giovedì 8 dicembre 2011

Antropologia dell'uomo artificiale

E' in uscita entro il secondo trimestre 2012 presso l'editore Carocci il volume 'Antropologia dell'uomo artificiale', che fa seguito ai volumi pubblicati in precedenza presso lo stesso editore 'Lo sguardo antropologico', 'Antropologia della visione' e 'Antropologia dei sensi'.
In questo nuovo lavoro, si affrontano i vari aspetti che stanno modificando la natura umana con l'introduzione di vari meccanismi: bionica, organi artificiali, mutazioni genetiche, tecniche per nascere e per uscire dalla vita o cercare di prolungarla indefinitamente; fino a osservare come scienziati occidentali e orientali stanno costruendo uomini interamente artificiali, i robot umanoidi.

lunedì 9 maggio 2011

IL SIGNIFICATO DEL'ABBIGLIAMENTO E L'INVENZIONE DEI GIOVANI

Scelte e comportamenti giovanili oggi, specie per quanto riguarda i modi di vestire, in gruppi scelti come rappresentativi in Italia e Giappone, sono i temi sviluppati nei contributi di questo volume. Si tratta di argomenti familiari alle scienze sociali contemporanee.
Da una parte, le culture giovanili – come vengono chiamate- sono considerate laboratori creativi di nuovi stili estetici e comportamentali; dall’altra, adolescenti e giovani adulti rappresentano un’area di mercato allettante per beni di consumo nei paesi economicamente sviluppati.
Non sorprende quindi che la sociologia sia incaricata di monitorare gusti e tendenze effimere e mutevoli di quelle fasce d’età tra le popolazioni locali. Tanto da considerare ovvia l’attenzione sia alle culture giovanili in generale sia in particolare ai modi di apparire che le esprimono, aspetti ritenuti caratterizzanti le società contemporanee avanzate, pur sotto diverse forme.
Prima di accennare alle analisi puntuali sviluppate dagli autori dei saggi che seguono, si propongono qui spunti di riflessione sui due concetti cardine di gioventù e di abbigliamento quali costrutti sociali culturalmente definiti anziché dati oggettivamente – il primo addirittura biologicamente – determinati, come vengono spesso considerati, in una lettura acritica e astorica dei fenomeni in questione.
In un recente, ponderoso volume intitolato “L’invenzione dei giovani” (2009), Jon Savage offre una ricca documentazione storica a sostegno della sua tesi, ben chiarita già nel titolo del suo lavoro.
E’ possibile, secondo l’ autore, fissare una data precisa in cui si sarebbe avuta la consacrazione ufficiale di questa nuova realtà sociale nel mondo contemporaneo: quando, cioè, nel 1946, il New York Times sentenziò: è inizita l’era dei teenagers. Ma le origini del fenomeno, secondo Savage, andrebbero ricercate più indietro, a partire dall’Ottocento, con l’affermazione della borghesia nelle società occidentali. In quel contesto, i giovani diventano un capitale umano delle famiglie, su cui investire per l’affermazione e l’ascesa sociale, attraverso strategie mondane, alleanze matrimaoniali e una formazione nelle istituzioni educative.
All’inizio del secolo successivo, il mostro del nazionalismo avrebbe trasformato le nuove generazioni europee in ‘carne da cannone’. Al sanguinoso sterminio dei propri giovani nella prima guerra mondiale – una sorta di gigantesco suicidio collettivo di vincitori e vinti all’insegna del nazionalismo – fece seguito l’ascesa delle dittature. Ed è qui che i giovani diventano in modo esplicito lo strumento e l’oggetto sacrificale per i deliri di potere di Hitler e Mussolini. Le forze nuove dei loro regimi si chiameranno Hitlerjugend e Gioventù del littorio, Balilla e Figli della lupa. L’inno del partito fascista sarà ‘Giovinezza, Giovinezza’.
Vi è stata quindi un’ombra sinistra, nel corso della nostra storia recente, che ha pesato sulla naturale gioia di vivere della condizione giovanile, trasformando quest’ultima in strumento di morte. Ricordarlo può aiutare a capire certe spontanee ribellioni. Come quelle che tornano alla memoria di chi scrive, riportandolo agli anni in cui i suoi compagni d’università, negli Stati Uniti, si ribellavano al reclutamento per la guerra del Vietnam. Perché avrebbero dovuto lasciare i libri e andare a uccidere dei vietnamiti, o finire uccisi chissà perché? Non troppo paradossalmente, il rifiuto era un modo per affermare gli stessi valori educativi e morali che erano alla base di quelle istituzioni create dalla loro società per formare le nuove generazioni.
