mercoledì 29 settembre 2010

L'ANELLO DEL KULA, IL CIRCOLO ERMENEUTICO E IL DONO DELL'ANTROPOLOGIA

ANTONIO MARAZZI

“Regalare sempre…sempre. Che bel regno era il nostro, dove l’uomo prodigava i suoi doni, come la terra, e noi cantavamo tutto l’anno”. Così diceva Vaitua a Gauguin, come egli annota in Noa Noa. (1). Non si può immaginare più perfetta icona dell’esotismo di questo incontro tra la principessa e il pittore francese che, lontano dai debiti e dai travagli lasciati in patria, così reagiva:” La civiltà mi scivola via di dosso”.
Ma, se i quadri di soggetto esotico hanno fatto la fortuna, ahimé postuma, del pittore, l’esotismo in sé non è mai stato considerato qualcosa di rispettabile. Se il salottino di lacche cinesi nei palazzi aristocratici e le stampe giapponesi nelle case borghesi erano l’arredo più in voga nella Belle Epoque e l’attesa di un “fil di fumo” all’orizzonte, da parte di Madama Butterfly, commuoveva le platee dei teatri d’opera, chinoiseries e japonaiseries non sono mai state riconosciute altro che una moda effimera e superficiale. Per non parlare della letteratura à la Pierre Loti.
A partire da Edward Said poi, l’orientalismo, per lo più arabeggiante, ha ricevuto un forte stigma negativo, con una indicazione di come dovesse venire considerato in modo intellettualmente corretto: un forma di colonialismo culturale, un’imposizione indebita del modo di vedere occidentale su civiltà altre e le loro espressioni. Uno degli argomenti addotti per dimostrare l’esistenza di una tale forma di imposizione unilaterale era che, dall’altra parte, non si era sviluppato uno speculare “occidentalismo”. Ma ne siamo sicuri?
Possiamo anche concedere che quelle figure pallide dal naso lungo, nelle narrazioni dell’incontro visto dall’altra parte siano delle rappresentazioni marginali, così come le testimonianze del “rovescio della Conquista” americana. Ma è difficile ritenere che l’occidentalismo contemporaneo – quello che viene definito come globalizzazione e che qualche spiritoso sociologo ha chiamato macdonaldizzazione – uno dei fenomeni culturali di più vasta portata nella storia dell’umanità, sia qualcosa da cui le società interessate possono chiamarsi fuori, affermando che si tratta di un’imposizione dall’esterno, che passa sopra le loro teste e che viene subito passivamente dalle culture non occidentali.
In realtà, il modello occidentale – per quanto perversa la cosa possa apparire a molti, fino a cercare di nascondersi dietro a falsi interrogativi su cosa si intenda per esso – è stato e continua a essere invidiato, e ha fatto nascere nuovi miti, come i culti del Cargo. E là dove l’organizzazione sociale lo consentiva, l’Occidente nelle sue varie forme è stato meticolosamente studiato e sistematicamente imitato. Per un Gauguin a cui la civiltà occidentale scivolava di dosso, vi sono stati milioni, ormai miliardi di uomini che quella veste hanno voluto indossare.
I giapponesi, eterni primi della classe, sono stati gli iniziatori, e li troviamo qui in Italia già nel 1585, come si legge nella Insalata di Gianbattista Vigilio, testimonianza diretta del passaggio alla corte dei Gonzaga della prima delegazione ufficiale giapponese in Europa, composta da quattro aristocratici e dal loro seguito (2). Portogallo, Spagna, e poi Pisa, Firenze, Roma, Napoli e Venezia: il classico Tour, come fanno oggi in milioni. Sappiamo che furono molto colpiti dalle visite alle città italiane: possiamo forse pensare che, al rientro in patria, non si siano dilungati in descrizioni di cos’era l’Occidente, secondo il loro modo di vederlo?
L’Asia di oggi –l’Oriente- si è modellata a partire dal modo con cui quei popoli, nelle loro diversità interne e nella diversità dei modi più o meno violenti con cui quegli incontri sono avvenuti, hanno elaborato una loro consapevole visione dell’Occidente. Non possiamo trascurare queste forme a noi esterne di elaborazione del contatto culturale, a rischio di perpetuare, paradossalmente, una nostra visione colonialista secondo la quale, comunque, tutto si crea e tutto si distrugge unicamente a partire dall’Occidente.
