venerdì 10 settembre 2010

SUONARE E DANZARE PER I KAMI: UNA 'OFFERTA MUSICALE' GIAPPONESE *

Fin dallo stimolante invito fatto da Marcel Mauss, in un suo celebrato saggio, a rivolgere l’attenzione alle ‘tecniche del corpo’, gesti, movimenti e posture sono considerati in antropologia non soltanto nel loro aspetto funzionale ma quali espressioni socialmente specifiche e culturalmente significative.
Sotto questo aspetto, il caso giapponese è di particolare interesse, per i complessi processi di elaborazione di influenze provenienti dall’esterno e la loro assimilazione al contatto con tradizioni originarie, nell’incrocio tra espressività corporale e sonora, sia essa canora che strumentale. Una antica sensibilità fonde, nella cultura giapponese, suoni e gesti, e questi alle entità e alle forze spirituali con le quali si entra in rapporto attraverso la musica e la danza. E tale sensibilità dobbiamo ritenere persista, anche se celata e inconscia negli stessi soggetti che oggi la esprimono, nei modi e nelle forme della contemporaneità e della occidentalizzazione.
Il grande numero e l’alta qualità di esecutori di musica classica occidentale è il principale termine di riferimento con cui si è abituati a considerare la musicalità dei giapponesi. Mentre si apprezza il livello tecnico ed espressivo dei musicisti – spesso premiati in concorsi internazionali - e l’interesse del pubblico, si coglie al tempo stesso l’occasione per considerare ciò come un’altra delle prove dell’avvenuta, totale occidentalizzazione, e conseguente perdita dei valori autoctoni tradizionali, della cultura giapponese.
Non intendo qui servirmi di un approccio storico o musicologico (inevitabilmente riferito alle nostre categorie, ai nostri criteri classificatori, al nostro modo di sentire) allo scopo di dare prova della ricchezza di una tradizione poco nota, peraltro anche in patria; quanto, piuttosto, cercare di comunicare per empatia un modo di sentire suoni e rumori (la distinzione, beninteso, è nostra) da parte dei giapponesi.
Anzitutto, è però necessario rendere conto del fenomeno attuale, l’incontestabile appassionata assimilazione di stili musicali europei e americani, sia classici che pop. Basterà accennare come, anche per quanto riguarda la musica, si siano avuti nel passato imprestiti culturali importanti, dalla Corea prima, poi dalla Cina, e da altre tradizioni ancora attraverso la Cina, e come sia stata proprio l’elaborazione di quei contatti ad attivare forme musicali proprie, in Giappone, prima fra tutte il gagaku, la musica dell’antica corte imperiale ai tempi di Nara e di Kyoto. Non sarebbe tuttavia corretto stabilire un parallelo troppo stretto tra l’antica adozione di strumenti e forme musicali dall’Asia continentale e quella dall’Occidente, oggi. Allora, quegli incontri servirono a dare l’avvio a forme espressive di grande importanza all’interno della cultura giapponese, fondendosi con elementi autoctoni: nella musica insieme alla danza, e quindi al teatro classico, no e kabuki. Sulla scia della riproduzione elettronica, la musica pop arriva ora dall’estero già pronta per l’ascolto, e gli esecutori locali tutto sembrano cercare fuorché l’adozione di uno stile orientaleggiante. Sembra: ma la tonalità della voce delle giovanissime e dei giovanissimi aidoru (gli ‘idoli’) deve essere dolcissima e assai melodica, ben diversa da quella dei pop singers angloamericani. Richiama, piuttosto, quelle voci che accompagnano i gesti aggraziati delle danze bon odori nelle feste religiose paesane. Può ricordare la cantilena del venditore ambulante di patate dolci che avanza con il suo carretto-caldaia per le strade nebbiose dell’inverno nel Kyushu o nello Shikoku cantando il suo richiamo: o-imoooo,yaki-imoooo, mentre il vapore fischia uscendo dallo stretto comignolo della caldaia. Agli anziani, può ricordare la voce dei monaci ciechi itineranti, che si accompagnavano al liuto biwa per rievocare il tempo antico, jindai, degli antenati e degli spiriti. Si potrebbe continuare, elencando le sensazioni che fanno scattare nell’animo di un giapponese il suono di questo o quello strumento. Lo shamisen, anche se era una presenza obbligata nella ieratica musica di corte, il gagaku, evoca le seduzioni delle geisha, mentre l’arcaica melodia del sho ricorda i solenni concerti di gagaku che ancora si tengono in qualche santuario, e il suono secco di uno tsuzumi fa pensare al teatro noh.