Una tensione tra i giovani e la società nelle sue forme istituzionalizzate, nelle consuetudini e negli stili di vita della maggioranza non sembra tuttavia limitarsi a casi estremi, quanto piuttosto caratterizzare il modo moderno. Ne appare un elemento strutturale, fondato sull’idea di progresso, propria della modernità, quindi di un andamento dinamico e mutevole, in opposizione alla staticità e ripetitività proprie delle società tradizionali.
Gli studi antropologici rivolti a queste ultime hanno individuato un sistema originale rivolto proprio a combinare fissità nella struttura sociale con il mutamento individuale legato all’età. Cerimonie particolari sanciscono, a intervalli regolari, l’ingresso e l’uscita dei singoli membri in una determinata classe d’età. E’ l’appartenenza a una particolare classe d’età a definire i ruoli dei singoli, finché ne fanno parte. Ne consegue che, all’inteno di ogni singola classe d’età, tutti gli individui possiedono uguale status, e lo cambieranno, insieme ai loro coetanei, passando alla classe d’età successiva. Quella dei giovani, dopo l’iniziazione al momento della pubertà, è la prima delle classi d’età, a cui sono affidati compiti importanti, per la difesa del gruppo e le attività lavorative ma che è anche la più libera, non avendo ancora impegni di famiglia (cfr. Bernardi 1984 ).
L’ordinato scorrere del tempo definito da un sistema di questo tipo, che combina il tempo cronologico legato all’età individuale con quello strutturale della società con le sue regole e attività, era caratteristico di popolazioni africane nilotiche che Evans-Pritcherd (2003) definì egualitarie. E’ interessante ricordarle per mettere in risalto i caratteri opposti con i quali si sono sviluppate le società moderne a cui apparteniamo.
Qui le classi sociali sono nate e si sono affermate con forti elementi di diseguaglianza, in base al potere, al prestigio e al censo del gruppo familiare d’origine. Alle classi tradizionali dell’aristocrazia, del clero e del popolo si sostituirono quelle del mondo borghese moderno, basate essenzialmente sul potere economico familiare e le attività lavorative individuali.
All’interno di questo sistema, il tempo giovanile è caratterizzato da attività educative e formative e dal graduale accesso al mondo produttivo, mentre la sua visibilità e il suo potere sociale hanno stentato a affermarsi.
Le inquietudini di una condizione giovanile incerta e spesso ambigua trovno sfogo nel romanticismo. Figura emblematica è il giovane Werther, con i suoi tormenti esistenziali. Il profondo disagio interiore, che nel caso del protagonista del testo di Goethe lo spinge fino al suicidio, è anche il segno di uno scollamento tra l’individuo e la società. Un’opposizione che, se da una parte può rivelare conflitti interiori, dall’altra trova spesso espressione in movimenti giovanili di rivolta e contestazione alla società istituzionale.
La società, pur mostrandosi spesso restia ad accettare le manifestazioni giovanili e incline piuttosto alla loro repressione, trova in questi fermenti un elemento strutturale fondante e strategico pr il proprio sviluppo, una volta identificatasi nell’idea di sviluppo e di progresso: qualcosa che, con evidenza quasi biologica e certo culturale, non può venire che dalle nuove generazioni.
La metafora dominante nelle culture del mondo contemporaneo è diventata quella economica, misura di ogni cosa, regola sociale universale all’interno delle nazioni e ora anche su scala planetaria. La figura del giovane viene anch’essa decodificata in quei termini: presenza incompleta sul piano della produzione, diventa protagonista come consumatore, pedina strumentale fondamentale nella macchina globale dela circolazione dei beni di consumo. Ecco allora celebrare la figura del teenager, a partire dalla pagina ‘storica’ del New York Times, ricordata da Savage.
Ma i giovani possono essere considerati un ‘mercato’, come si sente spesso dire? Sì, nell’ottica riduttiva di un approccio mercantile, marketing oriented, che si illude di poter orientare le scelte dei propri potenziali consumatori, destinato in realtà a inseguire gli imprevedibili e mutevoli gusti e le tendenze negli stili di vita del variegato mondo giovanile.
