anche se meno dei fiori di ciliegio, era provvisto di speciale apprezzamento estetico e simbolico, indice di delicatezza e di rinnovemento primaverile.
Cosa afferma la fisica ottica? Che vi è una continuità nello spettro della rifrazione luminosa che trasmette ai nostri occhi la percezione di ciò che noi indichiamo come il colore degli oggetti e del mondo intorno a noi. Tale continuità viene generalmente indicata in modo grafico. Ma quando vogliamo introdurre un criterio di classificazione, adottiamo degli attributi linguistici, dei numeri, dei segni, oppure, nel caso dei colori, costruiamo una scala cromatica, anch’essa convenzionale, introduciamo comunque una discontinuità per potere classificare e dare un ordine al mondo e nella percezione che ne abbiamo.
La tonalità cosiddetta ‘rosa’ appare agli occhi dei giapponesi di oggi allo stesso modo che in passato e allo stesso modo che appare a noi. D’altra parte, una rosa è in Giappone altrettanto rosa che in un’altra parte del mondo, e agli occhi dei giapponesi essa appare allo stesso modo che appare a noi. Che bisogno vi è stato di introdurre un nuovo modo per definire quella tonalità, a partire non già da una diversa caratteristica isolabile all’interno della varietà cromatica percepibile, ma adottando un nuovo termine linguistico? Rompendo, in tal modo, una corrispondenza consolidata tra il modo di vedere e il modo di dire ciò che si vede e si pensa di vedere.
Dobbiamo ritenere che il nome del rosa ‘momoiro’ fosse non già un modo per indicare un certo segmento di spettro luminoso nella scala cromatica, bensì piuttosto un attributo culturale di qualcosa -i fiori di pesco-, ai quali corrispondono alcune caratteristiche, nella società che così si esprime. Introducendo il nuovo termine ‘pinku’, i giapponesi non hanno introdotto il rosa nella loro percezione della natura, affinando, per così dire, il loro modo di vederla percettivamente, ma hanno espresso una nuova sensazione nella propria cultura: e l’hanno sottolineato adottando una denominazione straniera.
Come molto intuitivamente ha scritto Harumi Befu, nel Giappone contemporaneo ciò che ha un sapore, una connotazione occidentale è provvisto di uno status superiore, non in quanto straniero, ma in quanto adottato nella sfera pubblica, quell’area ‘tatemae’ espressione della collettività e delle sue regole. L’adozione di stilemi occidentali (così come, in passato, di ciò che veniva dalla Cina, dal sistema di scrittura al confucianesimo e al buddismo) rappresenta quindi al tempo stesso una concessione all’esotismo e una forma di rispetto della società e delle sue regole, nonché dei comportamenti e degli stili di vita connessi, in definitiva degli interessi nazionali; non già un ‘tradimento’ della tradizione, come si potrebbe essere portati a credere. Si concilia in tal modo il fascino esercitato anche in Giappone, a livello individuale, soprattutto tra i giovani, dai modelli culturali occidentali, con il sentimento che l’appropriazione e l’adattamento di quei modelli non si oppongano ai valori della collettività ma anzi ne diventino essi stessi un’espressione.
Il rosa ‘pinku’, non più legato alla natura locale –i fiori di pesco- ma alla cultura straniera, come colore che esprime un mondo infantile e innocente, insieme a altre tonalità cromatiche tenui e brillanti, rappresenta emblematicamente, in modo esteriore - e quindi, provvisto di prestigio in quanto ciò che è esteriore è pubblico e condiviso - l’espressione di una visione che i giovani giapponesi attribuiscono all’Occidente e che ad essi appare efficace come modo per distinguersi da un passato che era, anche, diversamente colorato. Se la reazione che avremo noi occidentali sarà quella di affermare che il nostro mondo non è tutto rosa, non faremo che dare una conferma a quel modo di vedere e cioè di considerare il rosa. Il modo di vedere di cui stiamo parlando, ricordiamolo, non fa riferimento alla percezione così com’è intesa dalla fisica ottica, ma come è costruita culturalmente e che comprende ciò che gli altri considerano spesso degli stereotipi: e gli esotismi, dall’una e dall’altra parte, appartengono a questa categoria.
Quali erano, piuttosto, i colori dominanti del passato, in Giappone? Un’indicazione possiamo averla leggendo l’elogio che fa dell’ombra Tanizaki in un suo racconto. Il lato ombroso di un luogo, così come quello della vita, vi si dice, è misterioso e affascinante finché non siamo in grado di afferrarne le forme, di distinguerne i contorni, di riconoscerne le caratteristiche, in una parola di appropriarcene con lucidità intellettuale, lasciando che i sensi siano al tempo stesso ingannati e stimolati. E’ un mondo in cui i colori sono oscuri, sfumati, evanescenti, trasmettono una sensazione di umido e di instabile, mutevole a ogni vibrare della natura vegetale, dell’aria, della terra.
