lunedì 13 settembre 2010

DALL'IDEA ALLA FORMA *

Appunti di iconologia culturale

Intendo servirmi delle parole semplicemente come presentazione di un percorso che sarà poi affidato alle immagini, per coerenza, anzi per necessità insita nell’argomento stesso che intendo affrontare. Nell’eterna (almeno da Cartesio in poi) questione intorno al metodo con cui affrontare questioni di interesse scientifico, lo strumento di più comune uso sembra ancora essere quello che misura la distanza tra due opposti poli, l’astratto e il concreto, a cui si fa corrispondere un approccio teorico o invece empirico nelle varie correnti di pensiero.
L’antropologia come scienza moderna, un po’ perché nata da una costola di Darwin –un diligente collezionista di fossili che sconvolse il mondo con una teoria rivoluzionaria – e un po’ per conquistarsi una rispettabilità scientifica in un periodo di dominante positivismo, sbarazzandosi dei primi grandiosi affreschi sulle origini dell’umanità, bollati da Radcliffe-Brown come “storia congetturale”, scelse di imboccare la via della ricerca empirica, lasciando per lo più alla teoria il compito di commentare i dati raccolti e di fornire stimoli alla direzione da intraprendere per orientarsi nel vastissimo campo d’indagine del comportamento umano.
Nella definizione di uno dei padri fondatori, Marcel Mauss, l’ethnologie doveva essere una “scienza del concreto” che fosse al tempo stesso una “scienza del completo”; per usare un’espressione di Edmund Leach –un solido empirista- occorreva però cercare di non essere semplici “collezionisti di farfalle” (chi avrebbe sospettato una così lieve licenza poetica per definire le culture umane, nell’austero Provost del Kings College di Cambridge!). Imbracciato il metodo induttivo, ci siamo sottoposti alla rituale cerimonia di iniziazione della ricerca sul campo di lungo periodo, in una rinascita simbolica presso una società di cui si sapeva inizialmente poco o nulla, nemmeno la lingua.
Identificatasi così a fondo con il proprio metodo di ricerca, l’antropologia si pose a lungo come arcigno guardiano a difesa dei propri confini di analisi. E anche quando si giunse a quella che molti chiamarono la “voga ermeneutica”, le interpretazioni, e le “interpretazioni di interpretazioni” (Geertz) furono considerate accettabili solo in chi aveva le carte in regola, per essersi fatto le ossa in anni e anni di ricerca sul campo.
In una simile situazione, non vi è da stupirsi se la proposta di un’antropologia visiva –di utilizzare cioè immagini riprodotte con moderni strumenti occidentali per rappresentare l’oggetto di studio- sia stata e sia tuttora in molti casi accolta con diffidenza. Ciò che veniva rappresentato appariva estemporaneo, episodico, frutto di uno sguardo ‘distratto’, inadatto a cogliere l’essenza spesso nascosta di una realtà: troppo evanescente agli occhi dei fautori del concreto, troppo esteriore per chi cercava regolarità, strutture, regole, idee e valori collettivi.
Sia che si sia concentrata sul ‘punto di vista dei nativi’, sia che abbia ritenuto illuminante, piuttosto, il punto di vista dell’antropologo, di visivo –nonostante il costante invito a osservare, osservare! - vi è stato ben poco nel percorso dell’antropologia.
Ciò che intendo affermare è che quello empirico così come quello teorico sono ambedue approcci cognitivi e che ciò ha portato a ritenere spurio un orientamento diretto, fenomenologico alla realtà: che dire poi di un approccio che si affidava alla percezione di quel senso –la vista- che più d’ogni altro era stato condannato dalla scienza così come dalla morale come il più infido e traditore!
Il pensiero non poteva strutturarsi che all’interno di un linguaggio, strumento costruito e quindi controllato dall’uomo: di quella forma di linguaggio, in particolare, che trova nella scrittura lineare il suo modo di organizzare, in modo anch’esso lineare, il pensiero.
Controllando il modo di concepirla e di esprimerla in termini linguistici, si riteneva di tenere la realtà stessa sotto controllo. Vi è una diffusa sensazione di pericolo nel lasciare che il mondo esterno, quello della natura così come quello degli uomini, comunichi direttamente alla mente attraverso i sensi. Sono più di quanti si creda coloro secondo i quali la realtà è quella che noi riusciamo a pensare e descrivere a parole.
Ma, senza bisogno di scomodare l’ipotesi Sapir-Whorf, basterebbe considerare quanto sia diverso pensare per ideogrammi. E pensare per immagini, allora?
Non è stato questo il percorso intrapreso dall’antropologia visiva; forse per farsi accettare, o forse per farsi comprendere, si è adeguata al mainstream dell’ antropologia, che Margaret Mead aveva definito una ‘disciplina di parole’ proprio per invitare chi utilizzava le immagini nella documentazione di ricerca a darsi una propria identità distintiva. Si è adeguata, dicevo: in due modi.
Anzitutto, ha adottato un andamento narrativo, lineare, nella struttura dei filmati attraverso la presenza, come in un romanzo, di un o una protagonista come filo conduttore in cui lo spettatore può soggettivamente identificarsi e in cui il tempo del filmato è costruito come una serie di sequenze interne al tempo degli eventi.