No, se appena si considera che nell’ottica moderna e ancor di più nell’attuale condizione che molti chiamano postmoderna, la società è concepita come un’entità strutturalmente dinamica, orientata allo sviluppo e al suo interno composta da continuamente mutevoli interrelazioni tra le sue componenti. La pratica del voto politico ricorrente ne è un esempio emblematico. Questa ideologia della società, lontana sia da quella delle società tradizionali statiche sia da quell a cui si è accennato basate sull’avvicendamento nelle classi d’età, non può che esprimersi nell’affidare alle nuove generazioni l’introduzione di quelle novità che le sono essenziali. Programmare le novità è qualcosa di per sé contraddittorio ma cercare di prevederle è al tempo stesso necessario, per il funzionamento dell’intero sistema e delle sue parti. E’ una sorta di inseguimento continuo tra innovazione e previsione, che è parte essenziale della dinamica sociale nel mondo contemporaneo. In questa sfida, i giovani sono i protagonisti.
Le loro espressioni, spesso interpretate cone forme di anomia sociale, sono in realtà la linfa vitale di una società che vuole sempre rinnovarsi. La tensione continua tra istituzione e innovazione è il motore stesso della dinamica sociale.
Di tutto ciò i giovani sono spesso attori inconsapevoli. La loro azione si manifesta di preferenza attraverso messaggi indiretti, espressi da stili di vita e modi di apparire che ne mettono in risalto le molteplici e mutevoli identità, individuali e di gruppo.
E’ qui che l’abbigliamento acquista un’importanza particolare. Si potrebbe segnalare anzituto un piccolo paradosso. Mentre in passato, quando i costumi erano confezionati singolarmente in modo artigianale, le fogge riproducevano puntualmente certi canoni stilistici, ora che tutti i capi d’abbigliamento sono di produzione industriale gli stili individuali con cui i singoli elementi vengono combinati e indossati mettono in risalto i gusti personali e quindi, indirettamente, la personalità dei soggetti.
Per cogliere ciò, occorre sbarazzarsi di uno stereotipo puritano, che opponendo esteriorità all’interiorità, tende a svalutare la prima come qualcosa di inconsistente se non addirittura peccaminoso. Da quella tradizione deriva il significato negativo attribuito alla superficialità, come categoria amorale. Ma già Nietzche, eterno contestatore dei preconcetti, aveva rivalutato ne ‘La Gaia Scienza’ la superficialità, portando ad esempio gli antichi Greci, con la loro associazione tra il bello e il buono, e le loro straordinarie opere artistiche, tanto significative da conservare intatto oggi il loro potere espressivo.
Nell’abbigliamento casuale dei giovani intorno a noi si può cogliere il segno di quella tensione tra omologazione e innovazione alla quale si è accennato. In termini sociologici, ciò corrisponde ai due bisogni presenti ed opposti in ogni individuo sociale e al cui equilibrio dovrebbe tendere l’ordine collettivo per una armonica convivenza: il bisogno di libertà e il bisogno di sicurezza (Tullio-Altan 1971).
La ricerca di sicurezza si esprime esteriormente come desiderio di omologarsi a uno stile condiviso e approvato dalla collettività, o come segno di appartenenza a un gruppo ristretto, solidale e quindi protettivo. Può essere mutevole, nell’adeguarsi a una situazione particolare, dipendente dalla situazione, dall’attività e dalle stesse ore del giorno.
Il bisogno di libertà, dal canto suo, si esprime con la volontà di segnalare la propria individualità nell’uniformità della vita metropolitana, attraverso segni visibili sul proprio corpo, più immediatamente percepibili dei comportamenti e delle parole.
I messaggi delle forme attraversano facilmente barriere culturali e linguistiche, veicoli privilegiati dela comunicazione globalizzata.
trova il supporto delle industrie di produzione e distribuzione di capi d’abbigliamento, che si servono di ogni possibile mezzo di comunicazione di massa per imporre le mode e il loro avvicendamento serrato, necessari per sostenere la produzione e il consumo.
La pulsione verso un’espressione individuale della propria personalità e condizione sociale, è giocata, d’altra parte, in un equilibrio tra il piacere di farsi sedurre dal fascino delle mode e delle sue icone e quello di affermare l’unicità del proprio gusto.
Sono in gioco quindi dinamiche profonde e complesse, che non possono ridursi al confronto tra produttori e consumatori di capi d’abbigliamento ed esprimono assai più di uno stile e di una ricerca estetica.
Quando i giovani degli anni Sessanta iniziarono a vestirsi in modo originale e con colori chiassosi, facendosi crescere i capelli, gli adulti capirono subito il messaggio e se la presero proprio con quelle apparenze, giudicandole forme rivoluzionarie prima ancora dei comportamenti, espressioni destabilizzanti del sistema sociale. La faccenda fu presa allora molto sul serio, e ancora oggi, negli uffici di compagnie multinazionali si deve andare al lavoro in giacca e cravatta dai colori sobri.

