Una delle più belle e delicate dichiarazioni d’amore – di una donna a un uomo- è la battuta finale di Luci della città. Alla bella fioraia ritrovata, che ha riacquistato la vista, Chaplin incredulo domanda: “Ma allora, ci vedete?” e lei risponde “Adesso, sì”. Come a dire che è quell’incontro a dare un senso al suo senso ritrovato.
Con una geniale inversione, Chaplin vuole dirci che è l’amore a farci vedere, non già la vista a suscitarci i moti dell’animo, attraverso il fascino e l’avvenenza fisica. Si aggiunga che, per comunicare questo allo spettatore, Chaplin aveva scelto di rinunciare alle voci, girando nel 1931 il suo ultimo film nello stile classico del muto, in piena esplosione del sonoro. Le parole dei protagonisti compaiono scritte nei tipici, scarni pannelli neri che interrompono la scena. Non è con frasi suadenti e incantatrici che chi è cieco deve cercare un surrogato all’impossibilità di entrare in contatto con il mondo attraverso la vista. Bastano due parole. Gli occhi della fioraia trovano conferma di ciò che lei già aveva sentito, con quella acuità che solo la mancanza può suscitare.
Il cinema è l’invenzione che forse nel modo più potente celebra la visualità. Ma, diversamente dalle altre arti visive, deve emergere a ogni rappresentazione dal suo opposto, il buio. E’ dal ‘buio in sala’ che ogni volta il cinema rinasce. Una opposizione che ne rivela la stretta relazione, qualcosa che somiglia al rapporto tra il blocco informe di marmo e la statua che già, nella mente dello scultore, vi è contenuta. Se Michelangelo diceva che la scultura è l’arte del togliere, si può dire che il cinema, tutto il cinema, sia l’arte di far emergere dal buio la luce, quella invisibile luce interiore che è contenuta in ciò che si intende rappresentare, e che va distinto da ciò che è passivamente, percettivamente visto: come quell’attimo di buio totale prima dell’inizio di un film sottolinea efficacemente.
Il buio percettivo di chi è cieco è stato fonte di ispirazione per molti film, dopo l’insuperato capolavoro di Chaplin. Il più noto, forse, è stato Profumo di donna che, dopo la pellicola diretta da Dino Risi nel 1974, ha conosciuto un remake hollywodiano nel 1992. In entrambi i casi, il soggetto – un ufficiale reduce dell’esercito, rimasto cieco in un episodio bellico, viene accompagnato da un ragazzo in un viaggio alla ricerca di sensazioni, preminentemente sessuali, e spericolate emozioni, a bordo di una Ferrari – è stato ritenuto un banco di prova per la recitazione del protagonista. Sono scesi in campo due autentici mattatori, Vittorio Gassman e Al Pacino, e in ognuno dei casi le loro prove sono state all’altezza della fama. Ma i dialoghi nei due film sono sconcertanti: non basta la vita militaresca alle spalle del protagonista a giustificare una insistenza - che nel film americano si fa imbarazzante - sull’associazione tra cecità e turpiloquio, quasi che la mancanza di contatti vitali derivante dalla prima volesse trovare una compensazione in una grevemente carnale espressività della parola.
Non è facile che un film riesca a rendere il fascino umbratile del vissuto di chi è spettatore di un mondo che gli si cela dietro uno schermo oscuro ma del quale tenta tuttavia di darsi una rappresentazione, creando un ineffabile mondo immaginato – ma non immaginario – in grado quindi di essere condiviso con chi guarda lo schermo al cinema.
Quando il cinema inventa le sue storie, viene evocata una realtà immaginaria: saper cogliere quella che impropriamente viene definita la ‘finzione’ cinematografica ci rivela quanto incommensurabili siano i confini dei nostri sensi, che immagini e suoni non fanno che stimolare. Questo potere evocatore di un universo invisibile – quale è quello delle emozioni e dei sentimenti dei personaggi sullo schermo – e di eventi messi in scena per volontà demiurgica dell’autore-regista, ci rimanda con forza metaforica a ciò che tutti noi compiamo in ogni momento della vita quotidiana.
Che siano spunti percettivi di onde hertziane che giungono agli occhi e alle orecchie, contatti fisici diretti sulla pelle e dagli alimenti nella bocca, o particelle che entrano per via aerea nelle narici, è sempre la nostra mente che si attiva per classificare, attribuire un significato, e per richiamare alla memoria altre esperienze, per suggerire un’interpretazione, un valore, piacere o disgusto, desiderio o pericolo. E’l’esperienza sensoriale a guidarci, anche quando non vi è una relazione immediata e diretta con ciò che avviene intorno a noi, perchè da qualche parte in quell’universo in miniatura che è il nostro cervello vi è immagazzinata la storia della nostra vita, dalla nascita e forse prima.
E’ per tutto questo che, non diversamente da quanto avviene con il teatro delle ombre indonesiano, delle silhouettes che, nel cinema, si muovono appiattite su uno schermo possono tanto coinvolgerci.
La prima reazione dei bambini balinesi portati a uno spettacolo di wayang kulit è quella di andare a vedere cosa c’è dietro allo schermo. Lì c’è il dalang, nobile professione ereditata di padre in figlio, a cui spetta il compito di far rivivere gli eventi del teatro epico; qui autori, registi e attori. Nell’un caso come nell’altro, si tratta di produrre semplici ombre proiettate su uno schermo: quanto più è evanescente il mezzo espressivo al quale è affidata l’azione scenica, tanto meglio se ne coglie il significato e la funzione. Sono messaggi sensoriali, niente di più: dentro o dietro allo schermo non vi è nulla di reale. Così come il dalang fa uscire i suoi personaggi dal baule, gli autori che nelle nostre culture si esprimono attraverso il cinema evocano le ombre che escono dalla loro mente e le comunicano a noi con luci, suoni. Semplici onde herziane: ma la nostra mente, guidata dall’esperienza, da memorie e dalla cultura in cui si è formata, le trasforma in eroi, donne in amore, feroci assassini, battaglie e poetici paesaggi.
Appare facilmente comprensibile che un mezzo espressivo visivo per eccellenza come il cinema, sia di invenzione che di documentazione, sia rimasto spesso attratto dalla vista, o meglio dalla sua mancanza, nei soggetti rappresentati. Sordità e olfatto hanno avuto il più delle volte ruoli comprimari, spesso macchiettistici. Un’eccezione è rappresentata da Profumo (206), del regista Twyker, tratto dal romanzo di Suskind, in cui al centro della trama sta l’avventura olfattiva del protagonista. Quanto al gusto, non si contano le tavolate di ogni genere e periodo storico.
Si va dalla scena surrealista nel Fascino discreto della borghesia (1972), di Luis Bunuel, in cui gli eleganti personaggi stanno seduti imperturbabili su tazze di water, alle scene casarecce di tante commedie all’italiana, come ad esempio quella , nella Famiglia Passaguai (1951), di Aldo Fabrizi, in cui lui stesso con Ave Ninchi e Peppino De Filippo celebrano gastronomicamente una gita al mare. Ma il gusto ha ispirato anche più sottili, e perverse, associazioni, come in Dillinger è morto (1968), di Marco Ferreri o, sempre di Ferreri, La grande bouffe (1973), in cui in ambedue i casi l’impegno a elaborare raffinati manicaretti si accompagna ambiguamente con un desiderio di procurare al tempo stesso piacere e morte.
Se poi veniamo al tatto, anche senza considerare la pornografia, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per le qualità tattili specifiche della tecnica espressiva adottata, basterà citare le riprese con cui l’obbiettivo, in Hiroshima mon amour (1959), di Alain Resnais, scorre lungo la pelle della protagonista Emmanuelle Riva come fosse la voluttuosa carezza del suo amante, simbolica reazione erotica alla morte atomica che li avvolge e che si intravvede dalla finestra della camera.
Grazie alla forza dell’immagine e al suo potere di venire archiviata con più efficaci e duraturi strumenti di altre impressioni sensoriali nella nostra mente, si depositano nella memoria gli stimoli sinestetici trasmessi da un filmato.
Di recente, grazie ai progressi che si stanno avendo nelle neuroscienze, espressioni quali memorie, eredità culturali, esperienze hanno trovato una loro localizzazione nel cervello e si va dipanando la fittissima rete di connessioni neuronali tra le varie parti, che collaborano affnché ci si possa formare un’idea di ciò che avviene fuori e dentro il nostro corpo, la nostra mente. Memoria, eredità culturale, esperienze non sono più soltanto astratte espressioni concettuali; sappiamo dove stanno e quando si attivano, che facciano parte del nostro patrimionio genetico o siano il risultato dell’archiviazione di eventi che, attraverso i sensi, si sono impressi nella mente.
Siamo eredi della classica divisione aristotelica in cinque sensi (anche se il filosofo greco in realtà ne comprendeva altri, interiori, come la memoria). Da allora, li immaginiamo come delle dotazioni che ci fanno reagire a stimoli esterni: onde luminose, onde sonore, pulviscoli odorosi, sapori che stimolano la lingua, contatti sulla pelle. In tutti i casi, si tratta di reazioni passive, e non a caso di parla di recettori sensoriali. Ma potremmo considerare appartenenti ai sensi anche quelle attività intenzionali di cui siamo dotati, e che fanno riferimento, come i primi, a organi specifici.
Il movimento, anzitutto, con il suo apparato di muscoli e tendini guidati da fasci nervosi che li collegano a cervello e midollo spinale. Ancor più quell’insieme che forma l’organo che possiamo chiamare di fonazione, e che comprende le corde vocali, stimolate dall’aria dei polmoni, i cui suoni sono amplificati dal palato che funziona da cassa di risonanza, da lingua e labbra.
Tenere conto di queste potenzialità vitali del nostro corpo e considerarle alla stregua di veri e propri sensi ci rende meglio consapevoli di come sia limitativo osservare solo la fisiologia del nostro corpo, e sia invece necessario considerare i fattori culturali che guidano le nostre azioni tanto da renderli indispensabili per il funzionamento stesso dei nostri organi. L’attività vocale, ad esempio, ha consentito l’espressione del linguaggio, su cui si è fondata l’evoluzione culturale dell’uomo, attraverso l’interazione con un altro senso, quello dell’udito. Questa interdipendenza sensoriale, e il suo fondamento culturale, trovano evidenza nel caso dei sordomuti che, come si sa, nella quasi totalità dei casi non sono muti affatto ma, essendo sordi fin dalla nascita, non possono ricevere le informazioni necessarie per elaborare i modi di esprimersi a parole.
