mercoledì 29 settembre 2010

I SENSI AL CINEMA *

Una delle più belle e delicate dichiarazioni d’amore – di una donna a un uomo- è la battuta finale di Luci della città. Alla bella fioraia ritrovata, che ha riacquistato la vista, Chaplin incredulo domanda: “Ma allora, ci vedete?” e lei risponde “Adesso, sì”. Come a dire che è quell’incontro a dare un senso al suo senso ritrovato.
Con una geniale inversione, Chaplin vuole dirci che è l’amore a farci vedere, non già la vista a suscitarci i moti dell’animo, attraverso il fascino e l’avvenenza fisica. Si aggiunga che, per comunicare questo allo spettatore, Chaplin aveva scelto di rinunciare alle voci, girando nel 1931 il suo ultimo film nello stile classico del muto, in piena esplosione del sonoro. Le parole dei protagonisti compaiono scritte nei tipici, scarni pannelli neri che interrompono la scena. Non è con frasi suadenti e incantatrici che chi è cieco deve cercare un surrogato all’impossibilità di entrare in contatto con il mondo attraverso la vista. Bastano due parole. Gli occhi della fioraia trovano conferma di ciò che lei già aveva sentito, con quella acuità che solo la mancanza può suscitare.
Il cinema è l’invenzione che forse nel modo più potente celebra la visualità. Ma, diversamente dalle altre arti visive, deve emergere a ogni rappresentazione dal suo opposto, il buio. E’ dal ‘buio in sala’ che ogni volta il cinema rinasce. Una opposizione che ne rivela la stretta relazione, qualcosa che somiglia al rapporto tra il blocco informe di marmo e la statua che già, nella mente dello scultore, vi è contenuta. Se Michelangelo diceva che la scultura è l’arte del togliere, si può dire che il cinema, tutto il cinema, sia l’arte di far emergere dal buio la luce, quella invisibile luce interiore che è contenuta in ciò che si intende rappresentare, e che va distinto da ciò che è passivamente, percettivamente visto: come quell’attimo di buio totale prima dell’inizio di un film sottolinea efficacemente.
Il buio percettivo di chi è cieco è stato fonte di ispirazione per molti film, dopo l’insuperato capolavoro di Chaplin. Il più noto, forse, è stato Profumo di donna che, dopo la pellicola diretta da Dino Risi nel 1974, ha conosciuto un remake hollywodiano nel 1992. In entrambi i casi, il soggetto – un ufficiale reduce dell’esercito, rimasto cieco in un episodio bellico, viene accompagnato da un ragazzo in un viaggio alla ricerca di sensazioni, preminentemente sessuali, e spericolate emozioni, a bordo di una Ferrari – è stato ritenuto un banco di prova per la recitazione del protagonista. Sono scesi in campo due autentici mattatori, Vittorio Gassman e Al Pacino, e in ognuno dei casi le loro prove sono state all’altezza della fama. Ma i dialoghi nei due film sono sconcertanti: non basta la vita militaresca alle spalle del protagonista a giustificare una insistenza - che nel film americano si fa imbarazzante - sull’associazione tra cecità e turpiloquio, quasi che la mancanza di contatti vitali derivante dalla prima volesse trovare una compensazione in una grevemente carnale espressività della parola.
Non è facile che un film riesca a rendere il fascino umbratile del vissuto di chi è spettatore di un mondo che gli si cela dietro uno schermo oscuro ma del quale tenta tuttavia di darsi una rappresentazione, creando un ineffabile mondo immaginato – ma non immaginario – in grado quindi di essere condiviso con chi guarda lo schermo al cinema.
Quando il cinema inventa le sue storie, viene evocata una realtà immaginaria: saper cogliere quella che impropriamente viene definita la ‘finzione’ cinematografica ci rivela quanto incommensurabili siano i confini dei nostri sensi, che immagini e suoni non fanno che stimolare. Questo potere evocatore di un universo invisibile – quale è quello delle emozioni e dei sentimenti dei personaggi sullo schermo – e di eventi messi in scena per volontà demiurgica dell’autore-regista, ci rimanda con forza metaforica a ciò che tutti noi compiamo in ogni momento della vita quotidiana.