Il significato sociologico dei tipi di abbigliamento scelti dai giovani è analizzato nel saggio di Mariselda Tessarolo, utilizzando un ampio ventaglio di dati empirici che le consentono di tracciare un illuminante quadro delle attuali tendenze. L’attenta lettura dei dati ha stimolato l’autrice a compiere interessanti osservazioni riguardo alla preminenza di quella che la Tessarolo chiama la ‘attualità culturale’ nelle preferenze dei capi indossati, rispetto ad altre variabili più comunemente considerate, quali il prestigio, la praticità o la stessa convenienza economica. E’ ciò che, ad esempio, forse inaspettatamente, orienta certe scelte nel campo delle calzature.
L’altro versante rispetto al consumo – quello dei persuasori che il consumo mirano a indirizzare – è stato oggetto dell’attenzione critica di Manuela Di Prima, che ha analizzato le strategie della pubblicità di moda con uno stimolante approccio comparativo tra Italia e Giappone. Il recente fenomeno delle globalizzazione, che trova i due paesi tra i protagonisti anche nel settore dell’abbigliamento, viene opportunamente contestualizzato, nei due casi, alla luce delle ancora persistenti influenze specifiche, di origine storica e di sensibilità estetica. Infatti, come afferma l’autrice, l’abbigliamento è ricco di significati simbolici e valoriali. E ciò consente una lettura culturalmente attenta dei messaggi pubblicitari considerati.
Un indicatore sensibile, quello delle preferenze in tema di colori, è stato scelto da Adele Cavedon e Giuseppe Paxia, che hanno compiuto un’indagine su un ampio campione di studenti universitari di Padova e di Tokyo che ha messo in risalto particolarità e differenze significative, analizzate nel saggio. La storia dei colori è un capitolo importante delle rappresentazoni culturali delle società, particolarmente in quelle complesse e dinamiche quali sono l’italiana e la giapponese. Ai codici sociali si sovrappongono i messaggi che, attraverso i colori rivelano, più o meno consapevolmente, tratti psicologici di chi li sceglie, nella sempre più ampia offerta dei capi d’abbigliamento.
Una consuetudine diffusa tra gli studenti padovani – quella di ritrovarsi la sera nelle piazze del centro storico per consumare un aperitivo – offre lo spunto a Livia Gaddi per introdurre il tema dei coportamenti collettivi giovanili e dei suoi rapporti con la città. La spinta perbenistica ad allontnare questo rituale giovanile dal centro storico verso un ghetto periferico offre un esempio di come si possono creare forme di emarginazione socialmente negative e fonti possibili di devianza, purché non visibili. Un micro-segno di quella costante tensione tra conservazione e innovazione nel tessuto sociale.
La presenza di dati empirici, osservazioni e interpretazioni negli orientamenti giovanili in tema d’abbigliamento in Italia e in Giappone, oltre a un interesse direttamente comparativo di particolare rilevanza data la posizione preminente dei due paesi nel campo della moda, del tessile e della confezione, offre spunti per considerazioni più generali sull’attuale panorama di globalizzazione in tema di gusti e stili di vita giovanili.