Con queste note, che forse appariranno troppo impressionistiche, intendo introdurre un’osservazione di carattere generale. La sede della musicalità, per un giapponese, è il kokoro, il cuore, centro delle emozioni e dei sentimenti, che vibra all’unisono non soltanto delle corde di biwa o di koto o di quelle della voce umana, ma dei suoni e dei rumori della natura. E dei suoi silenzi: quegli intervalli dove il tempo (tempo musicale e tempo del cosmo) è sospeso, quel concetto di ma che è vuoto di ciò che colpisce i sensi ma pieno di ciò che esprime l’essenza delle cose e con cui si può entrare direttamente in sin-tonia.
La musica colta antica, quella religiosa anzitutto, adottata principalmente dalle scuole del buddismo esoterico Tendai e Shingon per sostenere e diffondere i propri messaggi (come facevano i monaci itineranti che recitavano sutra accompagnandosi al biwa) ma anche dallo shintoismo e dallo Shugendo, come pure quella destinata a rallegrare la corte, mirava a raggiungere i sentimenti attraverso un’operazione intellettuale. La musica era il nobile accompagnamento di quei messaggi spirituali, di quegli stili di vita di cui la società giapponese sentiva la fascinazione e che intendeva adottare come propri elementi culturali. Le modalità espressive così come le tecniche di esecuzione fino alla fabbricazione degli strumenti venivano quindi apprese da maestro a discepolo, così come avveniva per tutte le arti e le tecniche, non costituivano un corpus autonomo. Era quindi qualcosa che apparteneva al dominio del pubblico e poteva raggiungere i sentimenti condivisi e adottati dalla collettività. Più che in ogni altra società, in Giappone è la dimensione pubblica a contare, tatemae, ciò che sta di fronte agli altri.
Lo stesso vale per lo yogaku, la musica esotica, di oggi, cioè quella occidentale, sia essa classica o pop. Si sente spesso dire che i giovani preparatissimi esecutori giapponesi che si presentano ai concorsi suonano tutti allo stesso modo: non vi è ricerca di uno stile individuale, quanto della migliore possibile, condivisa adesione a ciò che si è appreso.
Vi è però qualcosa che viene dal più profondo, O-naka, l’interiorità, che ha la propria sede simbolica nel hara, il ventre. E’ un’area segreta, spesso oscura, che può arrivare direttamente al cuore degli uomini e all’essenza delle cose, senza intermediazioni razionali, la sede di ciò che i giapponesi sentono come più autenticamente loro.
Se la società è dominata dagli uomini, dalle sue regole e dalle sue manifestazioni, quest’altra dimensione, da essa autonoma e che pure la attraversa, consente di entrare in relazione con il mondo degli antenati, con la natura e gli spiriti che la abitano. Mettendosi in una certa disposizione d’animo, si può sentire la presenza di queste forze spirituali, i kami, li si possono evocare, se ne può invocare la protezione, si può rendere loro omaggio come spiriti dei luoghi e remoti predecessori, membri idealmente del proprio gruppo di parentela e dell’intera comunità nazionale.
Per entrare in contatto con i kami, si attiva una forma di comunicazione sonora, che va dal doppio battito delle mani, al fine di attirarne l’attenzione quando ci si presenta davanti a un tempio, a una forma di accompagnamento musicale vocale o strumentale (hayashi). La relazione spirituale tra uomini e kami è tutta pervasa da un ambiente sonoro che è fatto anche dai rumori e dai silenzi della natura, e che si sviluppa nel corpo umano attraverso la danza. Come ha detto il critico di danza tradizionale Tamotsu Watanabe, la danza è “la voce del corpo”, come un’eco dei suoni musicali, mentre la musica è anzitutto parola e canto (hayashi kotoba). Gesti e suoni sono quindi tutt’uno nel corpo che si esprime attraverso di essi. Musica, suoni e danza sono accompagnamento di un’espressione spirituale del proprio intimo e di un dialogo con i kami .