Che siano spunti percettivi di onde hertziane che giungono agli occhi e alle orecchie, contatti fisici diretti sulla pelle e dagli alimenti nella bocca, o particelle che entrano per via aerea nelle narici, è sempre la nostra mente che si attiva per classificare, attribuire un significato, e per richiamare alla memoria altre esperienze, per suggerire un’interpretazione, un valore, piacere o disgusto, desiderio o pericolo. E’l’esperienza sensoriale a guidarci, anche quando non vi è una relazione immediata e diretta con ciò che avviene intorno a noi, perchè da qualche parte in quell’universo in miniatura che è il nostro cervello vi è immagazzinata la storia della nostra vita, dalla nascita e forse prima.
E’ per tutto questo che, non diversamente da quanto avviene con il teatro delle ombre indonesiano, delle silhouettes che, nel cinema, si muovono appiattite su uno schermo possono tanto coinvolgerci.
La prima reazione dei bambini balinesi portati a uno spettacolo di wayang kulit è quella di andare a vedere cosa c’è dietro allo schermo. Lì c’è il dalang, nobile professione ereditata di padre in figlio, a cui spetta il compito di far rivivere gli eventi del teatro epico; qui autori, registi e attori. Nell’un caso come nell’altro, si tratta di produrre semplici ombre proiettate su uno schermo: quanto più è evanescente il mezzo espressivo al quale è affidata l’azione scenica, tanto meglio se ne coglie il significato e la funzione. Sono messaggi sensoriali, niente di più: dentro o dietro allo schermo non vi è nulla di reale. Così come il dalang fa uscire i suoi personaggi dal baule, gli autori che nelle nostre culture si esprimono attraverso il cinema evocano le ombre che escono dalla loro mente e le comunicano a noi con luci, suoni. Semplici onde herziane: ma la nostra mente, guidata dall’esperienza, da memorie e dalla cultura in cui si è formata, le trasforma in eroi, donne in amore, feroci assassini, battaglie e poetici paesaggi.

Appare facilmente comprensibile che un mezzo espressivo visivo per eccellenza come il cinema, sia di invenzione che di documentazione, sia rimasto spesso attratto dalla vista, o meglio dalla sua mancanza, nei soggetti rappresentati. Sordità e olfatto hanno avuto il più delle volte ruoli comprimari, spesso macchiettistici. Un’eccezione è rappresentata da Profumo (206), del regista Twyker, tratto dal romanzo di Suskind, in cui al centro della trama sta l’avventura olfattiva del protagonista. Quanto al gusto, non si contano le tavolate di ogni genere e periodo storico.
Si va dalla scena surrealista nel Fascino discreto della borghesia (1972), di Luis Bunuel, in cui gli eleganti personaggi stanno seduti imperturbabili su tazze di water, alle scene casarecce di tante commedie all’italiana, come ad esempio quella , nella Famiglia Passaguai (1951), di Aldo Fabrizi, in cui lui stesso con Ave Ninchi e Peppino De Filippo celebrano gastronomicamente una gita al mare. Ma il gusto ha ispirato anche più sottili, e perverse, associazioni, come in Dillinger è morto (1968), di Marco Ferreri o, sempre di Ferreri, La grande bouffe (1973), in cui in ambedue i casi l’impegno a elaborare raffinati manicaretti si accompagna ambiguamente con un desiderio di procurare al tempo stesso piacere e morte.
Se poi veniamo al tatto, anche senza considerare la pornografia, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per le qualità tattili specifiche della tecnica espressiva adottata, basterà citare le riprese con cui l’obbiettivo, in Hiroshima mon amour (1959), di Alain Resnais, scorre lungo la pelle della protagonista Emmanuelle Riva come fosse la voluttuosa carezza del suo amante, simbolica reazione erotica alla morte atomica che li avvolge e che si intravvede dalla finestra della camera.
Grazie alla forza dell’immagine e al suo potere di venire archiviata con più efficaci e duraturi strumenti di altre impressioni sensoriali nella nostra mente, si depositano nella memoria gli stimoli sinestetici trasmessi da un filmato.