Tra le molte previsioni che la realtà sembra smentire, in tema di globalizzazione, vi è quella di una omologazione indifferenziata della popolazione mondiale nell’abbigliamento e nei modi di apparire. Esiste certo un crescente uniformità dell’offerta e, per effetto dei modi di persuasione più vari – non solo la pubblicità diretta, ma i modelli idealtipici delle icone dello spettacolo, della musica e dei personaggi proposti dai mezzi di comunicazione di massa – anche della domanda, e ciò si diffonde sempre più su scala planetaria. Ma anche uno sguardo superficiale non può ignorare che i modelli proposti dalla moda internazionale incontrano resistenze culturali spesso invalicabili: basti pensare al mondo arabo. Non è solo il mercato e le risorse economche a dettar legge, come spesso si ritiene.
Ma vi sono strategie più sottili ma non meno efficaci di resistenza all’omologazione planetaria. Il caso più eclatante è quello dei jeans. Quella stoffa ruvida e resistente in un unico colore (il blu ‘di Genova’, intesa come porto, frequentato da marinai e scaricatori), per pantaloni e tute da lavoro maschili, ha conosciuto e continua a ispirare la più incredibile quantità di variazioni sul tema che la storia del costume ricordi. Poteva essere una anonima divisa, è diventato un capo maschile e femminile in grado di adattarsi ai corpi e ai desideri più svariati, di proporre messaggi trasgressivi o seduttivi, o le due cose insieme: si pensi alla geniale trovata dello strappo, introdotta dai teenagers dei college americani o al successo dei capi scolorati e finto-usati.
Nel saggio di Manuela Di Prima – dopo alcune pertinenti distinzioni tra l’accento posto sull’individuo in Occidente e sul gruppo in Oriente, che la storia del costume ha rappresentato - si accenna alla moda diffusasi tra le teenager giapponesi di combinare il nuovo con l’usato, una griffe con un’ altra, realizzando così uno stile personale a partire da capi disparati, in genere di produzione industriale: è il caso del sukapan, la sovrapposizione cioè di gonna e pantaloni.
Nel suo denso e impegnativo saggio, Junji Tsuchiya prende spunto dall’evoluzione della moda giapponese e del ruolo fondamentale svolto dai rapporti tra la l’espressione creativa e l’innovazione tecnica dei materiali utilizzati, per allargare gli orizzonti della sua analisi. La moda sarebbe un indicatore sensibile di un più generale processo che condurrebbe le società più avanzate oltre il postmoderno - che ha svincolato i segni culturali e la loro interpretazione da un contesto storico - verso l’affermazione di un ‘tecnoculturalismo’ in cui la condizione umana troverebbe una sua nuova dimensione. La stessa dicotomia tra il ‘reale’ e il ‘virtuale’ diverrebbe obsoleta, fondendosi l’uno nell’altro. In luogo della netta divisione, sia operativa che concettuale, tra hardware e software, che ci è familiare, si inserirebbe un terzo fattore, denominato con il neologismo senseware, a indicare la nuova natura sensibile dell’uomo ‘tecnoculturale’ , demiurgo del proprio destino: non già schiavo della tecnologia, come sembravano anticipare gli incubi fantascientifici dei cyborg, ma mediatore tra tecnica e cultura, sue creature, in tutte le loro più imprevedibili e futuribili espressioni.
Così come i vari contributi in questo volume illustrano da diverse prospettive, al centro del sistema moda in tutte le sue valenze estetiche, economiche e sociologiche, così come in generale delle mode, giovanili o comunque espressive di particolari gruppi sociali, sta una volontà di affermazione individuale e una ricerca di soddisfacimento di bisogni o desideri soggettivi.