Quando il cinema ha tratto la sua ispirazione direttamente dal mondo esterno, nelle varie forme dello stile documentario, l’ obiettivo è stato generalmente quello di trasmettere il più possibile allo spettatore l’impressione di essere là. Per ottenere questo effetto, ci si è serviti degli strumenti messi via via a disposizione dalla tecnologia per catturare nel modo più appropriato ambienti e comportamenti umani. Il rapido progresso degli strumenti di registrazione audiovisiva ha portato a una rincorsa, al fine di utilizzare le sempre più perfezionate possibilità di riproduzione di suoni e immagini. L’ultima e più significativa rivoluzione in tal senso è stata la digitalizzazione dei messaggi visivi e sonori, che ha reso al tempo stesso più semplici e più efficaci le riproduzioni. Silenziosità, possibilità di registrare in condizioni di luminosità estremamente basse, lunghezza quasi illimitata delle riprese e abbattimento dei costi delle attrezzature e dei supporti, hanno portato a trasformare le videocamere da totem professionali circondati di un’aura a protesi nelle mani di chiunque. La registrazione di suoni e immagini è oramai considerata un’estensione delle nostre dotazioni sensoriali e della possibilità di mettere quegli input in una nostra memoria, digitale anziché cerebrale, attivabile anch’essa a piacere per poter essere utilizzata al fine di richiamare e successivamente interpretare gli impulsi sensoriali.
In un certo senso, ciò ha finito per ‘umanizzare’ la tecnologia, rendendola un duttile strumento per potenziare le nostre dotazioni naturali. Ma, come si sa, l’incubo, alimentato dalla fantascienza, è che, all’opposto, ciò finisca per trasformare gli uomini in cyborg, cioè in organismi cibernetici, in parte naturali e in parte artificiali.
Un modo per affrontare la questione della nostra dipendenza dagli organi di senso, dalle percezioni che ne derivano e dalle conseguenti interpretazioni psicologiche e culturali, può seguire un percorso totalmente diverso da quello di accrescerne artificilmente le potenzialità. Non già, quindi, inseguire una espansione dei nostri recettori, come fa la bionica, sostituendosi a organi naturali danneggiati o mancanti, né inseguire le fantasie di un futuro di un’umanità cyborg, anticipata dagli attuali gadget elettronici, bensì documentare come si vive se non si può contare su uno o più dei cinque sensi di aristotelica memoria.
Si tratterà di avvicinarsi a una condizione umana poco conosciuta , al fine di stabilire un ponte tra i propri strumenti percettivi e quelli di chi ha elaborato una mappa sensoriale altra, condividere tale esperienza e cercare i modi per comunicarla servendosi degli strumenti concettuali e tecnici appropriati per la sua diffusione. Un processo che, nello spirito empatico e nella curiosità intellettuale che lo guida, si identifica con l’indagine antropologica in generale, rivolta com’è alla conoscenza di altri modi di vita rispetto a quelli che ci sono familiari: e con l’antropologia visuale in particolare. Se si intende qui sottolinearlo, è perché non appaia paradossale servirsi come ponte comunicativo degli strumenti audiovisivi per comunicare la condizione di non vedenti e non udenti.
Due, finora, sono stati gli approcci seguiti per raccogliere la sfida di far vedere realisticamente la condizione di chi non vede. Il primo, che potremmo chiamare documentaristico, può essere esemplificato dal film Slepe Lasky ( Blind Love, 2008), del regista slovacco Juraj Lehotsky. Vi si descrive la vita quotidiana di Peter e Iveta, che condividono la cecità ma anche una ricca gamma di esperienze sensoriali, come viene sottolineato da una colonna sonora particolarmente intensa. Il secondo, soggettivistico, di cui il più noto esempio è il film Blue (1993), di Derek Jarman, cerca di trasmettere allo spettatore la sensazione di chi, come il regista stesso, ha visto scomparire il mondo dinnanzi a sé. Lo schermo, in questo caso, è un monocromo blu per tutta la durata della pellicola. Piuttosto che suscitare suggestioni pittoriche – in questo caso, soprattutto il famoso blu delle tele di Yves Klein - quell’immagine fissa intende spostare l’attenzione sul vissuto psicologico di chi si trova piombato in quella condizione, anche ma non solo cercando alternative in altri messaggi sensoriali.
Altre volte, per rendere la percezione di come si affievolisca fino ad annullarsi la percezione visiva, ci si serve di effetti sfocati e variazioni di luminosità. C’è una frase, nell’ultimo romanzo di Doctorow, Homer & Langley, che rende efficacemente a parole ciò che vari film cercano di rappresentare: “La mia vista non se n’è andata di colpo: è stata una lenta dissolvenza, come nei film”.
Per quanto, ognuno a suo modo, ambedue questi generi siano empatici, la posizione del filmmaker è sempre quella di descrivere una mancanza fisica e come chi deve fare i conti con essa vi ponga rimedio, compensandola eventualmente con altre esperienze, siano esse percettive o psicologiche.
Una più approfondita indagine antropologica richiederebbe un passo ulteriore, al fine di testimoniare una condizione di vita a pieno titolo, seguendo la lezione di Terenzio, che fin dall’antichità ci avvertì come niente di ciò che è umano debba apparirci alieno.
Si tratta di rovesciare la prospettiva. Condividere una condizione comune di carenze percettive, derivanti dalla limitata dotazione sensoriale del corpo di tutti gli uomini. Consapevoli del fatto che in un mondo di non vedenti nessuno è cieco, e nessuno è sordo se fossimo tutti privi di orecchie, anche se il mondo intorno a noi rimanesse pieno di suoni e di tante belle cose da vedere, dovremmo metterci nella posizione di imparare come chi possiede uno scarto percettivo rispetto all’umanità in generale abbia saputo trovare i modi per comunicare con gli altri.
In questo caso, i diversi siamo noi. Potremmo cercare di scoprire come il mondo può apparire servendoci di una mappa sensoriale particolare, preziosa perché posseduta da pochi. Un’esperienza di riscoperta di un mondo, il nostro, che pensavamo di conoscere, rivelatrice oltre ogni immaginazione. E’ la rivelazione, attraverso un’esperienza umana particolare, di condividere una condizione universale, della quale non ci rendiamo sempre conto: di quanto del mondo intorno a noi ci sfugga, di come tutti noi siamo ciechi e sordi fuori da una ristretta fascia percettiva. Come è stato detto da Guy Lazorthes, i nostri sensi sono una porta stretta sul mondo.
Noi tutti, infatti, siamo ciechi alle radiazioni luminose estreme, infrarosse e ultraviolette, alle quali sono sensibili altri animali; così come siamo sordi a ultrasuoni e infrasuoni, mentre percepiamo le frequenze centrali, tra i venti e i ventimila hertz. Né reagiamo allo stesso modo di fronte a gusti e odori che la nostra cultura ci ha addestrati a apprezzare o rifiutare. Tutte le culture umane sono state elaborate a partire dalle reazioni condivise dalla quasi totalità dei suoi membri a certi colori, a certi suoni e a certe forme, così come alla possibilità di vedere e riconoscere i propri simili.
Noi, qui, non sappiamo utilizzare le sensibilità che utlizzano, ad esempio, i Kaluli della Nuova Guinea, come ci ha rivelato l’etnomusicologo Steve Feld. Essi hanno concettualizzato una geografia multisensoriale, nella quale lo spazio è al tempo stesso visto e sentito tattilmente, e questi sensi a loro volta interagiscono con il gusto, mentre la percezione dell’orientamento del proprio corpo avviene attraverso l’ascolto di suoni della natura e di voci: quello che Feld chiama un soundscape, un paesaggio sonoro.
Per fare un altro esempio, presso diverse popolazioni, come nel caso dei Suya del Mato Grosso descritti da Anthony Seeger, la società è divisa secondo classi olfattive, ognuna delle quali possiede una propria identità.
Le dotazioni sensoriali che possediamo ci bastano per vivere nell’ambiente a noi noto e per comunicare all’interno delle nostre società. Ma dovremmo avere la consapevolezza che, intorno a noi, vi è tutto un mondo, un mondo reale, fisico e concreto, che ignoriamo.
La cultura è, per una parte consistente, una risposta a questi limiti. Non essendo provvisti di ecolocazione come i pipistrelli e non ponendo quindi muoverci al buio evitando ostacoli, abbiamo inventato l’illuminazione artificiale. E certo i navigatori satellitari installati sulle automobili sono infinitamente più rozzi del cervello di un piccione viaggiatore.
Chi è deprivato di alcune potenzialità sensoriali può fornirci una quantità di informazioni di straordinario interesse sulle modificazioni che l’uomo è in grado di elaborare per compensare carenze nel set complessivo delle dotazioni standard che mettono un individuo in comunicazione con il mondo esterno. Ma soprattutto ci si può dischiudere un mondo interiore di straordinaria originalità, che fornisce contributi spesso trascurati. Chi ha di più, quindi, finisce per avere in realtà di meno, come spesso accade.
Un dialogo nel buio con chi non vede ciò che noi vediamo, ma ha sviluppato più di noi, i vedenti, una familiarità con la propria particolare mappa sensoriale, può trasmetterci una maggiore consapevolezza del nostro essere-nel-mondo.
Un senso di mancanza, quasi una delusione, accompagna talvolta la lettura, per altri versi stimolante, di certe monografie etnografiche. Nel mondo globalizzato di oggi sono comprese, sia pure soltanto per alcuni aspetti e almeno indirettamente, anche le isole Trobriand, luogo mitico per eccellenza della visione antropologica. Abbiamo perduto quindi un’occasione irripetibile per sapere com’era la vita quotidiana là all’inizio del secolo scorso, quando Malinowski vi compiva le sue tanto celebri ricerche. Malinowski mangiava? e che sapore aveva il cibo? Si potrebbe continuare con mille altre domande, destinate a rimanere senza risposta. Ciò che l’antropologo riteneva contasse era altro: le istituzioni e le relazioni sociali, le idee indigene riguardanti la vita sessuale, per verificare e contestare alcuni principi della psicanalisi, la presenza delle leggi economiche dello scambio.