Di recente, grazie ai progressi che si stanno avendo nelle neuroscienze, espressioni quali memorie, eredità culturali, esperienze hanno trovato una loro localizzazione nel cervello e si va dipanando la fittissima rete di connessioni neuronali tra le varie parti, che collaborano affnché ci si possa formare un’idea di ciò che avviene fuori e dentro il nostro corpo, la nostra mente. Memoria, eredità culturale, esperienze non sono più soltanto astratte espressioni concettuali; sappiamo dove stanno e quando si attivano, che facciano parte del nostro patrimionio genetico o siano il risultato dell’archiviazione di eventi che, attraverso i sensi, si sono impressi nella mente.
Siamo eredi della classica divisione aristotelica in cinque sensi (anche se il filosofo greco in realtà ne comprendeva altri, interiori, come la memoria). Da allora, li immaginiamo come delle dotazioni che ci fanno reagire a stimoli esterni: onde luminose, onde sonore, pulviscoli odorosi, sapori che stimolano la lingua, contatti sulla pelle. In tutti i casi, si tratta di reazioni passive, e non a caso di parla di recettori sensoriali. Ma potremmo considerare appartenenti ai sensi anche quelle attività intenzionali di cui siamo dotati, e che fanno riferimento, come i primi, a organi specifici.
Il movimento, anzitutto, con il suo apparato di muscoli e tendini guidati da fasci nervosi che li collegano a cervello e midollo spinale. Ancor più quell’insieme che forma l’organo che possiamo chiamare di fonazione, e che comprende le corde vocali, stimolate dall’aria dei polmoni, i cui suoni sono amplificati dal palato che funziona da cassa di risonanza, da lingua e labbra.
Tenere conto di queste potenzialità vitali del nostro corpo e considerarle alla stregua di veri e propri sensi ci rende meglio consapevoli di come sia limitativo osservare solo la fisiologia del nostro corpo, e sia invece necessario considerare i fattori culturali che guidano le nostre azioni tanto da renderli indispensabili per il funzionamento stesso dei nostri organi. L’attività vocale, ad esempio, ha consentito l’espressione del linguaggio, su cui si è fondata l’evoluzione culturale dell’uomo, attraverso l’interazione con un altro senso, quello dell’udito. Questa interdipendenza sensoriale, e il suo fondamento culturale, trovano evidenza nel caso dei sordomuti che, come si sa, nella quasi totalità dei casi non sono muti affatto ma, essendo sordi fin dalla nascita, non possono ricevere le informazioni necessarie per elaborare i modi di esprimersi a parole.

Quando il cinema ha tratto la sua ispirazione direttamente dal mondo esterno, nelle varie forme dello stile documentario, l’ obiettivo è stato generalmente quello di trasmettere il più possibile allo spettatore l’impressione di essere là. Per ottenere questo effetto, ci si è serviti degli strumenti messi via via a disposizione dalla tecnologia per catturare nel modo più appropriato ambienti e comportamenti umani. Il rapido progresso degli strumenti di registrazione audiovisiva ha portato a una rincorsa, al fine di utilizzare le sempre più perfezionate possibilità di riproduzione di suoni e immagini. L’ultima e più significativa rivoluzione in tal senso è stata la digitalizzazione dei messaggi visivi e sonori, che ha reso al tempo stesso più semplici e più efficaci le riproduzioni. Silenziosità, possibilità di registrare in condizioni di luminosità estremamente basse, lunghezza quasi illimitata delle riprese e abbattimento dei costi delle attrezzature e dei supporti, hanno portato a trasformare le videocamere da totem professionali circondati di un’aura a protesi nelle mani di chiunque. La registrazione di suoni e immagini è oramai considerata un’estensione delle nostre dotazioni sensoriali e della possibilità di mettere quegli input in una nostra memoria, digitale anziché cerebrale, attivabile anch’essa a piacere per poter essere utilizzata al fine di richiamare e successivamente interpretare gli impulsi sensoriali.
In un certo senso, ciò ha finito per ‘umanizzare’ la tecnologia, rendendola un duttile strumento per potenziare le nostre dotazioni naturali. Ma, come si sa, l’incubo, alimentato dalla fantascienza, è che, all’opposto, ciò finisca per trasformare gli uomini in cyborg, cioè in organismi cibernetici, in parte naturali e in parte artificiali.