Ogni riflessione sullo stile personale, così come viene elaborato attraverso le scelte dell’abbigliamento, deve inserirsi in una considerazione più generale riguardante il corpo, che l’abito non cela, anche nelle parti coperte.
Il rapporto con il proprio corpo si manifesta sempre più spesso in forma manierista. In passato, il manierismo era un’espressione di accentuazione formalistica di ciò che veniva proposto in società raffinate e, all’interno di esse, da classi e gruppi sociali elitari che intendevano esprimere anche esteriormente il loro status privilegiato. Nelle società postmoderne più avanzate, ai codici fissi delle classi sociali espressi dall’etichetta e dall’abbigliamento si sono sostituiti i messaggi molteplici e mutevoli dei modi e delle mode d’apparire, che trovano nella condizione giovanile, alla continua ricerca individuale di una o più identità, la sua principale palestra. E’ una modalità nuova di manierismo ad affermarsi. Non già come esasperazione – frivola o maniacale, talvolta ironica – dell’ apparenza e delle regole di etichetta già codificate come segno distintivo delle classi sociali superiori, bensì come invenzione o adozione di moduli reinterpretati nell’abbigliamento, nelle acconciature, in oggetti di culto (la Vespa dei Mods in opposizione alle moto rombanti dei Rockers) che, nella cura formalistica esasperata della loro applicazione diventano segni forti di appartenenza a un gruppo di coetanei, in opposizione vistosa non solo alla maggioranza della popolazione ma ancor più ad altri gruppi giovanili.
Dick Hebdige, nella sua analisi dei movimenti sorti in Inghilterra intorno agli anni Sessanta - Teddy boys, Mods, Zoot suits -, ha chiamato questa ricerca formalistica nelle bande giovanili ‘uno stile innaturale’ (Hebdige 1983).
Non sono soltanto l’abito e gli oggetti d’uso a fornire questa opportunità, ma l’intero corpo o alcune sue parti, attraverso cure e interventi che mirano a modificarne l’aspetto esteriore piuttosto che le intrinseche funzioni.
Tagliarsi le unghie, regolare i capelli, depilarsi, radersi o avere cura della barba sono altrettanti modi di intervenire sul proprio corpo, addomesticandolo secondo convenzioni attribuite al vivere civile e quindi, a modo loro, innaturali. Cure per la crescita, fogge, extensions, tinture: i capelli sono da tempo, e non solo certo nelle società occidentali, terreno ideale per interventi che l’esasperato consumismo ha accentuato. Lo stesso avviene per la barba maschile, eliminata o modellata in mille varianti, ognuna espressione di qualche messaggio esteriore o ricerca di identità interiore. Tali interventi, così come quelli su unghie, peli, pelle, proposti ed enfatizzati dalla pubblicità e dalle icone mediatiche, pur avendo chiaramente carattere di modifica innaturale dell’aspetto del corpo, sembrano tendere verso una omologazione a caratteri diffusi e approvati socialmente. Anche se, al loro primo apparire, si propongono come veicoli di messaggi trasgressivi espressi da giovani e minoranze nei confronti dell’establishment.
Ma vi sono modi in cui più direttamente si interviene sul proprio corpo modificandone la struttura senza alcun rapporto con una funzione, come nella muscolatura da palestra. La forma di un corpo ‘palestrato’ è manieristica proprio a causa di una mancata corrispondenza tra la forma e la funzione. Non vi è differenza sostanziale con un incipriato damerino settecentesco: l’uno come l’altro si esprimono attraverso la pura forma esteriore dei modelli idealtipici intrpretati in modo esasperato.
Altro esempio di manierismo applicato al corpo è quello dei tatuaggi, assai diffusi tra i giovani d’oggi. I disegni scelti per essere incisi sulla pelle sono presi dai contesti più diversi: malavita incarcerata, marinai di lungo corso, gruppi etnici esotici (lo stile tribal). Sule pelli diafane dei giovani delle società sviluppate quei segni sono decontesualizzati, privati dei loro significati originali e in grado quindi di assumerne di nuovi, come forma comunicativa spesso criptica e trasgressiva (Castellani 1995).
Il linguaggio del corpo, sia quello iscritto direttamente sulla pelle, sia ancor più quello delle mutevoli fogge degli abiti - che celando le membra disvelano le identità dei soggetti ed esprimono il senso di appartenenza a mode culturali e modi di vita sociali - si serve di sempre nuovi morfemi per realizzare, attraverso la loro scelta, manipolazione, interpretazione e reinterpretazione, infinite varianti e invenzioni, in una eterna lotta, impari ma vincente, con il moloch globalizzante del sistema di mercato.
Le forze in gioco sono molteplici, e gli incroci tra di esse imprevedibili, come la varietà dei contributi in questo volume ha cercato di mostrare. La stagione del postmoderno, pur così recente, sembra già delinare, per lasciare il campo a nuovi scenari. Con l’aiuto delle biotecnologie e delle frontiere scientifiche più avanzate, l’umanità sembra volersi lanciare verso una radicale reinvenzione della propria stessa fisicità. In questo avveniristico progetto, che rende obsoleta la fantascienza e i suoi protagonisti cyborg, la moda sembra essere ancora una volta in prima linea, vetrina ideale per sempre nuovi progetti di umanità.