In secondo luogo, facendo largo ricorso alle parole, pronunciate o scritte. Il ricorso all’oralità richiama qualcosa di familiare all’interno di una disciplina che si è fondata a lungo sullo studio di società prove di scrittura, anche se il discorso diretto dei soggetti, nei filmati, lascia spazio all’accusa di una totale mancanza di analisi e, quindi, di valore scientifico. Vi è poi la ‘voce’ dell’autore che, in una versione ormai obsoleta prendeva la forma della cosiddetta ‘voce di Dio’: un anonimo commento ‘fuori campo’ in cui l’autore istruiva lo spettatore su che cosa dovesse guardare nelle immagini proposte. La versione più moderna è quella dialogica, in cui l’autore si fa vedere e sentire. Ma è pur sempre una ‘visione’ analitica che s’impone sulla visione diretta delle immagini. Quanto alle parole scritte, l’uso dei cosiddetti sottotitoli –strano termine- è stato preso a prestito dai film di finzione in cui non si fa ricorso al doppiaggio; ma, nel caso di filmati antropologici, facendo una sintesi di ciò che viene detto si interviene su un punto molto delicato di traduzione culturale, rischiando di fare in modo sbrigativo ciò che per l’antropologia scritta è un punto cruciale.
Vorrei ora avanzare una proposta di un modo –non già un metodo, un semplice modo di fare- con cui si potrebbero utilmente utilizzare le immagini con un approccio antropologico: un’iconologia culturale, potrebbe chiamarsi. Osservare come le immagini affiorino alla superficie della realtà sociale, vedere come nascano e prendano forma, seguire il percorso dall’idea alla sua trasposizione esterna, su un supporto che possa essere visto da altri e diventare un artefatto culturale. Diversamente da una ricerca empirica su ciò che è già presente nella realtà esterna, ma anche da un’analisi teorica dei concetti che informerebbero l’azione sociale, l’indagine rivolta alla nascita di forme culturalmente significative osserva le immagini nella loro specificità, e in quella loro caratteristica prima che è la superficialità, alla quale fanno da corollario le altre qualità che le si riconoscono: di essere olistiche, sincroniche, di condensare significati.
Troppo spesso svalutata concettualmente e condannata eticamente, la superficialità –nel senso di ciò che è immediatamente percepibile alla vista, e sta quindi alla superficie, all’esterno delle cose- ha la capacità di fare affiorare dimensioni culturali altre rispetto a quelle che si esprimono attraverso il linguaggio, scritto e parlato. Come poter seguire il nascere e formarsi di certe forme espressive nel loro affiorare alla superficie della realtà culturale?
Le società umane si esprimono e comunicano attraverso espressioni codificate, che vengono ritenute significative. L’antropologia, ad esempio, ha riconosciuto nell’ambito del rituale un luogo cruciale di produzione e riproduzione culturale delle società. Ha rilevato ciò dove era più evidente, nelle società tradizionali, dove il comportamento rituale è definito da regole fisse e ripetitive.
Nelle società contemporanee, dove tali forme sembrano spesso obsolete o evanescenti, i codici simbolici sembrano avvicendarsi freneticamente, proposti e consumati sull’arena della comunicazione di massa. Ma vi sono luoghi sociali dove la produzione di senso nella creazione di forme e immagini significative si fa più densa, punti focali a cui le società sembrano affidarsi per la produzione di nuovi simboli espressivi in cui riconoscersi e con i quali interpretare la realtà. In questo senso, gli artisti visivi possono ritenersi produttori di sistemi per pensare, servendosi di forme anziché di parole.
In una serie di video da me realizzati, ho inteso seguire il processo creativo di alcuni artisti visivi, seguendo il loro percorso artistico, nel quale stimoli raccolti dall’esterno e poi elaborati interiormente finivano quasi inconsapevolmente per affiorare. E la videocamera coglieva quanto usciva così all’aperto.
Il primo di questi video, intitolato “Dall’idea alla forma”, ha come protagonista Lucio Del Pezzo, pittore e scultore al quale è facile assegnare l’etichetta di metafisico. Oltre a un’amicizia di vecchia data, un motivo non ingenuo per la scelta di quell’artista è stato il richiamo che inconsapevolmente le sue forme facevano ai principi della psicologia della Gestalt. Riscontravo cioè un’analogia con l’idea di base dei gestaltisti, che cioè il nostro modo di vedere la realtà esteriore era una sorta di combinazione di elementi primi rappresentati dalle forme della geometria euclidea: quadrati, triangoli e, su tre dimensioni, sfere, cubi e piramidi, che costituirebbero una sorta di grammatica del vedere.
Quegli stessi elementi li ritrovavo nel lavoro di Del Pezzo, in una serie di combinazioni che, sul piano estetico, raggiungevano una forte valenza emotiva e comunicativa attraverso il richiamo a forme immagazzinate nella memoria: elementi compositivi che potremmo chiamare iconemi. Di quel bricolage espressivo fondato su elementi percettivi volevo seguire la genesi e lo sviluppo, fino all’opera conclusa.
Ma ora voglio che siano le immagini stesse a esprimere ciò che ho inteso fare e che ora vorrei comunicarvi.