Un modo per affrontare la questione della nostra dipendenza dagli organi di senso, dalle percezioni che ne derivano e dalle conseguenti interpretazioni psicologiche e culturali, può seguire un percorso totalmente diverso da quello di accrescerne artificilmente le potenzialità. Non già, quindi, inseguire una espansione dei nostri recettori, come fa la bionica, sostituendosi a organi naturali danneggiati o mancanti, né inseguire le fantasie di un futuro di un’umanità cyborg, anticipata dagli attuali gadget elettronici, bensì documentare come si vive se non si può contare su uno o più dei cinque sensi di aristotelica memoria.
Si tratterà di avvicinarsi a una condizione umana poco conosciuta , al fine di stabilire un ponte tra i propri strumenti percettivi e quelli di chi ha elaborato una mappa sensoriale altra, condividere tale esperienza e cercare i modi per comunicarla servendosi degli strumenti concettuali e tecnici appropriati per la sua diffusione. Un processo che, nello spirito empatico e nella curiosità intellettuale che lo guida, si identifica con l’indagine antropologica in generale, rivolta com’è alla conoscenza di altri modi di vita rispetto a quelli che ci sono familiari: e con l’antropologia visuale in particolare. Se si intende qui sottolinearlo, è perché non appaia paradossale servirsi come ponte comunicativo degli strumenti audiovisivi per comunicare la condizione di non vedenti e non udenti.

Due, finora, sono stati gli approcci seguiti per raccogliere la sfida di far vedere realisticamente la condizione di chi non vede. Il primo, che potremmo chiamare documentaristico, può essere esemplificato dal film Slepe Lasky ( Blind Love, 2008), del regista slovacco Juraj Lehotsky. Vi si descrive la vita quotidiana di Peter e Iveta, che condividono la cecità ma anche una ricca gamma di esperienze sensoriali, come viene sottolineato da una colonna sonora particolarmente intensa. Il secondo, soggettivistico, di cui il più noto esempio è il film Blue (1993), di Derek Jarman, cerca di trasmettere allo spettatore la sensazione di chi, come il regista stesso, ha visto scomparire il mondo dinnanzi a sé. Lo schermo, in questo caso, è un monocromo blu per tutta la durata della pellicola. Piuttosto che suscitare suggestioni pittoriche – in questo caso, soprattutto il famoso blu delle tele di Yves Klein - quell’immagine fissa intende spostare l’attenzione sul vissuto psicologico di chi si trova piombato in quella condizione, anche ma non solo cercando alternative in altri messaggi sensoriali.
Altre volte, per rendere la percezione di come si affievolisca fino ad annullarsi la percezione visiva, ci si serve di effetti sfocati e variazioni di luminosità. C’è una frase, nell’ultimo romanzo di Doctorow, Homer & Langley, che rende efficacemente a parole ciò che vari film cercano di rappresentare: “La mia vista non se n’è andata di colpo: è stata una lenta dissolvenza, come nei film”.
Per quanto, ognuno a suo modo, ambedue questi generi siano empatici, la posizione del filmmaker è sempre quella di descrivere una mancanza fisica e come chi deve fare i conti con essa vi ponga rimedio, compensandola eventualmente con altre esperienze, siano esse percettive o psicologiche.
Una più approfondita indagine antropologica richiederebbe un passo ulteriore, al fine di testimoniare una condizione di vita a pieno titolo, seguendo la lezione di Terenzio, che fin dall’antichità ci avvertì come niente di ciò che è umano debba apparirci alieno.
Si tratta di rovesciare la prospettiva. Condividere una condizione comune di carenze percettive, derivanti dalla limitata dotazione sensoriale del corpo di tutti gli uomini. Consapevoli del fatto che in un mondo di non vedenti nessuno è cieco, e nessuno è sordo se fossimo tutti privi di orecchie, anche se il mondo intorno a noi rimanesse pieno di suoni e di tante belle cose da vedere, dovremmo metterci nella posizione di imparare come chi possiede uno scarto percettivo rispetto all’umanità in generale abbia saputo trovare i modi per comunicare con gli altri.