Un accostamento che è andato affermandosi tra sensibilità percettiva e sensualità – una reazione emotiva culturalmente elaborata - ha fatto scattare oscurantiste censure puritane di cui l’antropologia non è stata al riparo, specie nel periodo vittoriano.
Lo scritturalismo, meglio controllabile e autocensurabile del visualismo, può bene accordarsi con l’iconofobia. L’osservazione antropologica risulta allora una visione parzialmente cieca della realtà e l’insistenza sulla necessità interpretativa di ciò che viene trasmesso può trasformarsi in strumento di controllo, sotto la veste di una analisi concettuale. Se il puritanesimo in senso stretto ha costretto di recente i restauratori della Cappella Sistina a ripulire gli affreschi michelangioleschi di panni e mutandoni aggiunti in seguito , una più celata autocensura ha portato Malinowski a affidare solo al suo diario intimo le sue reazioni emotive e le sue pulsioni sensoriali nell’incontro con i ‘selvaggi’ delle Trobriand.
Per esigenze delle proprie ricerche, l’antropologia ha sviluppato una speciale attenzione verso la tradizione orale. La preminenza assegnata a uno dei sensi per diffondere e tramandare gli elementi culturali propri di una società – l’udito, a cui è affidato l’ascolto della parola – diversamente dal primato assegnato alla parola scritta, che si serve della vista e solo subordinatamente della lettura ad alta voce, è stato considerato il fattore discriminante tra le società considerate primitive e quelle moderne. Tanto da far denominare le prime, una volta divenuto obsoleto il termine evoluzionistico di ‘primitivo’, società ‘prive di scrittura’. La comunicazione orale è diretta, faccia a faccia, spesso sottolineata da una appropriata gestualità, che agisce in modo subordinato a ciò che giunge all’udito. Da Ong a Goody, si è esaurientemente descritto come, là dove si è avuta la diffusione della stampa, la comunicazione culturale sia diventato un esercizio solitario, distanziando l’autore dai destinatari dei suoi messaggi: un carattere che si è vieppiù affermato con la comunicazione elettronica, in cui partecipiamo – ma in modo ‘freddo’, direbbe McLuhan – ad eventi avvenuti anche a grande distanza.
In tutte le dinamiche fondamentali per la comunicazione tra gli uomini, i sensi sono protagonisti, nella tradizione così come nel mutamento. E tuttavia l’antropologia, la cui ambizione è quella di testimoniare l’universalità della condizione umana attraverso l’espressione delle sue diversità, è apparsa troppo spesso insensibile e quasi timorosa di registrarne le manifestazioni nella loro peculiarità.
L’antropologia visuale si è assunta il compito di elaborare forme espressive idonee a trasmettere la fenomenologia di azioni individuali ed eventi collettivi – il ‘privato’ e il ‘pubblico’ – nei modi e nelle forme con cui gli attori sociali le mettono in atto, avvicinando così lo spettatore all’oggetto della rappresentazione, cioè ai soggetti presenti nelle riprese. Tale vocazione porta gli autori di film e video etnografici ad aprirsi a modalità espressive considerate nel loro insieme, così come si presentato secondo codici culturali condivisi e variabili nei diversi contesti: porta, quindi, alla multisensorialità.
Lo dimostrano le edizioni monotematiche della Rassegna di Nuoro (oggi SIEFF), da Magia e medicina (1996) a Musica e riti (1998), a Cibo (2002). Considerati nel loro insieme, i filmati selezionati mostravano non soltanto una caleidoscopica varietà di soggetti e di fonti d’ ispirazione, ma un’ampiezza di campo che contrastava l’egemonia di una interpretazione autoreferenziale. Il passaggio fondamentale consisteva nel portare all’esterno, attraverso l’autore e il mezzo da lui utilizzato, l’impatto sensoriale, emotivo del soggetto e di conseguenza l’elaborazione interpretativa dell’evento rappresentato. Il successo di tale coinvolgimento era provato dalla varietà di ciò che veniva notato, e quindi sensorialmente percepito, dagli spettatori. Diversamente da ciò che spesso accade leggendo le monografie etnografiche, dove non vi è la possibilità di elaborare diverse versioni di ciò che era avvenuto ‘là fuori’, in presenza dell’antropologo al momento della sua osservazione.
Nonostante tutti i distinguo e le sottigliezze semiologiche, l’antropologia visuale avvicina, e ci avvicina, noi antropologi e coloro con i quali vogliamo comunicare. In tal senso, non è tanto il risultato che va analizzato (si pensi alle oziose questioni sulla scelta dell’inquadratura e ciò che ne rimane fuori, o sulla presenza più o meno invasiva del filmmaker) quanto l’atteggiamento con cui ci si pone di fronte al ‘là fuori’ (chiamarla ‘realtà’ solleverebbe altre inutili questioni).
Un’ambizione così onnicomprensiva pone in modo inevitabile quanto salutare chi l’adotti in una situazione spesso imprevedibile. Addio rigorose classificazioni, più o meno aristoteliche, addio geometriche simmetrie, più o meno strutturaliste. Se le severe scienze fisiche non arretrano di fronte all’idea di esplorare il caos della materia, l’antropologia non abbia ad arretrare di fronte ai più vari modi con cui ci si presenta la condizione umana.
* Publicato nel catalogo dell'edizione 2010 del SIEFF (Sardinia International Ethographic Film Festival), Nuoro.
mercoledì 29 settembre 2010
THE SENSES IN CINEMA
One of the most beautiful and touching declaration of love – from a woman to a man – is the final line in City Lights. To the lovely newly-found florist who has recovered her sight Chaplin asks incredulously “You can see now?” and she answers “Yes, I can now.” As to say that it’s this encounter to give a meaning to the regained sense.
With an inspired inversion, Chaplin wants to tell us that it’s love that allows us to see, not just sight which kindles emotions through charm and physical attractiveness. In order to communicate this to the spectator, Chaplin had chosen to renounce to the voices, shooting during the full explosion of the sound era in 1931 his last movie in the classical mute style. The character’s words appear written on typical scrawny black panels which interrupt the scene. It isn’t with persuasive and enchanting sentences that who is blind must search for a surrogate to the impossibility of entering in touch with a world he cannot see. Four words are enough. The florist’s eyes find acknowledgement of what she already felt, with the acuity that only absence can awaken.
Cinema is possibly the invention that celebrates in the most powerful way visual quality. But unlike other visual arts, it must emerge at every performance from its opposite, the dark. And from the obscurity of the theatre, cinema brought back to life every time. In this opposition is revealed a close connection, something that resembles the relationship between a shapeless marble block and the statue that, in the mind of the sculptor, is already contained in it. If Michelangelo said that sculpture was the art of “taking off”, we can say that cinema, all the cinema, is the art of making light emerge from the dark, the invisible inner light that is contained in what we intend portraying, and that is different from what is passively, perceptibility seen: effectively underlined by the instant of total darkness before the beginning of a movie.
Perceptive darkness has been the source of inspiration for many films after the Chaplin’s unrivalled masterpiece. The most famous movie was probably Profumo di donna directed by Dino Risi in 1974 and its Hollywood remake Scent of a Woman in 1992. In both cases, the main character – a retired military officer who became blind in a war incident – is accompanied by a young man on a trip in search of sensations and dangerous emotions - predominantly sexual, on a Ferrari – which was regarded as the protagonist’s acting bench test. Star performers Vittorio Gassman and Al Pacino took the field, stood up to the test and proved to measure up to their fame. But the dialogues in the movie are bewildering: not only the military life left behind the main character justifies an insistence – that in the American film turns out to be embarrassing – on the association between blindness and scurrility, as if the lack of vital contacts that originates from blindness would be compensated by a heavy carnal expressiveness of the speech.
Not easily can a film convey the withdrawn moody appeal of experiences of who is a spectator in a world concealed behind a dark screen and yet tries to give himself a representation of it, creating an ineffable imagined world – but not imaginary – capable of being shared with who is watching the screen.
When cinema invents its stories, an imaginary reality is brought to mind: knowing how to seize the improperly called cinematographic “fiction” reveals how immeasurable are the boundaries of our senses relentlessly stimulated by pictures and sounds. This evocative power of an invisible universe - that of the protagonist’s emotions and feelings - and events depicted by the author-director’s demiurgic will, strongly and metaphorically sends us back to all that we accomplish in every moment of our daily lives.
Either being perceptive hints of hertzian waves that reach our eyes and ears, direct physical contact on our skin, food in our mouth, or particles that flow through the air in our nostrils, it’s always our brain that works to classify, give a meaning and recall to our mind other experiences and suggest an interpretation, a value, a pleasure or displeasure, desire or danger. We are guided by sensorial experience, even when there is no direct and immediate relationship between what happens around us, because somewhere in that miniature universe in our brain is stored the story of our lives, from birth and perhaps before. And for all these reasons, both in the Indonesian shadow theatre and in the cinema, flattened silhouettes that move on a screen can fascinate us so much.
When attending a wayang kulit show, the Balinese children’s first reaction is to find out what’s behind the screen. There, the dalang, illustrious inherited profession passed down from father to son, is fulfilling his duty of bringing back to life the events of the epic theatre; here, authors, directors and actors. In both circumstances, it consists in bringing forth simple shadows on a screen: the more the expressive means to which is left the scenic action is evanescent, the better you can grasp its meaning and purpose. They are sensorial messages, nothing more: there is nothing real inside or behind the screen. Just like the dalang pulls out of his trunk his characters, the authors of our culture express themselves through cinema, both evoke the shadows that come out of their mind and articulate them with light and sound. Simple hertzian waves: but our mind, guided by experience, from memory and culture in which it was formed, transforms them in heroes, lovers, brutal murderers, battles and poetic landscapes.