Al di là delle conquiste militari, della evangelizzazione forzata e dello sfruttamento economico, si è andato sviluppando un seducente esotismo, dall’una e dall’altra parte. Se l’Oriente seduceva con i suoi piaceri sensuali gli esteti e gli avventurieri frustrati dai moralismi di casa, l’Occidente offriva doni ben più dolci, potenti – e avvelenati.
E’ in questa forma reciproca ed estesa che si può cogliere tutta l’importanza della circolazione di doni, di quelle offerte gratuite e, inversamente, di inaspettate gratificazioni, cioè, la cui natura essenziale consiste nell’essere incommensurabili, cioè nel non avere valore. Non ha, o perde, il suo valore economico per chi dona, poiché nel momento in cui viene donato esce dalla sfera dell’utile per diventare veicolo di un sentimento gratuito; non ha valore economico per chi riceve, giacché non riempie un bisogno. Il dono ideale è quello che passa da una cultura a un’altra, dove ciò che viene donato, essendo ignoto fino al momento in cui viene ricevuto, non può essere compreso, né quindi valutato.
Regalare, regalare sempre come fa la natura. Un dono vero deve essere veramente gratuito, non prevedere quindi effetti né immediati né differiti, non esigere reciprocità, non creare un obbligo.
L’unico effetto di un dono vero è un sentimento di gratitudine, la sensazione di sentirsi arricchiti senza contropartita. Si realizza non già un passaggio dal donatore al ricevente, ma piuttosto un surplus, qualcosa che prima non c’era, e il cui merito va in parti uguali all’uno e all’altro. Il valore che la cosa donata non aveva prima che il donatore se ne privasse le viene attribuito quando il ricevente lo accetta e mostra di apprezzarla ( le attribuisce cioè in quel momento un prezzo, un valore).
L’atto del donare dovrebbe esaurire il suo effetto nel piacere che esso provoca nel dare: l’unica reciprocità che esso dovrebbe instaurare è nello speculare piacere che può, senza che sia necessario, attivare. E’ a questo a cui pensava la principessa Vaitua.
Certo, posiamo legittimamente chiamare doni qugli oggetti che passano di mano in cui chi paga non è chi ottiene il bene ma chi lo offre, e quelle prestazioni che non esigono una controprestazione immediata o differita. Ma limitarsi a considerare tali azioni, così frequenti in tutte le società, come espressioni dell’atto del donare e cercare in esse la sua natura rivela il carattere mercantilistico di chi così ragiona. Non è da stupirsi che a un simile approccio sfugga l’esistenza del dono puro, incommensurabile, specie se avviene in una cultura diversa dalla propria, in forme incomprensibili.
Strette all’interno di gabbie mentali utilitariste, a certe prestazioni vengono attribuiti altri significati. Ed ecco il dono venire definito un passaggio entro un generalizzato sistema di scambi, addirittura l’instaurarsi di un’obbligazione. E’ quanto si legge nelle parole di Marcel Mauss, che ha inserito il dono all’interno di quello che egli chiamò il “sistema delle prestazioni totali”. “Queste prestazioni e controprestazioni si intrecciano sonno una forma a preferenza volontaria con doni e regali, benché esse siano, in fondo, rigorosamente obbligatorie, sotto pena di guerra privata o pubblica”.(3) E’ l’obbligo a revanschieren, che Mauss riprende da Thurnwald, l’etnologo tedesco sollevato nel credere di ritrovare quel peso, caratteristico dell’etichetta borghese (e ereditato a sua volta dal codice di comportamento aristocratico), anche tra le isole Salomone.
Se è Mauss che si riferiva in generale a economie primitive, del passato e a lui contemporanee, è a Malinowski che si deve la descrizione esemplare del caso divenuto più classico, quello degli “argonauti” delle Trobriand e dell’nello ideale, detto kula, da essi instaurato tra le loro isole. A costo di fatiche e pericoli, essi fanno circolare in senso orario da isola a isola delle collane di conchiglie, in senso inverso dei bracciali. Perché tanta fatica se quegli oggetti non sono utili e non possono essere scambiati con qualcosa che serve, né possono entrare a far parte della ricchezza personale poiché dovranno in seguito essere ceduti ad altri, così che non si fermi la circolazione all’interno dell’anello? Sono doni perché sono oggetto di scambio non oneroso, e quindi economicamente inutili, dice Malinowski, ma culturalmente indispensabili perché quegli scambi tengono insieme una società dispersa tra le isole, senza che gli stessi “selvaggi” se ne rendano conto.