Parole e suoni, talvolta accompagnati da gesti di danza, sono modi per avvicinarsi ai kami, per intrattenerli e stabilire con essi una comunione, per ingraziarseli e propiziare la loro benevolenza.
Lo sciamanesimo ha una tradizione importante in Giappone, mantenuta viva dalle itako e dagli yamabushi dello Shugendo. Le prime, donne spesso cieche che si ritrovano ancora nelle regioni settentrionali dello Honshu, sono medium specialiste dell’attività oracolare, ancora consultate - come testimoniano gli studi di Carmen Blacker (1975) e i filmati di Yasuhiro Omori (1991, 1993) - specie in alcuni periodi dell’anno, Obon e higan, quando gli uomini sentono più vicini a loro i kami. I secondi, eremiti delle montagne, le cui vocazioni sono sorprendentemente in ripresa oggi, oltre a essere ritenuti in possesso di poteri magici e facoltà taumaturgiche, si dedicano nei loro ritiri a pratiche ascetiche, digiuni e prove fisiche –concentrate su acqua e fuoco - volte a raggiungere l’estasi, rientrando quindi appieno nella definizione classica degli sciamani da parte di Mircea Eliade come gli “specialisti dell’estasi”(Eliade 1992). Yamabushi e itako si servono per raggiungere lo stato di trance in cui si esprimerà la loro vocazione rispettivamente estatica o oracolare, di un accompagnamento musicale. Anche essi utilizzano il tamburo, rientrando quindi nella pratica più diffusa tra le tecniche dello sciamanesimo asiatico e extra-asiatico, ma non solo: può essere la cetra yumi per le medium o la conchiglia, horagai, per gli eremiti. In ciò si conferma l’opinione di Gilbert Rouget (1980), che non sia prerogativa del tamburo, con le sue vibrazioni ritmicamente ripetute in modo ossessivo, a essere supporto unico e indispensabile a veicolare lo stato di trance o addirittura a provocarlo, anche attraverso la pressione esercitata dal suono sui ventricoli dell’orecchio, come vorrebbero certe teorie organiciste, e che altri strumenti possano assolvere alla medesima funzione di accompagnamento, anche se più raramente utilizzati. Nel caso giapponese, sembra proprio che l’utilizzo della musica sia diretta ai kami, al fine di ‘aprire la via’ a una relazione con loro, più che essere rivolta allo sciamano stesso.
Se lasciamo l’ambito ristretto degli specialisti dell’estasi e della possessione, si apre un campo vastissimo di eventi in cui canti, musiche e danze sono offerti come doni ai kami, in mille occasioni rituali. Sono i matsuri, le feste celebrate almeno una volta all’anno in tutti i villaggi e in tutti i quartieri cittadini, in cui si invitano antenati e ujigami, gli spiriti dei luoghi, per rinsaldare i legami della collettività e quella tra gli uomini e gli spiriti. E’ shogatsu, il Capodanno, e ko-shogatsu, il Piccolo Capodanno, che segue, in cui si celebra insieme ai kami l’anno trascorso positivamente grazie anche alla loro protezione. E’ la ricorrenza più importante di tutte, Obon, dedicata proprio ad essi, una ‘festa per gli antenati’ non per ricordarli mestamente, ma per farli partecipare a un incontro conviviale tra vivi e morti, in cui, per intrattenere ospiti tanto importanti e spesso temuti, si canta e si balla una danza speciale, il Bon-odori.