It’s easily understandable that an expressive visual tool as cinema, both for its inventive and documentary potential has often been attracted by sight, or better its absence, for its represented subjects. Deafness and the sense of smell have had more than their share of second lead roles, often ridiculous and grotesque. Profumo, from the director Twyker and inspired by Suskind’s novel, is an exception in which the central plot is the olfactory adventure of the leading character. As for taste, summing up all the numerous dinners in different historical periods isn’t easy.
From Bunuel’s surrealist scene in Le charme discret de la bourgeoisie (1972) in which the composed elegant characters are imperturbably seated on toilets to the homespun, unrefined scenes in Italian comedies for example Aldo Fabrizi’s Famiglia Passaguai (1951) in which, together with Ave Ninchi and Peppino De Filippo, they go on a gastronomic outing by the sea. But taste has also inspired more perverse, subtle connections as in Marc Ferreri’s Dillinger è morto (1968) and yet another film La grande bouffe(1973). In both films the consumption of elaborate and sophisticated delicacies are ambiguously associated with the desire to bring about simultaneously pleasure and death.
Without considering pornography, touch provides many examples from which to choose. For the specific tactile quality of the narrative technique chosen, it’s sufficient to mention the scene from Alain Resnais ‘s Hiroshima mon amour, in which the lens slides on Emmanuelle Riva’s skin resembling a voluptuous lover’s caress, symbolic erotic reaction to the atomic death that surrounds them and that is seen from the bedroom window.
The synesthetic stimuli transferred in a movie are deposited in our minds thanks to the strength of the image and its power to be stored with more efficient and long lasting tools than to other sensorial impressions.
Thanks to recent progresses in the neurosciences, words such as memory, cultural inheritance, experience have found their position in the brain and the thick, complex linkage of neuronal connections that are being unravelled, work together so that we can figure out what happens inside and outside our body, our mind. Memory, cultural inheritance, experience aren’t only conceptual abstract expressions; we know where they are and how to activate them, either being part of our genetic inheritance or being the registration of events that, through the senses, are imprinted in our mind.
We are heirs of the Aristotle’s classical division of the five senses (although the Greek philosopher believed that there were other interior ones, for example memory). Since then, we imagine them as endowments that help us to react to outside stimuli: sound and light waves, fragrant dusts, stimulating flavours, skin contact. They are all passive reactions, and therefore called sensorial receptors. But we could also consider belonging to the senses those intentional activities which we are equipped with and that refer to specific organs like the first ones.
Movement, above all, with its muscular system and tendons guided by nervous tissue that connect them to the brain and spinal cord.
Even more so, the complex phonation organ, that includes vocal cords, stimulated by the air in the lungs, which sounds are amplified by the palate that works as a resonance chamber, by the tongue and lips.
Considering the vital potentiality of our body as authentic senses makes us fully aware of how restrictive it is to merely observe the physiology of our body whereas it is necessary to consider the cultural factors that guide our actions to make them become essential for the functioning of our organs. Vocal activity, for example, has permitted the expression of language, on which is founded man’s cultural evolution, through interaction with hearing. This sensorial interdependence, and its cultural foundation, finds evidence in a deaf-mute person who, as we know, isn’t really mute but being deaf from birth, cannot receive the necessary information in order to elaborate ways of expressing himself with words.
When cinema draws its inspiration directly from the outside world, in the several forms of the documentary style, the purpose is generally transmitting to the spectator the impression of “being there”. In order to achieve this effect, we use the available technological tools that most appropriately capture the environment and human behaviour. The swift progress of audiovisual aids has made us part of a race where, in the end, we feel compelled to use state-of-the-art technology. The latest and most significant revolution in this is the digitalization of audiovisual messages, which have simplified and equally made reproduction more efficient. Soundless environments, the possibility to make a recording in extreme low brightness, the almost unlimited running time of the shots and the affordable prices of the equipment and technical assistance have transformed video cameras from professional totems surrounded by its aura into prosthesis accessible to all. Sound and image recording is nowadays considered extension of our sensorial capacities and gives us the possibility to lay aside the input in one of our memories, digital instead of cerebral, which can be activated on pleasure to be used in order to recall and re-elaborate sensorial impulses afterwards.
In a certain way, this humanized technology has been transformed in a malleable tool that strengthens our own natural capacities. But, as we know, this can transform man into a cyborg, partly natural, partly artificial cybernetic organism just like in a science fiction nightmare.
A way to deal with our addiction to the sensory organs, its deriving perceptions to the consequent psychological and cultural interpretations, is following a totally different path than the one that increases artificially our endowments. It isn’t by pursuing an expansion of our receptors, just like in bionics, changing natural damaged or missing organs, nor pursuing our fantasies of a cyborg humanity, speeded up by electronic gadgets, but rather by gathering information and documenting how we live if you can’t count on one or more of Aristotle’s five senses.
It’s about getting closer to a scarcely known human condition, in order to establish a bridge between our own perceptive tools e those of who has elaborated a different sensorial map, share this experience and seek ways to communicate it using the appropriate conceptual and technical devices to diffuse it. A process which, guided by an empathic spirit and intellectual curiosity, and identifies itself with anthropological investigation in general aimed at the knowledge of other ways of life that are unfamiliar: and especially with visual anthropology. The intention, at this time, is to underline this so it doesn’t seem paradoxical using as a communicative bridge audiovisual tools to communicate the condition of the blind and deaf.
Until now, there have been two approaches to accept the challenge to show in a realistic manner the condition of the unsighted. The first, we could call “documentaristic”, can be exemplified by Slovenian director Juraj Lehotsky with his film Slepe Lasky (Blind Love) 2008. It describes the daily life of Peter and Iveta who share not only blindness but also a rich range of sensorial experiences, underlined with a particularly intense sound track. The second, “subjectivistic”, best exemplified in Derek Jarman’s movie Blue (1993). The director tries to get across the sensation of who, in this case, like himself, saw the world vanish before him. The screen, in this case, is in a monochromatic blue during the entire picture. Rather than inspiring pictorial suggestions – above all Yves Klein’s famous blue paintings – that permanent image aims to shift our attention on the psychological existence of who has fallen into that condition and is looking for an alternative also in other sensorial messages.
In other circumstances, blurred effects and variation of brightness are used to portray the perception of how sight weakens until it completely fades out. There is a sentence, in Doctorow’s last novel, Homer & Langley, that efficiently puts into words what several films try to depict “ My sight has not suddenly left me : it has been a slow fading-out, like in the movies.”
Regardless of the fact that both approaches are empathic, each in its own way, the filmmaker’s position is to describe a physical deprivation and how who has to deal with it must find a remedy, compensating it with other perceptive or psychological experiences.
A more in-depth anthropological research would require an additional step, in order to testify a condition of life that is worthy, following Terenzio’s lesson, since antiquity warned us that nothing that is human must appear alienating.
It’s about reversing the perspective: sharing a common condition of perceptive shortage that originates from the limited sensorial capacity of the body of all humans.
In the world of the blind, no one is blind, and no one is non-hearing if we were all deprived of ears, even if the surrounding world would be filled with sound and so many beautiful things to see. We should put ourselves in the position to learn how who has a perceptive gap, compared with mankind in general, has found ways of communicating with others.
In this case, we are the different. We could try to discover how the world can appear using a particular sensorial map, precious because owned by few. An experience of rediscovery of a world, our own, that we thought we knew, revealing more than we could imagine.
It’s the revelation, through a particular human experience, of sharing a universal condition, of which we are not always aware: of how much the surrounding world escapes us, of how all of us are blind and non-hearing in a narrow perceptive segment. As Guy Lazorthes said, our senses are a narrow door on the world.
We are all, in fact, blind to the luminous infrared and ultraviolet radiations to which other animals are sensitive to, similar to the way we are non-hearing to ultrasounds and infra sounds, while we perceive central frequencies, between twenty and twenty thousand hertz. Nor do we react the same way to flavours and scents that our cultures have trained us to appreciate or reject. All human cultures have been developed starting from the shared reactions of almost all their members to certain colours, to certain sounds and certain shapes, and therefore to the possibility to see and recognize their own kind.
Ethnomusicologist Steve Feld has revealed that we don’t know how to use the same sensitivity that the Kaluli from New Guinea use. They have conceptualized a multi-sensorial geography, where space and time are seen and felt tactilely, and in turn these senses react with taste, while the perception of our body’s orientation comes through listening sounds of nature and voices: Feld called it soundscape, a resonant landscape.
Another example is the Anthony Seeger’s case of the Suya from Mato Grosso which illustrates a society divided by scent classes, each with its own identity.
Our sensorial endowments are sufficient to live in our familiar environment and to communicate within our society. But we should have the awareness that there’s a world, a real world, physical and tangible, that we ignore.
Culture is mostly an answer to these limits. Not having an ecological “habitat” like bats nor being able to fly in the dark avoiding obstacles, we had to invent artificial lighting. For sure satellite navigators installed on cars are infinitely less sophisticated than a voyager pigeon.
Who is deprived of some sensorial potentialities can supply us with an extraordinarily interesting quantity of information about the modifications that man can develop to compensate the shortage on the whole set of standard capacities that puts an individual in communication with the outer world. It can mainly contribute in opening us to an interior world of extraordinary originality often neglected.
A conversation in the dark with who doesn’t see what we see, but has developed more than the non-blind, a familiarity with his own particular sensorial map, can provide us a greater knowledge of our “being-in-the-world”.
A sense of deficiency, almost a disappointment, sometimes accompanies the reading, stimulating for other aspects, of some ethnographic monographs. In today’s globalized world are also included, only for some of its aspects and at least indirectly, the Trobriand Islands, a mythical place for anthropological vision. We have therefore lost an unrepeatable opportunity to find out how life was at the beginning of the century, when Malinowski did his famous research. Did Malinowski eat? What taste did the food have? We could go on with thousands of questions, meant to be unanswered. What anthropologists regarded as important was something else: institutions and social relations, indigenous idea concerning sexual life, to examine and challenge some of the principles of psychoanalysis, the presence of economical laws of exchange.
Perceptive sensibility has progressively combined its meaning with sensuality – a culturally intricate emotional reaction – which as triggered puritan censored obscurantism from which anthropology has never been guarded against, especially in the Victorian era.