Le tanto spesso analizzate pagine degli Argonauti possono qui prestarsi a una nuova interpretazione. Dopo un’accurata descrizione del kula, Malinowski scrive: “Not even the most intelligent native has any clear idea of the Kula as a big, organized sociali construction, still less of its sociological function and implications”. (“Nemmeno il più intelligente dei nativi ha alcuna concezione del kula come di una vasta e organizzata costruzione sociale, e men che meno delle sue funzioni e implicazioni sociologiche”) (4), Così inserito in un sistema di senso comprensibile in Occidente perché inseribile nelle sue regole di comportamento sociale, il kula può circolare anche all’esterno, ed è diventato infatti un topos centrale del pensiero antropologico. Comprendendo a modo nostro ciò che si mette in atto nel kula, entriamo anche noi, idealmente, a farne parte.
In questo primo livello di interpretazione, vediamo in atto un dono che ci viene fatto dai trobriandesi. Oggetto del dono è, in questo caso, l’idea stessa di dono, che abbiamo visto funzionare in modo esemplare laggiù. Approfittando della straordinaria densità simbolica della ricerca di Malinowski, possiamo considerare, per estensione, l’intero pensiero antropologico come la messa in atto di un kula totale che leghi in un anello di senso l’Occidente alle altre culture: un “fatto sociale totale” à la Mauss che unisca non giù gli individui all’interno di una società ma le società stesse tra di loro. Per innescare questa circolazione di senso ci voleva un atto gratuito, dato che non si può pensare che i trobriandesi avessero un qualche interesse a far conoscere a Malinowski – e a noi attraverso di lui – la loro istituzione.
Ma vi è un secondo livello di interpretazione, che richiede una decostruzione del sistema elaborato da Malinowski per attribuire un significato al kula, comprensibile a lui e a noi. Possiamo ritenere che, se i trobriandesi avessero una “idea chiara” – alla Malinowsi – di ciò che fanno, il kula o non esisterebbe o sarebbe un’altra cosa. Possiamo pensare, cioè. che l’idea di un dono senza secondi fini sia indispensabile perché possa funzionare (per usare un termine caro al funzionalista Malinowski). La lezione che allora possiamo ricavare da questo secondo livello di interpretazione è allora questa. Ciò che riceviamo in dono dall’ entrare in contatto con il kula non è tanto il disvelarsi del suo meccanismo latente, quando piuttosto la conoscenza che ne riceviamo della necessità di un comportamento disinteressato, asistematico, non preoccupato delle conseguenze: non finalizzato insomma. E’ legittimo pensare che non sia la logica del sistema, ma l’ingenuità degli uomini, a far girare l’anello.
In una circolazione globale delle idee, si può allora immaginare un confronto e uno scambio disinteressato tra una visione locale e una visione occidentale di un comportamento umano. Il contributo dell’antropologia, in questa ottica, non sarebbe più quello di farci avvicinare agli “altri” servendoci dei nostri strumenti conoscitivi, ma di farci dialogare con essi.
Qui si apre un problema di fondo, e l’antropologia è andata quindi a chiedere soccorso, come altre volte, alla filosofia. Che strumenti di pensiero abbiamo per interpretare espressioni linguisticamente, culturalmente altre? L’ermeneuta, affinatosi nell’interpretazione dei codici antichi, può aiutarci a trasferire strumenti di analisi testuale al “testo” di una cultura? C’è uno scritto di Martin Heidegger, maestro di ermeneutica, in cui si mette in scena un incontro tra lui e un giapponese, docente di letteratura tedesca, venuto a rendergli visita. Il discorso si porta sui passaggi da un sistema luguistico-culturale a un altro e delle difficoltà che ne derivano. A monte del problema sta, per il filosofo,quel processo che egli chiama “la ompleta europeizzazione della terra e dell’uomo”, un “accecamento” che distruggerebbe “nelle sue fonti tutto ciò che è essenziale. Ricordando la sua famosa definizione del linguaggio come della dimora dell’Essere, Heidegger prosegue affermando che “se l’uomo grazi al suo linguaggio abita nel dominio dell’Essere, è da supporre che noi europei abitiamo in una dimora del tutto diversa da quella dell’uomo orientale” (5).