In questo caso, i diversi siamo noi. Potremmo cercare di scoprire come il mondo può apparire servendoci di una mappa sensoriale particolare, preziosa perché posseduta da pochi. Un’esperienza di riscoperta di un mondo, il nostro, che pensavamo di conoscere, rivelatrice oltre ogni immaginazione. E’ la rivelazione, attraverso un’esperienza umana particolare, di condividere una condizione universale, della quale non ci rendiamo sempre conto: di quanto del mondo intorno a noi ci sfugga, di come tutti noi siamo ciechi e sordi fuori da una ristretta fascia percettiva. Come è stato detto da Guy Lazorthes, i nostri sensi sono una porta stretta sul mondo.
Noi tutti, infatti, siamo ciechi alle radiazioni luminose estreme, infrarosse e ultraviolette, alle quali sono sensibili altri animali; così come siamo sordi a ultrasuoni e infrasuoni, mentre percepiamo le frequenze centrali, tra i venti e i ventimila hertz. Né reagiamo allo stesso modo di fronte a gusti e odori che la nostra cultura ci ha addestrati a apprezzare o rifiutare. Tutte le culture umane sono state elaborate a partire dalle reazioni condivise dalla quasi totalità dei suoi membri a certi colori, a certi suoni e a certe forme, così come alla possibilità di vedere e riconoscere i propri simili.
Noi, qui, non sappiamo utilizzare le sensibilità che utlizzano, ad esempio, i Kaluli della Nuova Guinea, come ci ha rivelato l’etnomusicologo Steve Feld. Essi hanno concettualizzato una geografia multisensoriale, nella quale lo spazio è al tempo stesso visto e sentito tattilmente, e questi sensi a loro volta interagiscono con il gusto, mentre la percezione dell’orientamento del proprio corpo avviene attraverso l’ascolto di suoni della natura e di voci: quello che Feld chiama un soundscape, un paesaggio sonoro.
Per fare un altro esempio, presso diverse popolazioni, come nel caso dei Suya del Mato Grosso descritti da Anthony Seeger, la società è divisa secondo classi olfattive, ognuna delle quali possiede una propria identità.
Le dotazioni sensoriali che possediamo ci bastano per vivere nell’ambiente a noi noto e per comunicare all’interno delle nostre società. Ma dovremmo avere la consapevolezza che, intorno a noi, vi è tutto un mondo, un mondo reale, fisico e concreto, che ignoriamo.
La cultura è, per una parte consistente, una risposta a questi limiti. Non essendo provvisti di ecolocazione come i pipistrelli e non ponendo quindi muoverci al buio evitando ostacoli, abbiamo inventato l’illuminazione artificiale. E certo i navigatori satellitari installati sulle automobili sono infinitamente più rozzi del cervello di un piccione viaggiatore.
Chi è deprivato di alcune potenzialità sensoriali può fornirci una quantità di informazioni di straordinario interesse sulle modificazioni che l’uomo è in grado di elaborare per compensare carenze nel set complessivo delle dotazioni standard che mettono un individuo in comunicazione con il mondo esterno. Ma soprattutto ci si può dischiudere un mondo interiore di straordinaria originalità, che fornisce contributi spesso trascurati. Chi ha di più, quindi, finisce per avere in realtà di meno, come spesso accade.
Un dialogo nel buio con chi non vede ciò che noi vediamo, ma ha sviluppato più di noi, i vedenti, una familiarità con la propria particolare mappa sensoriale, può trasmetterci una maggiore consapevolezza del nostro essere-nel-mondo.

Un senso di mancanza, quasi una delusione, accompagna talvolta la lettura, per altri versi stimolante, di certe monografie etnografiche. Nel mondo globalizzato di oggi sono comprese, sia pure soltanto per alcuni aspetti e almeno indirettamente, anche le isole Trobriand, luogo mitico per eccellenza della visione antropologica. Abbiamo perduto quindi un’occasione irripetibile per sapere com’era la vita quotidiana là all’inizio del secolo scorso, quando Malinowski vi compiva le sue tanto celebri ricerche. Malinowski mangiava? e che sapore aveva il cibo? Si potrebbe continuare con mille altre domande, destinate a rimanere senza risposta. Ciò che l’antropologo riteneva contasse era altro: le istituzioni e le relazioni sociali, le idee indigene riguardanti la vita sessuale, per verificare e contestare alcuni principi della psicanalisi, la presenza delle leggi economiche dello scambio.
Un accostamento che è andato affermandosi tra sensibilità percettiva e sensualità – una reazione emotiva culturalmente elaborata - ha fatto scattare oscurantiste censure puritane di cui l’antropologia non è stata al riparo, specie nel periodo vittoriano.
Lo scritturalismo, meglio controllabile e autocensurabile del visualismo, può bene accordarsi con l’iconofobia. L’osservazione antropologica risulta allora una visione parzialmente cieca della realtà e l’insistenza sulla necessità interpretativa di ciò che viene trasmesso può trasformarsi in strumento di controllo, sotto la veste di una analisi concettuale. Se il puritanesimo in senso stretto ha costretto di recente i restauratori della Cappella Sistina a ripulire gli affreschi michelangioleschi di panni e mutandoni aggiunti in seguito , una più celata autocensura ha portato Malinowski a affidare solo al suo diario intimo le sue reazioni emotive e le sue pulsioni sensoriali nell’incontro con i ‘selvaggi’ delle Trobriand.
Per esigenze delle proprie ricerche, l’antropologia ha sviluppato una speciale attenzione verso la tradizione orale. La preminenza assegnata a uno dei sensi per diffondere e tramandare gli elementi culturali propri di una società – l’udito, a cui è affidato l’ascolto della parola – diversamente dal primato assegnato alla parola scritta, che si serve della vista e solo subordinatamente della lettura ad alta voce, è stato considerato il fattore discriminante tra le società considerate primitive e quelle moderne. Tanto da far denominare le prime, una volta divenuto obsoleto il termine evoluzionistico di ‘primitivo’, società ‘prive di scrittura’. La comunicazione orale è diretta, faccia a faccia, spesso sottolineata da una appropriata gestualità, che agisce in modo subordinato a ciò che giunge all’udito. Da Ong a Goody, si è esaurientemente descritto come, là dove si è avuta la diffusione della stampa, la comunicazione culturale sia diventato un esercizio solitario, distanziando l’autore dai destinatari dei suoi messaggi: un carattere che si è vieppiù affermato con la comunicazione elettronica, in cui partecipiamo – ma in modo ‘freddo’, direbbe McLuhan – ad eventi avvenuti anche a grande distanza.
In tutte le dinamiche fondamentali per la comunicazione tra gli uomini, i sensi sono protagonisti, nella tradizione così come nel mutamento. E tuttavia l’antropologia, la cui ambizione è quella di testimoniare l’universalità della condizione umana attraverso l’espressione delle sue diversità, è apparsa troppo spesso insensibile e quasi timorosa di registrarne le manifestazioni nella loro peculiarità.