“Scripturalism”, more controllable and auto-censurable than “visualism”, can correspond with iconophobia. The anthropological observation turns out to be a partially blind vision of reality and the insistence on the interpretative necessity of what is transmitted can transform itself into a control tool, disguised in conceptual analysis. If puritanism has recently in a strict sense forced the restorers of the Sistine Chapel to remove the added underpants and cloths from Michelangelo’s frescoes, a more concealed self-censorship has pushed Malinowski to write in his diary his intimate emotional reactions and sensorial pulsations of the encounter with Trobriand ‘s “savages.
Anthropology, for research requirements, has developed a particular attention to oral tradition. The superiority awarded to one of the senses to spread and hand down the cultural elements specific to a society – the sense of hearing, to which is assigned the listening of words – differently from the awarded supremacy of written words, that uses sight and only subordinately reading out loud, has been considered the discriminating factor between societies considered primitive and those considered modern. So as to call the former, once it has become obsolete the evolutionistic word
“primitive”, a society “without writing”.
Oral communication is direct, face to face, often underlined by an appropriate body language, that acts subordinately with what reaches our ears. From Ong to Goody¸ it has exhaustively been described how, where press is widespread, the cultural communication has become a solitary exercise, outdistancing the author from the recipient of his messages: even more so with electronic communication, in which we participate – but in a “cold and distant” way as McLuhan would say - at events that took place at great distance.
In tradition like in change, the senses are the protagonists in all the fundamental dynamics of communication between men. And nevertheless, anthropology, which ambition is to testify the universality of human condition through the expression of its diversity, has appeared too often insensitive e almost timorous of recording its manifestation in its singularity.
Visual anthropology has charged itself with the task of elaborating suitable expressive means to disclose the phenomenology of individual actions and collective events – the “private” and the “public” – in ways and manners which the social actors perform, getting the represented object closer to the spectator, that is to say to the depicted subjects while shooting. Such vocation leads the authors of ethnographic films and videos to open themselves to an expressive modality considered on the whole, as they show themselves according to shared and variable cultural codes in different contexts: it leads, therefore, to multisensoriality.
This is demonstrated during the monothematic editions of Nuoro’s exhibition (today SIEFF), from Magic and Medicine (1996), to Music and Rituals (1998), to Food (2002). These films not only illustrated a kaleidoscopic variety of subjects and inspirational sources but also a broad mindedness that contrasted the hegemony of an auto-referential interpretation. The fundamental passage was to expose, through the author and his tool, the subject’s emotional and sensorial impact and hence the interpretative elaboration of the represented event. The success of such an involvement was proven in the variety of what was being noticed and therefore, sensorially perceived, by the spectators. Differently from what often happens when reading the ethnographic monographs, where there is no possibility to develop different versions of what has happened “out there”, in the presence of the anthropologist at the time of his observation.
In spite of all the differences and semiologic subtleties, visual anthropology brings us closer - and also us as anthropologists - to those with who we want to communicate. It’s not really the result that needs analysis (think about the boring issues like framing and what is left out of it, or about the film maker’s more or less invasive presence) but rather the attitude in which he places himself in front of the “out there “ (calling it “reality” would raise other useless issues).
An all-embracing ambition that inevitably and favourably places who adopts it in an unpredictable situation. Goodbye rigorous classifications, more or less AristHotelic, goodbye geometric symmetries, more or less “structuralist”. If the rigorous physical sciences don’t withdraw in front of the idea to explore the chaos of the matter, anthropology shouldn’t have to withdraw in front of the many ways the human condition shows itself.
With an inspired inversion, Chaplin wants to tell us that it’s love that allows us to see, not just sight which kindles emotions through charm and physical attractiveness. In order to communicate this to the spectator, Chaplin had chosen to renounce to the voices, shooting during the full explosion of the sound era in 1931 his last movie in the classical mute style. The character’s words appear written on typical scrawny black panels which interrupt the scene. It isn’t with persuasive and enchanting sentences that who is blind must search for a surrogate to the impossibility of entering in touch with a world he cannot see. Four words are enough. The florist’s eyes find acknowledgement of what she already felt, with the acuity that only absence can awaken.
Cinema is possibly the invention that celebrates in the most powerful way visual quality. But unlike other visual arts, it must emerge at every performance from its opposite, the dark. And from the obscurity of the theatre, cinema brought back to life every time. In this opposition is revealed a close connection, something that resembles the relationship between a shapeless marble block and the statue that, in the mind of the sculptor, is already contained in it. If Michelangelo said that sculpture was the art of “taking off”, we can say that cinema, all the cinema, is the art of making light emerge from the dark, the invisible inner light that is contained in what we intend portraying, and that is different from what is passively, perceptibility seen: effectively underlined by the instant of total darkness before the beginning of a movie.
Perceptive darkness has been the source of inspiration for many films after the Chaplin’s unrivalled masterpiece. The most famous movie was probably Profumo di donna directed by Dino Risi in 1974 and its Hollywood remake Scent of a Woman in 1992. In both cases, the main character – a retired military officer who became blind in a war incident – is accompanied by a young man on a trip in search of sensations and dangerous emotions - predominantly sexual, on a Ferrari – which was regarded as the protagonist’s acting bench test. Star performers Vittorio Gassman and Al Pacino took the field, stood up to the test and proved to measure up to their fame. But the dialogues in the movie are bewildering: not only the military life left behind the main character justifies an insistence – that in the American film turns out to be embarrassing – on the association between blindness and scurrility, as if the lack of vital contacts that originates from blindness would be compensated by a heavy carnal expressiveness of the speech.
Not easily can a film convey the withdrawn moody appeal of experiences of who is a spectator in a world concealed behind a dark screen and yet tries to give himself a representation of it, creating an ineffable imagined world – but not imaginary – capable of being shared with who is watching the screen.
When cinema invents its stories, an imaginary reality is brought to mind: knowing how to seize the improperly called cinematographic “fiction” reveals how immeasurable are the boundaries of our senses relentlessly stimulated by pictures and sounds. This evocative power of an invisible universe - that of the protagonist’s emotions and feelings - and events depicted by the author-director’s demiurgic will, strongly and metaphorically sends us back to all that we accomplish in every moment of our daily lives.
Either being perceptive hints of hertzian waves that reach our eyes and ears, direct physical contact on our skin, food in our mouth, or particles that flow through the air in our nostrils, it’s always our brain that works to classify, give a meaning and recall to our mind other experiences and suggest an interpretation, a value, a pleasure or displeasure, desire or danger. We are guided by sensorial experience, even when there is no direct and immediate relationship between what happens around us, because somewhere in that miniature universe in our brain is stored the story of our lives, from birth and perhaps before. And for all these reasons, both in the Indonesian shadow theatre and in the cinema, flattened silhouettes that move on a screen can fascinate us so much.
When attending a wayang kulit show, the Balinese children’s first reaction is to find out what’s behind the screen. There, the dalang, illustrious inherited profession passed down from father to son, is fulfilling his duty of bringing back to life the events of the epic theatre; here, authors, directors and actors. In both circumstances, it consists in bringing forth simple shadows on a screen: the more the expressive means to which is left the scenic action is evanescent, the better you can grasp its meaning and purpose. They are sensorial messages, nothing more: there is nothing real inside or behind the screen. Just like the dalang pulls out of his trunk his characters, the authors of our culture express themselves through cinema, both evoke the shadows that come out of their mind and articulate them with light and sound. Simple hertzian waves: but our mind, guided by experience, from memory and culture in which it was formed, transforms them in heroes, lovers, brutal murderers, battles and poetic landscapes.
It’s easily understandable that an expressive visual tool as cinema, both for its inventive and documentary potential has often been attracted by sight, or better its absence, for its represented subjects. Deafness and the sense of smell have had more than their share of second lead roles, often ridiculous and grotesque. Profumo, from the director Twyker and inspired by Suskind’s novel, is an exception in which the central plot is the olfactory adventure of the leading character. As for taste, summing up all the numerous dinners in different historical periods isn’t easy.
From Bunuel’s surrealist scene in Le charme discret de la bourgeoisie (1972) in which the composed elegant characters are imperturbably seated on toilets to the homespun, unrefined scenes in Italian comedies for example Aldo Fabrizi’s Famiglia Passaguai (1951) in which, together with Ave Ninchi and Peppino De Filippo, they go on a gastronomic outing by the sea. But taste has also inspired more perverse, subtle connections as in Marc Ferreri’s Dillinger è morto (1968) and yet another film La grande bouffe(1973). In both films the consumption of elaborate and sophisticated delicacies are ambiguously associated with the desire to bring about simultaneously pleasure and death.
Without considering pornography, touch provides many examples from which to choose. For the specific tactile quality of the narrative technique chosen, it’s sufficient to mention the scene from Alain Resnais ‘s Hiroshima mon amour, in which the lens slides on Emmanuelle Riva’s skin resembling a voluptuous lover’s caress, symbolic erotic reaction to the atomic death that surrounds them and that is seen from the bedroom window.
The synesthetic stimuli transferred in a movie are deposited in our minds thanks to the strength of the image and its power to be stored with more efficient and long lasting tools than to other sensorial impressions.
Thanks to recent progresses in the neurosciences, words such as memory, cultural inheritance, experience have found their position in the brain and the thick, complex linkage of neuronal connections that are being unravelled, work together so that we can figure out what happens inside and outside our body, our mind. Memory, cultural inheritance, experience aren’t only conceptual abstract expressions; we know where they are and how to activate them, either being part of our genetic inheritance or being the registration of events that, through the senses, are imprinted in our mind.
We are heirs of the Aristotle’s classical division of the five senses (although the Greek philosopher believed that there were other interior ones, for example memory). Since then, we imagine them as endowments that help us to react to outside stimuli: sound and light waves, fragrant dusts, stimulating flavours, skin contact. They are all passive reactions, and therefore called sensorial receptors. But we could also consider belonging to the senses those intentional activities which we are equipped with and that refer to specific organs like the first ones.
Movement, above all, with its muscular system and tendons guided by nervous tissue that connect them to the brain and spinal cord.