Guardando al passato remoto, troviamo quello stile di vita aristocratico, dominato al tempo stesso da valori militari e spirituali, che la riforma Meiji impose all’interno e all’esterno come la versione ortodossa della propria identità culturale, quella dei samurai, dello Zen e delle arti marziali, che tanto ha affascinato l’Occidente. Un mondo di uomini, monaci, aristocratici e guerrieri che rivestivano le loro donne di kimono coloratissimi perché somigliassero a dei fiori, ma riservavano per sé e il proprio ambiente i colori più austeri. Il nero anzitutto, colore dell’inchiostro usato nell’arte calligrafica come pure per rendere più impressionanti al nemico elmi e corazze; colore che distingueva i monaci buddisti, Zen e di altre sette, dal candore dei sacerdoti shintoisti, gli uni familiari con la morte e l’aldilà, gli altri che ne rifuggivano temendone la contaminazione. I colori delle abitazioni erano quelli naturali del legno e delle stuoie. Là dove era necessario attirare l’attenzione, su un evento o un personaggio, si usava l’oro, simbolo di prestigio e di potere, ma soprattutto riflesso e mimesi della luce solare. Ecco quindi i paraventi ricoperti di sottili lamine d’oro, posti alle spalle di un capo, di un oratore, di una coppia di sposi. Ecco i tetti anch’essi rivestiti d’oro della pagoda di Kinkakuji a Kyoto, oggetto di culto estetico per i giapponesi, quel ‘padiglione d’oro’ che Mishima in un suo celebre racconto immagina in fiamme.
I colori più specificamente giapponesi sono ancora altri, specie l’indaco e il ‘murasaki’; quest’ultimo viene convenzionalmente tradotto nelle lingue occidentali con ‘porpora’, ma a chi scrive la tonalità di ciò che i giapponesi denominano in quel modoappare piuttosto bruno-violaceo. Non è che un caso della sempre incerta e inevitabilmente arbitraria sovrapposizione tra denominazioni in sistemi linguistici diversi, che fanno riferimento a particolari scomposizioni nell’adottare quella discontinuità a cui si faceva riferimento.
Le stoffe di cotone e di canapa usate principalmente per gli abiti venivano immerse, per renderle più resistenti -ma anche più attraenti, con l’introduzione di motivi decorativi geometrici- in una tintura vegetale, che assumeva toni più o meno intensi a seconda dei tempi di immersione e dei modi del trattamento. Il colore indaco così ottenuto ha formato per secoli una sorta di ‘basso continuo’, un tono uniforme, caratterizzante soprattutto il mondo popolare rurale e urbano: il trattamento era poco costoso e non richiedeva tecniche complesse. Oggi, è un colore che evoca nostalgicemente il buon tempo passato. Murasaki era, invece, un colore elegante, ombroso, indefinibile, aristocratico.
Le splendide sete dei kimono che noi ammiriamo nelle immagini del passato e nelle versioni moderne ci appaiono poi un’esplosione di rossi e di altri colori vivacissimi. Non tutti sanno che le sete da kimono originariamente erano ‘écru’, e che il colore nelle sete fu introdotto per venire incontro ai gusti dei primi mercanti olandesi: splendido esempio di ‘invenzione’ dell’esotismo e, al tempo stesso, esempio di un’altra delle mille operazioni di adozione interculturale esercitate dai giapponesi nel corso della loro storia . L’austerità, per l’aristocrazia, e la povertà, per le classi popolari, imponevano stili di vita dai toni e dai colori smorzati, poco illuminati nelle ore notturne dalle lampade rivestite di carta, qualcosa che trasmetteva un sentimento di intimità assai caro agli uomini e alle donne d’allora.
I giovani giapponesi rifuggono da tutto questo, aborriscono l’ombra. A Shinjuku e a Shibuya, più che in qualsiasi metropoli occidentale, la notte è illuminata da mille luci e da cento colori, tutti forti e brillanti, tutti pulsanti e mobili. L’eterna lotta tra la vita e la morte è giocata simbolicamente tra la luce e l’ombra di una notte che non viene più, nel mondo degli uomini.