Gli fa eco Gianni Vattimo, in uno scritto in cui si paventa il pericolo di una “riduzione” dell’ermeneutica a antropologia “L’idea dell’antropologia come disciplina che preveda il dialogo con altre culture nella loro alterità” non sarebbe altro che “una finzione ideologica, creata per bilanciare una situazione in cui l’alterità tende in realtà a dissolversi traverso la crescente occidentalizzazione del mondo”. D’altra parte, nella convinzione che “l’inizio di un dialogo presuppone una alterità preliminare tra i partner”, sembrerebbe non esservi scampo, poiché “anche un relazione con una cultura altra presuppone un ‘contesto’ dato” (6).
E chi, se non l’interlocutore occidentale, definirà quel contesto e fisserà le regole del dialogo?
Per uscire da quello che, più che un circolo ermeneutico, appare un circolo vizioso del pensiero occidentale, viene allora da pensare che sia necessario aprirsi a ricevere un dono unilaterale e disinteressato, anche ai fini conoscitivi. Senza entrare nell’ottica mercantilista dello scambio, né sentire l’obbligo funzionalista della reciprocità bilanciata. Lasciando piuttosto che vi sia libertà nel dare così come nel ricevere i doni di un incontro con l’altro.
Ma lasciamo per un momento la via maestra di quei settori del pensiero occidentale che, in antropologia e in altre scienze umane, si sono interrogati sulla possibilità di un dialogo interculturale. Seguiamo idealmente il viaggio di ritorno in patria, dai mari del Sud, di Victor Segalen, l’esegeta dell’esotismo, il suo unico teorico convinto: Fantasioso personaggio, durante i suoi viaggi buttò giù note per un “”saggio sull’esotismo” che finì per non scrivere mai, sempre in lott com’era tra la volontà di restare ancorato a ciò che egli chiamava il Reale e le tentazioni di un rifugio nell’immaginario. L’irrequietezza vitalista e la stessa incompiutezza dell’opera si addicono comunque perfettamente sia all’argomento che aveva a cuore. Medico coloniale, sul finire di una sua campagna nel Pacifico pensa di rendere visita a uno dei suoi miti giovanili, Gauguin.
Va a Tahiti, ma viene a sapere che il pittore si è trasferito alle isole Marchesi. Quando vi giunge, è troppo tardi, Gauguin è morto da alcuni mesi, e da quel primo incontro mancato Segalen riporta molte impressioni, le testimonianze di chi gli era stato vicino, qualche oggetto della capanna che l’ospitava. Gli ultimi doni, disinteressati, di un artista.
Mentre la nave su cui si è imbarcato ha già la prua verso l’Europa, l’inguaribile egotista decide di rendere un’altra visita postuma al secondo dei suoi miti giovanili, Rimbaud, e si fa sbarcare a Gibuti. Qui, Seglen ha intenzione di esplorare non un territorio ma il mistero di una mente, quella del “doppio Rimbaud” (7). Non è soddisfatto, evidentemente, di quella che è la versione accreditata e che tutti conosciamo. Sublime poeta dall’inesplicabile perfezione della parola, da adolescente, arrivato a diciannove anni si tace per sempre, si mette a viaggiare fino a sparire in Oriente da dove riapparirà, malato, per andare a morire in famiglia. Ma l’Oriente non l’aveva attirato per un fascino estetico, esoticheggiante, quanto piuttosto per esercitarvi sporchi commerci d’armi e forse di schiavi. Delicato poeta prima, cinico avventuriero poi,sedotto dal fascino oscuro, semmai, dell’esotico. Questo il “doppio” Rimbaud nella versione corrente, al tempo stesso disincantata e decadentista.