Even more so, the complex phonation organ, that includes vocal cords, stimulated by the air in the lungs, which sounds are amplified by the palate that works as a resonance chamber, by the tongue and lips.
Considering the vital potentiality of our body as authentic senses makes us fully aware of how restrictive it is to merely observe the physiology of our body whereas it is necessary to consider the cultural factors that guide our actions to make them become essential for the functioning of our organs. Vocal activity, for example, has permitted the expression of language, on which is founded man’s cultural evolution, through interaction with hearing. This sensorial interdependence, and its cultural foundation, finds evidence in a deaf-mute person who, as we know, isn’t really mute but being deaf from birth, cannot receive the necessary information in order to elaborate ways of expressing himself with words.
When cinema draws its inspiration directly from the outside world, in the several forms of the documentary style, the purpose is generally transmitting to the spectator the impression of “being there”. In order to achieve this effect, we use the available technological tools that most appropriately capture the environment and human behaviour. The swift progress of audiovisual aids has made us part of a race where, in the end, we feel compelled to use state-of-the-art technology. The latest and most significant revolution in this is the digitalization of audiovisual messages, which have simplified and equally made reproduction more efficient. Soundless environments, the possibility to make a recording in extreme low brightness, the almost unlimited running time of the shots and the affordable prices of the equipment and technical assistance have transformed video cameras from professional totems surrounded by its aura into prosthesis accessible to all. Sound and image recording is nowadays considered extension of our sensorial capacities and gives us the possibility to lay aside the input in one of our memories, digital instead of cerebral, which can be activated on pleasure to be used in order to recall and re-elaborate sensorial impulses afterwards.
In a certain way, this humanized technology has been transformed in a malleable tool that strengthens our own natural capacities. But, as we know, this can transform man into a cyborg, partly natural, partly artificial cybernetic organism just like in a science fiction nightmare.
A way to deal with our addiction to the sensory organs, its deriving perceptions to the consequent psychological and cultural interpretations, is following a totally different path than the one that increases artificially our endowments. It isn’t by pursuing an expansion of our receptors, just like in bionics, changing natural damaged or missing organs, nor pursuing our fantasies of a cyborg humanity, speeded up by electronic gadgets, but rather by gathering information and documenting how we live if you can’t count on one or more of Aristotle’s five senses.
It’s about getting closer to a scarcely known human condition, in order to establish a bridge between our own perceptive tools e those of who has elaborated a different sensorial map, share this experience and seek ways to communicate it using the appropriate conceptual and technical devices to diffuse it. A process which, guided by an empathic spirit and intellectual curiosity, and identifies itself with anthropological investigation in general aimed at the knowledge of other ways of life that are unfamiliar: and especially with visual anthropology. The intention, at this time, is to underline this so it doesn’t seem paradoxical using as a communicative bridge audiovisual tools to communicate the condition of the blind and deaf.
Until now, there have been two approaches to accept the challenge to show in a realistic manner the condition of the unsighted. The first, we could call “documentaristic”, can be exemplified by Slovenian director Juraj Lehotsky with his film Slepe Lasky (Blind Love) 2008. It describes the daily life of Peter and Iveta who share not only blindness but also a rich range of sensorial experiences, underlined with a particularly intense sound track. The second, “subjectivistic”, best exemplified in Derek Jarman’s movie Blue (1993). The director tries to get across the sensation of who, in this case, like himself, saw the world vanish before him. The screen, in this case, is in a monochromatic blue during the entire picture. Rather than inspiring pictorial suggestions – above all Yves Klein’s famous blue paintings – that permanent image aims to shift our attention on the psychological existence of who has fallen into that condition and is looking for an alternative also in other sensorial messages.
In other circumstances, blurred effects and variation of brightness are used to portray the perception of how sight weakens until it completely fades out. There is a sentence, in Doctorow’s last novel, Homer & Langley, that efficiently puts into words what several films try to depict “ My sight has not suddenly left me : it has been a slow fading-out, like in the movies.”
Regardless of the fact that both approaches are empathic, each in its own way, the filmmaker’s position is to describe a physical deprivation and how who has to deal with it must find a remedy, compensating it with other perceptive or psychological experiences.
A more in-depth anthropological research would require an additional step, in order to testify a condition of life that is worthy, following Terenzio’s lesson, since antiquity warned us that nothing that is human must appear alienating.
It’s about reversing the perspective: sharing a common condition of perceptive shortage that originates from the limited sensorial capacity of the body of all humans.
In the world of the blind, no one is blind, and no one is non-hearing if we were all deprived of ears, even if the surrounding world would be filled with sound and so many beautiful things to see. We should put ourselves in the position to learn how who has a perceptive gap, compared with mankind in general, has found ways of communicating with others.
In this case, we are the different. We could try to discover how the world can appear using a particular sensorial map, precious because owned by few. An experience of rediscovery of a world, our own, that we thought we knew, revealing more than we could imagine.
It’s the revelation, through a particular human experience, of sharing a universal condition, of which we are not always aware: of how much the surrounding world escapes us, of how all of us are blind and non-hearing in a narrow perceptive segment. As Guy Lazorthes said, our senses are a narrow door on the world.
We are all, in fact, blind to the luminous infrared and ultraviolet radiations to which other animals are sensitive to, similar to the way we are non-hearing to ultrasounds and infra sounds, while we perceive central frequencies, between twenty and twenty thousand hertz. Nor do we react the same way to flavours and scents that our cultures have trained us to appreciate or reject. All human cultures have been developed starting from the shared reactions of almost all their members to certain colours, to certain sounds and certain shapes, and therefore to the possibility to see and recognize their own kind.
Ethnomusicologist Steve Feld has revealed that we don’t know how to use the same sensitivity that the Kaluli from New Guinea use. They have conceptualized a multi-sensorial geography, where space and time are seen and felt tactilely, and in turn these senses react with taste, while the perception of our body’s orientation comes through listening sounds of nature and voices: Feld called it soundscape, a resonant landscape.
Another example is the Anthony Seeger’s case of the Suya from Mato Grosso which illustrates a society divided by scent classes, each with its own identity.
Our sensorial endowments are sufficient to live in our familiar environment and to communicate within our society. But we should have the awareness that there’s a world, a real world, physical and tangible, that we ignore.
Culture is mostly an answer to these limits. Not having an ecological “habitat” like bats nor being able to fly in the dark avoiding obstacles, we had to invent artificial lighting. For sure satellite navigators installed on cars are infinitely less sophisticated than a voyager pigeon.
Who is deprived of some sensorial potentialities can supply us with an extraordinarily interesting quantity of information about the modifications that man can develop to compensate the shortage on the whole set of standard capacities that puts an individual in communication with the outer world. It can mainly contribute in opening us to an interior world of extraordinary originality often neglected.
A conversation in the dark with who doesn’t see what we see, but has developed more than the non-blind, a familiarity with his own particular sensorial map, can provide us a greater knowledge of our “being-in-the-world”.
A sense of deficiency, almost a disappointment, sometimes accompanies the reading, stimulating for other aspects, of some ethnographic monographs. In today’s globalized world are also included, only for some of its aspects and at least indirectly, the Trobriand Islands, a mythical place for anthropological vision. We have therefore lost an unrepeatable opportunity to find out how life was at the beginning of the century, when Malinowski did his famous research. Did Malinowski eat? What taste did the food have? We could go on with thousands of questions, meant to be unanswered. What anthropologists regarded as important was something else: institutions and social relations, indigenous idea concerning sexual life, to examine and challenge some of the principles of psychoanalysis, the presence of economical laws of exchange.
Perceptive sensibility has progressively combined its meaning with sensuality – a culturally intricate emotional reaction – which as triggered puritan censored obscurantism from which anthropology has never been guarded against, especially in the Victorian era.
“Scripturalism”, more controllable and auto-censurable than “visualism”, can correspond with iconophobia. The anthropological observation turns out to be a partially blind vision of reality and the insistence on the interpretative necessity of what is transmitted can transform itself into a control tool, disguised in conceptual analysis. If puritanism has recently in a strict sense forced the restorers of the Sistine Chapel to remove the added underpants and cloths from Michelangelo’s frescoes, a more concealed self-censorship has pushed Malinowski to write in his diary his intimate emotional reactions and sensorial pulsations of the encounter with Trobriand ‘s “savages.
Anthropology, for research requirements, has developed a particular attention to oral tradition. The superiority awarded to one of the senses to spread and hand down the cultural elements specific to a society – the sense of hearing, to which is assigned the listening of words – differently from the awarded supremacy of written words, that uses sight and only subordinately reading out loud, has been considered the discriminating factor between societies considered primitive and those considered modern. So as to call the former, once it has become obsolete the evolutionistic word
“primitive”, a society “without writing”.
Oral communication is direct, face to face, often underlined by an appropriate body language, that acts subordinately with what reaches our ears. From Ong to Goody¸ it has exhaustively been described how, where press is widespread, the cultural communication has become a solitary exercise, outdistancing the author from the recipient of his messages: even more so with electronic communication, in which we participate – but in a “cold and distant” way as McLuhan would say - at events that took place at great distance.
In tradition like in change, the senses are the protagonists in all the fundamental dynamics of communication between men. And nevertheless, anthropology, which ambition is to testify the universality of human condition through the expression of its diversity, has appeared too often insensitive e almost timorous of recording its manifestation in its singularity.
Visual anthropology has charged itself with the task of elaborating suitable expressive means to disclose the phenomenology of individual actions and collective events – the “private” and the “public” – in ways and manners which the social actors perform, getting the represented object closer to the spectator, that is to say to the depicted subjects while shooting. Such vocation leads the authors of ethnographic films and videos to open themselves to an expressive modality considered on the whole, as they show themselves according to shared and variable cultural codes in different contexts: it leads, therefore, to multisensoriality.
This is demonstrated during the monothematic editions of Nuoro’s exhibition (today SIEFF), from Magic and Medicine (1996), to Music and Rituals (1998), to Food (2002). These films not only illustrated a kaleidoscopic variety of subjects and inspirational sources but also a broad mindedness that contrasted the hegemony of an auto-referential interpretation. The fundamental passage was to expose, through the author and his tool, the subject’s emotional and sensorial impact and hence the interpretative elaboration of the represented event. The success of such an involvement was proven in the variety of what was being noticed and therefore, sensorially perceived, by the spectators. Differently from what often happens when reading the ethnographic monographs, where there is no possibility to develop different versions of what has happened “out there”, in the presence of the anthropologist at the time of his observation.