L’antropologia visuale si è assunta il compito di elaborare forme espressive idonee a trasmettere la fenomenologia di azioni individuali ed eventi collettivi – il ‘privato’ e il ‘pubblico’ – nei modi e nelle forme con cui gli attori sociali le mettono in atto, avvicinando così lo spettatore all’oggetto della rappresentazione, cioè ai soggetti presenti nelle riprese. Tale vocazione porta gli autori di film e video etnografici ad aprirsi a modalità espressive considerate nel loro insieme, così come si presentato secondo codici culturali condivisi e variabili nei diversi contesti: porta, quindi, alla multisensorialità.
Lo dimostrano le edizioni monotematiche della Rassegna di Nuoro (oggi SIEFF), da Magia e medicina (1996) a Musica e riti (1998), a Cibo (2002). Considerati nel loro insieme, i filmati selezionati mostravano non soltanto una caleidoscopica varietà di soggetti e di fonti d’ ispirazione, ma un’ampiezza di campo che contrastava l’egemonia di una interpretazione autoreferenziale. Il passaggio fondamentale consisteva nel portare all’esterno, attraverso l’autore e il mezzo da lui utilizzato, l’impatto sensoriale, emotivo del soggetto e di conseguenza l’elaborazione interpretativa dell’evento rappresentato. Il successo di tale coinvolgimento era provato dalla varietà di ciò che veniva notato, e quindi sensorialmente percepito, dagli spettatori. Diversamente da ciò che spesso accade leggendo le monografie etnografiche, dove non vi è la possibilità di elaborare diverse versioni di ciò che era avvenuto ‘là fuori’, in presenza dell’antropologo al momento della sua osservazione.
Nonostante tutti i distinguo e le sottigliezze semiologiche, l’antropologia visuale avvicina, e ci avvicina, noi antropologi e coloro con i quali vogliamo comunicare. In tal senso, non è tanto il risultato che va analizzato (si pensi alle oziose questioni sulla scelta dell’inquadratura e ciò che ne rimane fuori, o sulla presenza più o meno invasiva del filmmaker) quanto l’atteggiamento con cui ci si pone di fronte al ‘là fuori’ (chiamarla ‘realtà’ solleverebbe altre inutili questioni).
Un’ambizione così onnicomprensiva pone in modo inevitabile quanto salutare chi l’adotti in una situazione spesso imprevedibile. Addio rigorose classificazioni, più o meno aristoteliche, addio geometriche simmetrie, più o meno strutturaliste. Se le severe scienze fisiche non arretrano di fronte all’idea di esplorare il caos della materia, l’antropologia non abbia ad arretrare di fronte ai più vari modi con cui ci si presenta la condizione umana.

* Publicato nel catalogo dell'edizione 2010 del SIEFF (Sardinia International Ethographic Film Festival), Nuoro.

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