Le danze erano originariamente considerate un modo per rivolgersi ai kami, nella tradizione giapponese. Esse sono di due tipi: odori è una danza collettiva, fatta di movimenti ondeggianti del corpo e ritmici salti dei piedi, tra fremiti di ventagli e dolci motivi di strumenti musicali a fiato; mai è invece danza individuale, basata su movimenti circolari spesso propiziatori di uno stato di trance. Per la sua diffusione, il buddismo si è servito anche della danza: in particolare, le sette amidiste hanno promosso come pratica di devozione il nembutsu odori, insieme alla recitazione ripetitiva di mantra. Tutte queste danze sono un modo per sentirsi in contatto intimo con la natura attraverso il proprio corpo, a partire dalla parte più profonda di sé, hara, collocata nella parte bassa del tronco. E’ ciò che esprimono i passi delle danze tradizionali giapponesi, che sono sempre fatti poggiando tutta la pianta del piede a contatto con la terra, le ginocchia leggermente piegate, per mostrare tutto il peso che unisce il danzatore al suolo.
Ricordiamo che nella tradizione giapponese è dalla danza e dal suo accompagnamento musicale che nasce il teatro, e che la mimica dell’attore vi si aggiunge solo in seguito. E’ avvenuto così per il noh e per il kabuki, ma si potrebbe affermare lo stesso anche per il moderno butoh.
Oltre un millennio fa, alla corte imperiale, adottando e trasformando influenze secolari e religiose cinesi, si andò elaborando quella forma di fusione tra musica e danza che prese il nome di bugaku; una rappresentazione che avveniva all’interno di un quadrato-mandala. Parallelamente, cresceva il riconoscimento dato a una diversa forma espressiva, inizialmente dedicata ai raccolti di riso e quindi trasformatasi fino a prendere il nome, forse ironico, di sarugaku (gaku sta per musica, bu sta per danza, ma saru è la scimmia). A partire dalla riforma fattane da Zeami, con l’introduzione della figura dell’attore e della maschera, il sarugaku si evolve in quella forma teatrale nota come noh. Ma le radici del noh vanno fatte risalire a quel “divertimento rituale” –per usare la felice espressione di Gioia Ottaviani- che è il kagura, ovvero kami – kura, cioè ‘residenza degli spiriti’. Secondo la classificazione che ne fa Yasuji Honda, quattro sono i tipi di kagura: il miko kagura, l’unico messo in atto da donne, quello di Ise, quello di Izumo e quello degli yamabushi. I kagura sono esplosioni di vitalità, in cui celebrazioni rivolte ai kami per ingraziarseli e assicurarsi la loro protezione si mescolano a comportamenti orgiastici, con grandi bevute, canti e danze, anch’essi a carattere celebrativo, in questo caso della vita della comunità locale. E’ il momento ritualmente dionisiaco, che interrompe una vita della società strettamente regolata da norme e consuetudini formali. Nelle feste matsuri, i kagura celebrano l’incontro tra gli uomini e gli spiriti.
Quanto al kabuki, esso nasce come kabuki odori, danza kabuki: fin dall’origine, nel suo nome era contenuto quello spirito trasgressivo e ostentatorio che doveva decretarne l’ampio successo tra il pubblico cittadino. Come scrive Gioia Ottaviani: “Oggi «kabuki» viene scritto con i caratteri che consentono di tradurlo come «arte del canto e della danza»; in origine però essa corrispondeva alla forma sostantiva del termine kabuku (inclinare, deviare) e portava con sé connotazioni che noi attribuiamo con gli attributi: eccentrico, stravagante ed anche trasgressivo.” (1994:180). E più oltre: “L’atteggiamento detto «kabuki» , sinonimo di eccentricità misto al fascino dell’eroismo, veniva comunemente interpretato come libero gioco di segni non convenzionali, un gioco che facilmente conquistò il mondo dello spettacolo.” (id.:182).