In spite of all the differences and semiologic subtleties, visual anthropology brings us closer - and also us as anthropologists - to those with who we want to communicate. It’s not really the result that needs analysis (think about the boring issues like framing and what is left out of it, or about the film maker’s more or less invasive presence) but rather the attitude in which he places himself in front of the “out there “ (calling it “reality” would raise other useless issues).
An all-embracing ambition that inevitably and favourably places who adopts it in an unpredictable situation. Goodbye rigorous classifications, more or less AristHotelic, goodbye geometric symmetries, more or less “structuralist”. If the rigorous physical sciences don’t withdraw in front of the idea to explore the chaos of the matter, anthropology shouldn’t have to withdraw in front of the many ways the human condition shows itself.
L'ANELLO DEL KULA, IL CIRCOLO ERMENEUTICO E IL DONO DELL'ANTROPOLOGIA
ANTONIO MARAZZI
“Regalare sempre…sempre. Che bel regno era il nostro, dove l’uomo prodigava i suoi doni, come la terra, e noi cantavamo tutto l’anno”. Così diceva Vaitua a Gauguin, come egli annota in Noa Noa. (1). Non si può immaginare più perfetta icona dell’esotismo di questo incontro tra la principessa e il pittore francese che, lontano dai debiti e dai travagli lasciati in patria, così reagiva:” La civiltà mi scivola via di dosso”.
Ma, se i quadri di soggetto esotico hanno fatto la fortuna, ahimé postuma, del pittore, l’esotismo in sé non è mai stato considerato qualcosa di rispettabile. Se il salottino di lacche cinesi nei palazzi aristocratici e le stampe giapponesi nelle case borghesi erano l’arredo più in voga nella Belle Epoque e l’attesa di un “fil di fumo” all’orizzonte, da parte di Madama Butterfly, commuoveva le platee dei teatri d’opera, chinoiseries e japonaiseries non sono mai state riconosciute altro che una moda effimera e superficiale. Per non parlare della letteratura à la Pierre Loti.
A partire da Edward Said poi, l’orientalismo, per lo più arabeggiante, ha ricevuto un forte stigma negativo, con una indicazione di come dovesse venire considerato in modo intellettualmente corretto: un forma di colonialismo culturale, un’imposizione indebita del modo di vedere occidentale su civiltà altre e le loro espressioni. Uno degli argomenti addotti per dimostrare l’esistenza di una tale forma di imposizione unilaterale era che, dall’altra parte, non si era sviluppato uno speculare “occidentalismo”. Ma ne siamo sicuri?
Possiamo anche concedere che quelle figure pallide dal naso lungo, nelle narrazioni dell’incontro visto dall’altra parte siano delle rappresentazioni marginali, così come le testimonianze del “rovescio della Conquista” americana. Ma è difficile ritenere che l’occidentalismo contemporaneo – quello che viene definito come globalizzazione e che qualche spiritoso sociologo ha chiamato macdonaldizzazione – uno dei fenomeni culturali di più vasta portata nella storia dell’umanità, sia qualcosa da cui le società interessate possono chiamarsi fuori, affermando che si tratta di un’imposizione dall’esterno, che passa sopra le loro teste e che viene subito passivamente dalle culture non occidentali.
In realtà, il modello occidentale – per quanto perversa la cosa possa apparire a molti, fino a cercare di nascondersi dietro a falsi interrogativi su cosa si intenda per esso – è stato e continua a essere invidiato, e ha fatto nascere nuovi miti, come i culti del Cargo. E là dove l’organizzazione sociale lo consentiva, l’Occidente nelle sue varie forme è stato meticolosamente studiato e sistematicamente imitato. Per un Gauguin a cui la civiltà occidentale scivolava di dosso, vi sono stati milioni, ormai miliardi di uomini che quella veste hanno voluto indossare.
I giapponesi, eterni primi della classe, sono stati gli iniziatori, e li troviamo qui in Italia già nel 1585, come si legge nella Insalata di Gianbattista Vigilio, testimonianza diretta del passaggio alla corte dei Gonzaga della prima delegazione ufficiale giapponese in Europa, composta da quattro aristocratici e dal loro seguito (2). Portogallo, Spagna, e poi Pisa, Firenze, Roma, Napoli e Venezia: il classico Tour, come fanno oggi in milioni. Sappiamo che furono molto colpiti dalle visite alle città italiane: possiamo forse pensare che, al rientro in patria, non si siano dilungati in descrizioni di cos’era l’Occidente, secondo il loro modo di vederlo?
L’Asia di oggi –l’Oriente- si è modellata a partire dal modo con cui quei popoli, nelle loro diversità interne e nella diversità dei modi più o meno violenti con cui quegli incontri sono avvenuti, hanno elaborato una loro consapevole visione dell’Occidente. Non possiamo trascurare queste forme a noi esterne di elaborazione del contatto culturale, a rischio di perpetuare, paradossalmente, una nostra visione colonialista secondo la quale, comunque, tutto si crea e tutto si distrugge unicamente a partire dall’Occidente.
Al di là delle conquiste militari, della evangelizzazione forzata e dello sfruttamento economico, si è andato sviluppando un seducente esotismo, dall’una e dall’altra parte. Se l’Oriente seduceva con i suoi piaceri sensuali gli esteti e gli avventurieri frustrati dai moralismi di casa, l’Occidente offriva doni ben più dolci, potenti – e avvelenati.
E’ in questa forma reciproca ed estesa che si può cogliere tutta l’importanza della circolazione di doni, di quelle offerte gratuite e, inversamente, di inaspettate gratificazioni, cioè, la cui natura essenziale consiste nell’essere incommensurabili, cioè nel non avere valore. Non ha, o perde, il suo valore economico per chi dona, poiché nel momento in cui viene donato esce dalla sfera dell’utile per diventare veicolo di un sentimento gratuito; non ha valore economico per chi riceve, giacché non riempie un bisogno. Il dono ideale è quello che passa da una cultura a un’altra, dove ciò che viene donato, essendo ignoto fino al momento in cui viene ricevuto, non può essere compreso, né quindi valutato.
Regalare, regalare sempre come fa la natura. Un dono vero deve essere veramente gratuito, non prevedere quindi effetti né immediati né differiti, non esigere reciprocità, non creare un obbligo.
L’unico effetto di un dono vero è un sentimento di gratitudine, la sensazione di sentirsi arricchiti senza contropartita. Si realizza non già un passaggio dal donatore al ricevente, ma piuttosto un surplus, qualcosa che prima non c’era, e il cui merito va in parti uguali all’uno e all’altro. Il valore che la cosa donata non aveva prima che il donatore se ne privasse le viene attribuito quando il ricevente lo accetta e mostra di apprezzarla ( le attribuisce cioè in quel momento un prezzo, un valore).
L’atto del donare dovrebbe esaurire il suo effetto nel piacere che esso provoca nel dare: l’unica reciprocità che esso dovrebbe instaurare è nello speculare piacere che può, senza che sia necessario, attivare. E’ a questo a cui pensava la principessa Vaitua.
Certo, posiamo legittimamente chiamare doni qugli oggetti che passano di mano in cui chi paga non è chi ottiene il bene ma chi lo offre, e quelle prestazioni che non esigono una controprestazione immediata o differita. Ma limitarsi a considerare tali azioni, così frequenti in tutte le società, come espressioni dell’atto del donare e cercare in esse la sua natura rivela il carattere mercantilistico di chi così ragiona. Non è da stupirsi che a un simile approccio sfugga l’esistenza del dono puro, incommensurabile, specie se avviene in una cultura diversa dalla propria, in forme incomprensibili.
Strette all’interno di gabbie mentali utilitariste, a certe prestazioni vengono attribuiti altri significati. Ed ecco il dono venire definito un passaggio entro un generalizzato sistema di scambi, addirittura l’instaurarsi di un’obbligazione. E’ quanto si legge nelle parole di Marcel Mauss, che ha inserito il dono all’interno di quello che egli chiamò il “sistema delle prestazioni totali”. “Queste prestazioni e controprestazioni si intrecciano sonno una forma a preferenza volontaria con doni e regali, benché esse siano, in fondo, rigorosamente obbligatorie, sotto pena di guerra privata o pubblica”.(3) E’ l’obbligo a revanschieren, che Mauss riprende da Thurnwald, l’etnologo tedesco sollevato nel credere di ritrovare quel peso, caratteristico dell’etichetta borghese (e ereditato a sua volta dal codice di comportamento aristocratico), anche tra le isole Salomone.
Se è Mauss che si riferiva in generale a economie primitive, del passato e a lui contemporanee, è a Malinowski che si deve la descrizione esemplare del caso divenuto più classico, quello degli “argonauti” delle Trobriand e dell’nello ideale, detto kula, da essi instaurato tra le loro isole. A costo di fatiche e pericoli, essi fanno circolare in senso orario da isola a isola delle collane di conchiglie, in senso inverso dei bracciali. Perché tanta fatica se quegli oggetti non sono utili e non possono essere scambiati con qualcosa che serve, né possono entrare a far parte della ricchezza personale poiché dovranno in seguito essere ceduti ad altri, così che non si fermi la circolazione all’interno dell’anello? Sono doni perché sono oggetto di scambio non oneroso, e quindi economicamente inutili, dice Malinowski, ma culturalmente indispensabili perché quegli scambi tengono insieme una società dispersa tra le isole, senza che gli stessi “selvaggi” se ne rendano conto.