Le immagini che seguono sono still frames tratte da registrazioni video realizzate nell’arco di alcuni mesi nel 2003, mentre seguivo il processo creativo – il passaggio, cioè, ‘dall’idea alla forma’, trattandosi di un artista visivo – di Lucio Del Pezzo. Quel materiale è stato montato in un video della durata di circa un’ora, che rappresenta niente più che una sintesi da offrire a un pubblico eventualmente interessato e - come tutti oggi - abituato a lasciarsi portare pigramente sull’onda dell’andamento lineare di una narrazione per immagini. Assai più di questo, sono le rushes da cui sono tratte le immagini che seguono a conservare una traccia viva dell’incontro tra l’autore-artista e l’autore-videografo, una sorta di presa diretta di quel contatto.
Queste immagini intendono mostrare quanto più possibile dal vivo (nonostante lo spostamento spazio-temporale, che qui intendo richiamare per non darlo come scontato, come i consumatori di immagini sono abituati a fare) il momento di un contatto che è tutto focalizzato sullo sguardo, inteso come potere di un’osservazione consapevole e non ‘distratta’ (Taussig 1991). Un potere che rivendica la propria autonomia rispetto ai saperi depositati nel linguaggio scritto e orale, fondato su una percezione visiva non ingenua né superficiale ma, così come avviene in altri linguaggi, densa di elaborazioni e mediazioni culturali esplicite e implicite: geometrie post-gestaltiche, forme post-metafisiche, archetipi infantili che sottendono i messaggi iconici di Del Pezzo, nell’esempio che ho scelto.
E’ ciò che, da un punto di ‘vista’ visualista, intendo per sguardo esperto.

* Intervento al convegno "Imparare a guardare. Antropologia della visione e sguardi competenti", CE.R.CO., Università degli studi di Bergamo, giugno 2006. Gli atti del convegno sono stati pubblicati in "Imparare a guardare. Sapienza ed esperienza della visione", a cura di Cristina Grasseni, 2008, FrancoAngeli, Milano.

Vedi anche mio intervento "Dall'idea alla forma.Tentativi di rappresentazione del processo creativo nelle arti visive" in: "I saperi dello sguardo". Giornate di lavoro intorno all'antropologia visiva, Università degli studi di Siena, maggio 2004, www.cta.unisi.it/sito_saperi/index.htm

BIBLIOGRAFIA

Manzoni G. R. 1998 Gli sfidanti metafisici. Del Pezzo. Mantova: Corraini.

Marazzi, A. 2008 Antropologia della visione. Roma: Carocci.