Quanto al pinku, il suo primo significato sembra quello di essere un colore senza passato, senza una sua collocazione nella storia e nella cultura giapponesi, e perciò privo di una sua denominazione nella lingua locale. Dal punto di vista occidentale, l’interpretazione è semplice, per non dire semplicistica: è un altro dei modi con cui si vuole imitare l’Occidente, in questo caso cercando di somigliare alle ‘teen-agers’ americane, o meglio a una loro immagine stereotipata. Proprio quest’ultimo punto ci può aiutare a superare un’ analisi troppo impressionistica. Ciò che interessa nel gusto ‘kawaii’, con i suoi colori, è proprio l’icona, l’immagine stereotipata, non la realtà dei giovani d’oggi occidentali e le loro mode. Non vi è nulla di più demodé di questa immagine sdolcinata, tra gli adolescenti occidentali d’oggi, che hanno modelli ben più ‘hard’, a cui corrispondono altri movimenti giovanili giapponesi. Quell’immagine stereotipata adottata dall’esterno viene poi metabolizzata in un discorso culturale interno che da quel tipo di operazioni trae impulso: né più né meno di come oggi i colori sgargianti dei kimono -dove ritroviamo i rami di pesco- siano, per i giapponesi stessi, quanto di più tradizionale e autentico possa esserci, la quintessenza della giapponesità.
Se pinku è la storia dell’adozione di un colore ‘straniero’ e dei suoi significati, il passaggio in senso inverso è uno dei capitoli più interessanti dei rapporti tra Oriente e Occidente. La rappresentazione del ‘mondo fluttuante’, dietro l’influenza buddista del concetto di impermanenza di tutte le cose, produsse in Giappone la corrente pittorica ‘ukiyo-e’, che mirava a trasferire nei dipinti e nelle stampe le mutevoli luci della natura. Giunte in Europa, quelle immagini hanno rivoluzionato, attraverso il filtro degli sguardi dei nostri artisti, il modo di vedere di tutti, qualcosa che non è confinabile, come spesso si fa, in un episodio della storia dell’arte, al capitolo ‘impressionisti e post-impressionisti’. L’originalità tecnica della pittura ‘ukiyo-e’ consisteva nell’uso di colori piatti accostati (che nelle stampe venivano dati con un tampone, una tecnica che fu chiamata ‘au pochoir’) non mescolati ma eventualmente racchiusi in bordi neri, il ‘cloisonné’. Quella tecnica consentì agli artisti europei di uscire all’aria aperta trovando un modo per rappresentare i mille mutevoli colori della natura: si pensi alle ‘ninfee’ di Monet, o a quanto le sue visioni della cattedrale di Reims alla luce dei diversi momenti della giornata richiamino le ‘trentasei vedute del monte Fuji, di Hokusai.
Oggi, Murakami, con il suo gruppo di artisti, propone un movimento che chiama ‘superflat’ e che egli stesso considera un ‘nuovo giapponismo’, rappresentazione del mondo di oggi, appiattito dalla globalizzazione. Mentre Koji Mizutani (serie ‘Merry’, 2001) presenta il mondo delle coloratissime teen-agers di Harajuku, vetrina dei gusti ma anche espressione di un tipo di ideologia dei nuovi giapponesi metropolitani. Dominano i colori universalmente considerati come infantili, primo fra tutti il pinku, insieme all’azzurro e altre tinte pastello.
Qual è, nel modo di pensare di questi adolescenti, il significato di tali scelte, nell’abbigliamento anzitutto, ma anche nei beni di consumo, nell’arredamento e in una quantità inverosimile di pupazzi e bamboline con cui decorarsi e decorare il proprio habitat metropolitano? Uno stile che viene messo in scena dagli ‘aidoru’ (dall’inglese ‘idol’). La parola-chiave, mille volte ripetuta, è appunto ‘kawaii’. Il suo significato è: grazioso, tenero, delicato, qualcosa che richiama il mondo innocente dell’infanzia e, come diceva Murakami, una rappresentazione favolistica del mondo. Cercare di riprodurre quel mondo fatato, da adolescenti o già giovani adulti, significa prendere una posizione rispetto alla propria condizione di vita nel mondo in cui si sono trovati a crescere, esprimere un desiderio d’identità che è in opposizione, dietro alla delicatezza dei modi in cui si manifesta, rispetto ai modelli che la società ha loro proposto. Tingersi i capelli e adottare mode e modi infantili esprime un rifiuto nei confronti del grigiore impiegatizio, delle uniformi dei doppiopetto maschili e delle tenute da scolaretta.
Il passato, in Giappone, ha il colore della morte atomica, della polvere radioattiva di Hiroshima e Nagasaki, qualcosa che dietro l’apparente amnesia di un mondo frenetico e consumista non si è cancellato nella memoria culturale della nazione. I giovani rifiutano quel passato, non vogliono esserne considerati gli eredi, vanno elaborando i propri stili di vita.