BIBLIOGRAFIA

Bernardi B. 1984 I sistemi delle classi d’età, Milano, Franco Angeli.
Castellani A. 1995 Ribelli per la pelle, Genova, Costa & Nolan.
Evans-Prtchard E. E. 2003 I Nuer, Milano, Franco Angeli.
Hebdige, D. 1983 Sottocultura: il fascino di uno stile innaturale, Genova, Costa & Nolan.
Savage J. 2009 L’invenzione dei giovani, Milano, Feltrinelli.
Tullio-Altan C. 1971 Antropologia funzionale, Milano, Bompiani.

Uno sguardo, dentro

Quando, nell’Ottocento, lo sguardo dell’Occidente si spinse a esplorare gli angoli più remoti della Terra e a incontrarne gli abitanti, la fotografia parve il mezzo ideale per riportare a casa ciò che si era visto – o, come si prese a dire con candida presunzione, ‘scoperto’. Quelle lastre impressionate dalla luce, nello spirito positivista dell’epoca, rappresentavano la prova oggettiva di ciò che si era visto: uomini diversi da ‘noi’ fin dall’aspetto esteriore, fieri guerrieri muscolosi dalla scura pelle decorata, donne innocentemente a seno nudo. Così, il ‘buon selvaggio’ si metteva in posa davanti al fotografo-esploratore. Quelle immagini alimentarono la curiosità nei confronti di popolazioni che la teoria evoluzionista battezzò ‘primitive’, cioè una sorta di antenati viventi, una testimonianza di come noi eravamo ‘prima’.
L’Oriente, si sa, esercitò un fascino speciale. Ed ecco la fotografia farsi interprete privilegiata dell’esotismo. Il campione fu Felice Beato, un avventuroso metà veneto metà inglese. Le sue foto diventarono le perfette icone di un Giappone come piaceva pensarlo agli occidentali. Quelle figure stereotipate – i Native types- furono in seguito criticate come espressione di ‘orientalismo’ , o giustificate dalla necessità tecnica di fissare le posture a lungo, per poter impressionare le lastre. Ed è invece proprio l’artificiosità evidente di quei ritratti a interessarci. Essa ci mostra come la fotografia non sia la rappresentazione della realtà ma piuttosto la rappresentazione di una – personale, soggettiva, culturalmente specifica – rappresentazione della realtà. Le posture, in quel caso, sottolineano i messaggi corporali di quella società: la geisha sinuosa, il fiero samurai, le adolescenti timide che voltano le spalle all’occhio indiscreto dell’obbiettivo.