Vuole il racconto leggendario della nascita del kabuki che esso fu portato per la prima volta alla conoscenza del pubblico nel 1603 a Kyoto, quando Okuni, figlia di un sacerdote di Izumo e essa stessa una miko di quel tempio, si mise a danzare in quella nuova maniera, alla quale l’aveva fatta istruire il padre, su uno dei palcoscenici che venivano fatti erigere sul greto del fiume Kamo quando era in secca. Quattro anni dopo, la danza-spettacolo fu portata a Edo (Tokyo). I suoi sviluppi, come è noto, dovevano portare il kabuki a essere il genere di spettacolo preferito dalla borghesia urbana, che opponeva il fasto dei costumi e delle scenografie caro a questa classe emergente allo stile raffinato e più austero caro ai nobili della corte imperiale.
Inizialmente, il kabuki era riservato alle donne, che interpretavano anche ruoli maschili, lasciando però trasparire la loro identità. Nella vita, la loro condizione era spesso ambigua, oscillando tra lo statuto di sacerdotesse e la fama di prostitute, come pratca rituale. Poi la situazione si rovesciò, e nel kabuki come spettacolo laico i ruoli femminili furono inizialmente affidati ad adolescenti, finché un editto non impose che fossero attori adulti a doversi specializzare nei ruoli femminili. ciò fu interpretato come una prova di abilità nell’impersonare un ruolo innaturale. Comunque sia, l’ambiguità sembra essere un tratto intrinseco alla tradizione del kabuki.
Okuni, dicevamo, era una miko. Ne vediamo ancora oggi, figure simili alle vergini del tempio della nostra tradizione classica, prestare i propri servigi presso i santuari shintoisti. Su incarico di qualche devoto, che per rispetto non osa rivolgersi direttamente a qualche spirito protettore o antenato, essa suonano e danzano come offerta coreutico-musicale. In passato, le miko erano esse stesse sacerdotesse, dedite a pratiche oracolari e quindi danzatrici di mai.
Una delle forme di kagura classificate da Yasuji Honda (come riportato da Sestili 2000) è il miko kagura, l’unico rappresentato da figure femminili. Le altre forme di kagura sono quelle dei santuari di Ise e di Izumo e quella praticata dagli yamabushi.
A conclusione di questa breve esposizione del patrimonio coreutico-musicale tradizionale giapponese, del quale almeno mi auguro sia emersa la ricchezza culturale, vorrei avanzare una riflessione di carattere generale. Essa riguarda l’inadeguatezza delle categorie di ‘popolare’ e ‘colta’, abitualmente riferite alla musica e alla danza, anche per il carattere diminutivo che nel confronto porta con sé il primo dei termini. Attribuire tale etichetta ad alcune tra le più profonde e autentiche espressioni della cultura giapponese mi appare, ogni volta che mi ci avvicino, più scorretto. Sarebbe più chiaro, anche storicamente, distinguere tra stili e tecniche espressive adottati e altri autoctoni, utilizzando semmai categorie sociologiche dei gruppi al cui interno si sono diffusi gli imprestiti dall’esterno, quali l’antica aristocrazia e le sette buddiste. Quest’idea del ‘popolare’ non è solo un’espressione da gaijin, da stranieri, in chiave esotista; essa compare anche negli studi folclorici dei giapponesi stessi, quando adottano il termine minzoku. Un inappropriato understatement nei riguardi di una tradizione tanto profonda e preziosa, che meriterebbe il riconoscimento di una propria autonoma, nobile dignità.

* Intervento al Colloquio internazionale "Il Corpo e la Musica", Giornate warburghiane, Università di Genova, febbraio 2006

BIBLIOGRAFIA

BLACKER, Carmen 1975 The Catalpa Bow. A Study of Shamanistic Practices in Japan, London, George Allen & Unwin.
ELIADE, Mircea 1992 Lo scamanismo e le tecniche dell’estasi, Roma, Edizioni Mediterranee.
OMORI, Yasuhiro 1991/1993 A Shamanic Medium of Tugaru, film 16mm., 93 min., Osaka, Minpaku.
OTTAVIANI, Gioia 1994 Introduzione allo studio del teatro giapponese, Firenze, La Casa Usher.
ROUGET, Gilbert 1980 La musique et la trance, Paris, Gallimard.
SESTILI, Daniele 2000 La voce degli dei. Musica e religione nel rito giapponese del kagura, Bologna, Ut Orpheus.

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