Vorrei avanzare un’interpretazione del significato che possiamo attribuire all’adozione di quel modello kawaii con i suoi colori, e che ci riporta a una storia tutta giapponese. Il rifiuto dei giovani è rivolto a un’etica e a un modello sociale dominati da un’ideologia maschilista: la guerra, la dedizione al lavoro al limite del fanatismo, le gerarchie sociali, nel rispetto di regole ferree, di fronte alle quali i sentimenti individuali devono scomparire. Ma proprio nel mitico tempo dei samurai, quando tutto ciò prese forma, vi fu chi ne diede una rappresentazione grottesca, accentuandone gli eccessi. Okuni, la leggendaria figlia di un sacerdote del tempio di Izumo, iniziò a danzare ‘alla maniera kabuki’, e la sua eredità fu raccolta dal teatro omonimo. Tutte donne, inizialmente, sacerdotesse come Okuni; poi, quando il kabuki divenne il teatro della ricca borghesia cittadina, tutti uomini, anche per i ruoli femminili. Inizialmente una manovra repressiva, per porre freno all’eccessivo successo delle attrici da parte del pubblico, da parte del severo shogunato Tokugawa, che si trasformò in raffinata arte di travestimento e di più o meno ambigue inversioni di ruoli sessuali: dietro il ruolo femminile (‘onna’), l’identità maschile dell’attore doveva restare evidente, ed era questo gioco di parti a dare valore alla recitazione.
L’esempio del kabuki può mostrare, a mio parere, come in Giappone una certa critica sociale abbia preso origine da una critica a ruoli sessuali rigidamente definiti e a un tentativo di appropriarsene, reinterpretandoli. E’ forse questo il messaggio che sta dietro allo stile kawaii e ai suoi colori: una femminilizzazione che, per le ragazze, significa accentuazione di certi stereotipi e per i ragazzi rifiuto di adottare quelli che la società imporrebbe loro, con l’obiettivo comune di opporsi alle regole sociali che si vorrebbero iscritte nell’appartenenza sessuale, e agli stili di vita imposti.
Le narrazioni disegnate dette ‘manga’ (‘immagini spontanee’, come definì i suoi schizzi Hokusai) sono il ‘genere’ considerato più rappresentativo della condizione dei giovani giapponesi e delle loro fantasie. Anche qui ritroviamo quel desiderio di rompere schemi rigidi di separazione tra i generi sessuali. Come scrive un loro attento studioso, Paul Gravett, in alcuni popolari autori di manga “i loro struggenti melodrammi hanno eroi maschili, in realtà caratteri solo maschili, ma sono stati femminizzati, spesso hanno un’apparenza androgina, con lunghi capelli e ciglia” (Their deeply-moving melodramas had male roles, in fact all-male characters, but they were feminized, often androginous-looking with long hairs and eyelashes) (Gravett 2004: 80). E in un’altro sotto—genere, osserva lo stesso autore, quello dei manga per ragazze, i caratteri “perfetti” sono considerati quelli “asessuati”(id.).
Non si tratta, forse, di un’effimera moda giovanile, ma della ricerca di una nuova identità, affermata attraverso una presa di distanza radicale rispetto ai modelli delle generazioni precedenti, così rigidamente imposti dall’etica sociale, e che vengono identificati con le arti marziali e le guerre del passato, e poi con il grigiore e l’anonimato di una vita tutta votata al lavoro: comportamenti e modelli tutti di segno maschilista. Dietro qualcosa che può apparire fatuo e caramelloso può celarsi un messaggio, quasi un manifesto della condizione postmoderna, che rifiuta l’opposizione tra i sessi e come segno di protesta vuole accentuare –non importa quanto consapevolmente- proprio lo stereotipo più disimpegnato del ‘femminile’, per farne la propria bandiera. Chi meglio dei nipoti dei sopravvissuti al bagliore atomico può proporlo?
* Intervento al Seminario Interdisciplinare "Sguardi sui Colori", Università degli Studi di Siena, marzo 2006. Gli Atti del Seminario sono stati pubblicati in "Sguardi sui colori. Arti, Comunicazione, Linguaggi", a cura di Massimo Squillacciotti, 2007, Protagon, Siena.
BIBLIOGRAFIA
Gravett P. 2004 Manga. Sixty years of Japanese Comics, London.
Murakami T. 2002 Catalogo della mostra ‘Superflat’, Fondation Cartier, Parigi.
Tanizaki Libro d’ombra
Bello, mi è piaciuto molto, complimenti! simona
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