Oggi, viviamo in una società di esasperato visualismo. Siamo immersi in un flusso continuo di comunicazioni e abbiamo passivamente accettato il vecchio mantra che ‘il medium è il messaggio’. Un’altra forma di reificazione dopo quella positivista, non troppo dissimile, in fondo, dalla prima. Il significato – il messaggio – emergerebbe dal solo fatto di essere parte di un medium globale quale è diventato il mondo in cui viviamo, ognuno nel ruolo affidatogli dalla società dello spettacolo, con la propria immagine, con il proprio corpo.
Ma, come insegna Beato, è invece quello scatto a attribuire un significato a un’espressione, a un movimento, a far emergere il messaggio. E il medium, si potrebbe dire, è la mente, la personalità della fotografa o del fotografo: il loro occhio, piuttosto che i pixel o le fibre ottiche.
E così non saranno i corpi rappresentati a interessarci, ma la rappresentazione fatta dal fotografo/a di quelle rappresentazioni espresse nella loro viva esteriorità; meglio ancora, l’interazione tra le une e le altre. Così ad esempio, un tatuaggio o la posizione di un corpo esercitato in una particolare disciplina comunicano già di per sé un messaggio; dal canto suo, la fotografia ha il potere magico non tanto di comunicare, ma al contrario di fissare quel momento vitale e trasformarlo da segno idiografico in segno universale. Che è poi quello che fanno tutte le arti.

Nelle rappresentazioni artistiche così come nell’analisi dei fenomeni socioculturali stiamo assistendo a un rinnovato interesse verso il corpo umano. E la fotografia occupa un posto di rilievo in questa fenomenologia dello sguardo: al tempo stesso operazione emblematica di alterità tra osservatore e osservato, e espressione di un rapporto empatico, di una condizione antropologica condivisa, che la fisicità mostra in tutta la sua evidenza.
Il crollo delle ideologie dominanti fino alla caduta del Muro di Berlino ha avuto tra le conseguenze il rifugio nel concreto, nell’attenzione ai gesti e ai fatti quotidiani, lontana da astrazioni. Un nuovo linguaggio del corpo ha preso forma nel contesto della vita contemporanea, alla ricerca di una riappropriazione della fisicità, di percezioni sensoriali naturali,organiche, della condizione umana; in dialogo e talvolta in reazione alle tecnologie più avanzate che vanno proponendo un mondo parallelo di replicanti, di intelligenze artificiali e robot umanoidi. D’altra parte, il contatto sempre più ravvicinato tra culture remote – altro tratto caratterizzante la contemporaneità - trova una base comune per comunicare nei messaggi trasmessi dal corpo, più immediatamente percepibili di quelli linguistici, nella spesso inconsapevole ricerca di una universalità latente, dietro la specificità delle diverse tradizioni.

BIBLIOGRAFIA
Beato, Antonio e Felice, Catalogo Ikona Photo Gallery, Venezia 1983
Chalfen, R., Snapshot Versions of Life, Bowling Green University Press, Ohio 2008
Csordas, T. J. Embodiment and Experience, Cambridge University Press, Cambridge 1994
Debray R., Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Il Castoro, Milano 1999
McDougall, D. The Corporeal Image: Film, Ethnography and the Senses, Princeton University Press, Princeton 2005
Zannier I., Verso Oriente: fotografie di Antonio e Felice Beato, Alinari, Firenze 1986

Antonio Marazzi, già professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Padova, è stato Chairman della Commission on Visual Anthropology dell’Unione internazionale di antropologia, che ora rappresenta presso il Comitato di scienze umane dell’Unesco

Testo pubblicato in: Padova Aprile Fotografia 11. I territori del corpo