Taussig, M. 1991 “Tactility and Distraction”. Cultural Anthropology Vol. 6 n. 2 (May 1991), pp. 147-153.

DIDASCALIE ALLE IMMAGINI

1. Davanti a un quadro di Alberto Savinio alla Fondazione Mazzotta di Milano, Del Pezzo dice di avere avuto inizialmente lui e il fratello Giorgio De Chirico tra le sue principali fonti di ispirazione. “Monumento ai giocattoli..qua c’è tanto il mio lavoro..in nuce naturalmente..io non l’ho visto nel ’29, non c’ero, l’ho visto dopo..”
2. (Questo quadro) “..dopo tanti anni l’ho rivisto a Parigi..ha fatto scattare un meccanismo nel mio lavoro…le forme che vanno…un puzzle…ha pure un titolo…l’astrologue meridien, e perché no? Non ha testa, ha poca testa. Il a beaucoup de sommeil, il est fatigué, Ercole. Sesso niente..è tremendo, questo Savinio”
3. “ ..un disegno bellissimo, quello famoso con le ombre..io sto lavorando sulle ombre, le ombre mi affascinano..la pittura, forse anche la scultura vengono da un’invenzione di Platone, che parlava dell’ombra. La leggenda vuole che l’inventrice della pittura –ci vuole una donna, gli uomini sono incapaci di fare certe cose - per immortalare le sembianze del suo amato volle disegnare la sua ombra sul muro.”
4. Nello studio di Lucio, a Milano, sui Navigli. All’entrata, ci accolgono forme archetipiche del suo lavoro, arcobaleni, colonne, ancora avvolte in fogli protettivi.
5. Mentre si mette al lavoro, Lucio esce con questa frase: (tra le mie fonti di ispirazione) “ci sono tante cose, per esempio una copia del libro Suprematism di Malevic, che io trovai in una galleria di Parigi, ai tempi in cui ci frequentavamo, una galleria nella quale io speravo anche di fare una mostra..quando studiavo all’Accademia, una mia prof mi aveva disvelato il suprematismo, forse al secondo anno di Accademia, sì, perché al primo anno ero guttusiano essendo comunista impegnato…è tutta da ridere la storia dell’artista. (Quelle del suprematismo dovrebbero essere) “le fonti per una grande mostra russa..”
6. A proposito di Hallo Max, litografia che riproduce “un manichino metafisico, che Max Ernst aveva utilizzato nei suoi lavori metafisici negli anni Venti…io l’ho usato come oggetto-reliquia dedicato a Max Ernst..era nel suo studio che aveva abbandonato, e io me ne sono appropriato…ah, era il mio padrone di casa”.
7. Lo studio Del Pezzo a Milano. Una assistente prepara alcune componenti delle opere. Sul tavolo di sinistra si nota la figura di sirena che entrerà in uno dei quadri a cui Lucio sta lavorando.
8. Un lunghissimo, interminabile silenzio. Poi: “Era partito come qualcosa di essenziale, una forma geometrica. Io ho fatto così perché nel mio lavoro ci sono sempre delle mensole, come un teatro, nel quale si presentano i personaggi. Le figure geometriche sono dei personaggi”.
9. “Le forme di legno delle scarpe? Sì, sì, bravo. C’è una ragione precisa, nei miei quadri. La mia famiglia, compreso mio papà, erano artigiani, lavoravano anche nelle calzature. Un laboratorio di mio zio preparava dei modelli per delle società che fabbricavano le calzature. Forme di una bellezza strepitosa, perché erano anatomiche-geometriche. Dopo le confondevo anche con i modelli matematici-geometrici tipo le cose che si vedono al Musée de la Science…c’è poi una seconda cosa, il modello di metallo per tagliare il cuoio che formerà queste calzature. E queste sono diventate delle cose che poi ho rivisto nei quadri di De Chirico e anche nel Surrealismo…”
10. 11. 12. 13. Silenzio. Le forme stanno prendendo posto in uno dei teatri di Lucio.
14. 15. 16. La sequenza della sirena: il ciclo ‘dall’idea alla forma’ si conclude e l’opera è pronta ad affrontare il pubblico.
17. In casa Del Pezzo. Lucio mostra le illustrazioni del poema di Mallarmé "Un coup de dés jamais n’abolira le hasard."

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