Intuizione geniale di Segalen di volerci vedere più chiaro in quello che, in prima ipotesi, egli considera un caso di “bovarismo”, il prendersi per un altro da quello che si è e immedesimarsi in quella seconda natura. Fattosi investigatore, Segalen interroga nei caffé di Gibuti chi lo aveva conosciuto e magari millanta un’amicizia trascorsa. Ne esce, del secondo Rimbaud, un quadro patetico. Soggetto a frequenti insolazioni per le bravate di volersi mostrare a capo scoperto e torso nudo, ma sobrio, solitario, incapace di convivere con una donna (tranne che, per un breve periodo, con un’abissina), appariva in realtà ossessionato da una cosa sola: l’incapacità di fare soldi con i suoi commerci (niente di illegale, niente di avventuroso) par manque de capitaux. Mai a scrivere, mai a leggere, mai interessato ai rapporti con la Francia, se si eccettua un fitto carteggio con la madre e la sorella. Finché, debilitato e ammalato, chiede di venire aiutato a rientrare per farsi curare dalla sorella. Che Segalen va a trovare per raccogliere qualche ricordo negli ultimi giorni del poeta. Orrore per la poesia, l’incarico di mandare un po’ di denaro agli amici lasciati in Africa.
Come i giocattoli che la sorella ha conservato e che ritrova, le poesie sono state per Rimbaud, dice Segalen, i suoi bibelots infantili. Poi, “hai lottato per il Reale. L’hai preso corpo a corpo”. Ma inutilmente, rimanendo poeta fino alla fine, anche senza volerlo. Sono, infine, le lettere scritte alla madre borghese a spiegare il personaggio. Il reale, per la mentalità borghese incarnata dalla madre e che, lasciati i bibelots, Rimbaud teneva più di ogni altra cosa a assecondare, significava avere successo negli affari, fare denaro. Lontano fisicamente, Rimbaud non era riuscito a allontanarsi da quella mentalità. Occuparsi d’alto c’est mal, come ebbe a dire una volta della letteratura, e che noi possiamo estendere a ogni altra curiosità intellettuale fine a se stessa.
Per assecondare la madre e il mondo che essa rappresenta, Rimbaud si era negata la possibilità di ricevere sia i doni che il suo talento interiore gli aveva fornito, sia quelli che il mondo esterno avrebbe potuto offrirgli – magari sotto forma di una “estetica del diverso”, come suggeriva la poetica dell’esotismo cara a Segalen – e che Gauguin invece aveva saputo cogliere fondendo gli uni agli altri per poi, a sua volta,offrire al mondo i doni incommensurabili delle sue opere.
Meno poetico, meno visionario dell’avventurosa curiosità egotista, il pensiero antropologico si nutre di un’analoga fiducia. Quella di poter uscire dalle gabbie con le quali l’Occidente si è autoescluso da un dialogo con l’esterno, nel timore di poter perdere il controllo dei propri strumenti conoscitivi, intesi anche come strumenti di potere.. Se la ricerca antropologica possiede anch’essa qualcosa di avventuroso, non è tanto per la spinta a viaggiare ma per la volontà di comunicare arrischiando difficili traduzioni linguistiche e culturali, e interpretare i segni spesso oscuri di altri modi di vivere e di pensare.
Quei messaggi, quei segni sono i doni che l’antropologo riceve da uomini lontani e che egli, a sua volta, cercherà di donare ai suoi vicini nel grande kula globale dei rapporti tra gli uomini. Sono doni perché sono prestazioni gratuite che egli riceve, visitatore esterno a quella società senza i diritti e i doveri che deriverebbero da quella appartenenza. Sono doni anche perché attraverso quei contatti l’antropologo viene a acquisire cose che non riuscirebbe a avvicinare se si servisse soltanto dei propri strumenti conoscitivi e rimanesse chiuso nel proprio contesto ermeneutica. In ciò, il pensiero antropologico non fa che rifarsi al significato primario di ermeneutica, che è quello, rappresentato dal dio Ermes, di portare messaggi.

Note:
1. P. Gauguin, L’isola dell’anima. Gli antichi culti maori e i diari di viaggio a Noa Noa illustrati dall’autore, Como, Red edizioni, 1987.
2. C Berselli, “Principi giapponesi a Mantova nel 1585”, in Civiltà mantovana, III, n. 14, marzo-aprile 1968, pp. 73-83.
3. Mauss, Saggio sul dono, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965.
4. B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Roma, Newton Compton, 1973.
5. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1973.
6. G. Vattimo, “Differente and interference. On the reduction of hermeneutics to anthropology”, Res, n. 4, 1982, pp. 85-91.
7. V. Segalen, “Le double Rimbaud”, in Oeuvres complètes, Parigi, Robert Laffont, 1994, pp. 481-511.

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