Le tanto spesso analizzate pagine degli Argonauti possono qui prestarsi a una nuova interpretazione. Dopo un’accurata descrizione del kula, Malinowski scrive: “Not even the most intelligent native has any clear idea of the Kula as a big, organized sociali construction, still less of its sociological function and implications”. (“Nemmeno il più intelligente dei nativi ha alcuna concezione del kula come di una vasta e organizzata costruzione sociale, e men che meno delle sue funzioni e implicazioni sociologiche”) (4), Così inserito in un sistema di senso comprensibile in Occidente perché inseribile nelle sue regole di comportamento sociale, il kula può circolare anche all’esterno, ed è diventato infatti un topos centrale del pensiero antropologico. Comprendendo a modo nostro ciò che si mette in atto nel kula, entriamo anche noi, idealmente, a farne parte.
In questo primo livello di interpretazione, vediamo in atto un dono che ci viene fatto dai trobriandesi. Oggetto del dono è, in questo caso, l’idea stessa di dono, che abbiamo visto funzionare in modo esemplare laggiù. Approfittando della straordinaria densità simbolica della ricerca di Malinowski, possiamo considerare, per estensione, l’intero pensiero antropologico come la messa in atto di un kula totale che leghi in un anello di senso l’Occidente alle altre culture: un “fatto sociale totale” à la Mauss che unisca non giù gli individui all’interno di una società ma le società stesse tra di loro. Per innescare questa circolazione di senso ci voleva un atto gratuito, dato che non si può pensare che i trobriandesi avessero un qualche interesse a far conoscere a Malinowski – e a noi attraverso di lui – la loro istituzione.
Ma vi è un secondo livello di interpretazione, che richiede una decostruzione del sistema elaborato da Malinowski per attribuire un significato al kula, comprensibile a lui e a noi. Possiamo ritenere che, se i trobriandesi avessero una “idea chiara” – alla Malinowsi – di ciò che fanno, il kula o non esisterebbe o sarebbe un’altra cosa. Possiamo pensare, cioè. che l’idea di un dono senza secondi fini sia indispensabile perché possa funzionare (per usare un termine caro al funzionalista Malinowski). La lezione che allora possiamo ricavare da questo secondo livello di interpretazione è allora questa. Ciò che riceviamo in dono dall’ entrare in contatto con il kula non è tanto il disvelarsi del suo meccanismo latente, quando piuttosto la conoscenza che ne riceviamo della necessità di un comportamento disinteressato, asistematico, non preoccupato delle conseguenze: non finalizzato insomma. E’ legittimo pensare che non sia la logica del sistema, ma l’ingenuità degli uomini, a far girare l’anello.
In una circolazione globale delle idee, si può allora immaginare un confronto e uno scambio disinteressato tra una visione locale e una visione occidentale di un comportamento umano. Il contributo dell’antropologia, in questa ottica, non sarebbe più quello di farci avvicinare agli “altri” servendoci dei nostri strumenti conoscitivi, ma di farci dialogare con essi.
Qui si apre un problema di fondo, e l’antropologia è andata quindi a chiedere soccorso, come altre volte, alla filosofia. Che strumenti di pensiero abbiamo per interpretare espressioni linguisticamente, culturalmente altre? L’ermeneuta, affinatosi nell’interpretazione dei codici antichi, può aiutarci a trasferire strumenti di analisi testuale al “testo” di una cultura? C’è uno scritto di Martin Heidegger, maestro di ermeneutica, in cui si mette in scena un incontro tra lui e un giapponese, docente di letteratura tedesca, venuto a rendergli visita. Il discorso si porta sui passaggi da un sistema luguistico-culturale a un altro e delle difficoltà che ne derivano. A monte del problema sta, per il filosofo,quel processo che egli chiama “la ompleta europeizzazione della terra e dell’uomo”, un “accecamento” che distruggerebbe “nelle sue fonti tutto ciò che è essenziale. Ricordando la sua famosa definizione del linguaggio come della dimora dell’Essere, Heidegger prosegue affermando che “se l’uomo grazi al suo linguaggio abita nel dominio dell’Essere, è da supporre che noi europei abitiamo in una dimora del tutto diversa da quella dell’uomo orientale” (5).
Gli fa eco Gianni Vattimo, in uno scritto in cui si paventa il pericolo di una “riduzione” dell’ermeneutica a antropologia “L’idea dell’antropologia come disciplina che preveda il dialogo con altre culture nella loro alterità” non sarebbe altro che “una finzione ideologica, creata per bilanciare una situazione in cui l’alterità tende in realtà a dissolversi traverso la crescente occidentalizzazione del mondo”. D’altra parte, nella convinzione che “l’inizio di un dialogo presuppone una alterità preliminare tra i partner”, sembrerebbe non esservi scampo, poiché “anche un relazione con una cultura altra presuppone un ‘contesto’ dato” (6).
E chi, se non l’interlocutore occidentale, definirà quel contesto e fisserà le regole del dialogo?
Per uscire da quello che, più che un circolo ermeneutico, appare un circolo vizioso del pensiero occidentale, viene allora da pensare che sia necessario aprirsi a ricevere un dono unilaterale e disinteressato, anche ai fini conoscitivi. Senza entrare nell’ottica mercantilista dello scambio, né sentire l’obbligo funzionalista della reciprocità bilanciata. Lasciando piuttosto che vi sia libertà nel dare così come nel ricevere i doni di un incontro con l’altro.
Ma lasciamo per un momento la via maestra di quei settori del pensiero occidentale che, in antropologia e in altre scienze umane, si sono interrogati sulla possibilità di un dialogo interculturale. Seguiamo idealmente il viaggio di ritorno in patria, dai mari del Sud, di Victor Segalen, l’esegeta dell’esotismo, il suo unico teorico convinto: Fantasioso personaggio, durante i suoi viaggi buttò giù note per un “”saggio sull’esotismo” che finì per non scrivere mai, sempre in lott com’era tra la volontà di restare ancorato a ciò che egli chiamava il Reale e le tentazioni di un rifugio nell’immaginario. L’irrequietezza vitalista e la stessa incompiutezza dell’opera si addicono comunque perfettamente sia all’argomento che aveva a cuore. Medico coloniale, sul finire di una sua campagna nel Pacifico pensa di rendere visita a uno dei suoi miti giovanili, Gauguin.
Va a Tahiti, ma viene a sapere che il pittore si è trasferito alle isole Marchesi. Quando vi giunge, è troppo tardi, Gauguin è morto da alcuni mesi, e da quel primo incontro mancato Segalen riporta molte impressioni, le testimonianze di chi gli era stato vicino, qualche oggetto della capanna che l’ospitava. Gli ultimi doni, disinteressati, di un artista.
Mentre la nave su cui si è imbarcato ha già la prua verso l’Europa, l’inguaribile egotista decide di rendere un’altra visita postuma al secondo dei suoi miti giovanili, Rimbaud, e si fa sbarcare a Gibuti. Qui, Seglen ha intenzione di esplorare non un territorio ma il mistero di una mente, quella del “doppio Rimbaud” (7). Non è soddisfatto, evidentemente, di quella che è la versione accreditata e che tutti conosciamo. Sublime poeta dall’inesplicabile perfezione della parola, da adolescente, arrivato a diciannove anni si tace per sempre, si mette a viaggiare fino a sparire in Oriente da dove riapparirà, malato, per andare a morire in famiglia. Ma l’Oriente non l’aveva attirato per un fascino estetico, esoticheggiante, quanto piuttosto per esercitarvi sporchi commerci d’armi e forse di schiavi. Delicato poeta prima, cinico avventuriero poi,sedotto dal fascino oscuro, semmai, dell’esotico. Questo il “doppio” Rimbaud nella versione corrente, al tempo stesso disincantata e decadentista.
Intuizione geniale di Segalen di volerci vedere più chiaro in quello che, in prima ipotesi, egli considera un caso di “bovarismo”, il prendersi per un altro da quello che si è e immedesimarsi in quella seconda natura. Fattosi investigatore, Segalen interroga nei caffé di Gibuti chi lo aveva conosciuto e magari millanta un’amicizia trascorsa. Ne esce, del secondo Rimbaud, un quadro patetico. Soggetto a frequenti insolazioni per le bravate di volersi mostrare a capo scoperto e torso nudo, ma sobrio, solitario, incapace di convivere con una donna (tranne che, per un breve periodo, con un’abissina), appariva in realtà ossessionato da una cosa sola: l’incapacità di fare soldi con i suoi commerci (niente di illegale, niente di avventuroso) par manque de capitaux. Mai a scrivere, mai a leggere, mai interessato ai rapporti con la Francia, se si eccettua un fitto carteggio con la madre e la sorella. Finché, debilitato e ammalato, chiede di venire aiutato a rientrare per farsi curare dalla sorella. Che Segalen va a trovare per raccogliere qualche ricordo negli ultimi giorni del poeta. Orrore per la poesia, l’incarico di mandare un po’ di denaro agli amici lasciati in Africa.
Come i giocattoli che la sorella ha conservato e che ritrova, le poesie sono state per Rimbaud, dice Segalen, i suoi bibelots infantili. Poi, “hai lottato per il Reale. L’hai preso corpo a corpo”. Ma inutilmente, rimanendo poeta fino alla fine, anche senza volerlo. Sono, infine, le lettere scritte alla madre borghese a spiegare il personaggio. Il reale, per la mentalità borghese incarnata dalla madre e che, lasciati i bibelots, Rimbaud teneva più di ogni altra cosa a assecondare, significava avere successo negli affari, fare denaro. Lontano fisicamente, Rimbaud non era riuscito a allontanarsi da quella mentalità. Occuparsi d’alto c’est mal, come ebbe a dire una volta della letteratura, e che noi possiamo estendere a ogni altra curiosità intellettuale fine a se stessa.
Per assecondare la madre e il mondo che essa rappresenta, Rimbaud si era negata la possibilità di ricevere sia i doni che il suo talento interiore gli aveva fornito, sia quelli che il mondo esterno avrebbe potuto offrirgli – magari sotto forma di una “estetica del diverso”, come suggeriva la poetica dell’esotismo cara a Segalen – e che Gauguin invece aveva saputo cogliere fondendo gli uni agli altri per poi, a sua volta,offrire al mondo i doni incommensurabili delle sue opere.
Meno poetico, meno visionario dell’avventurosa curiosità egotista, il pensiero antropologico si nutre di un’analoga fiducia. Quella di poter uscire dalle gabbie con le quali l’Occidente si è autoescluso da un dialogo con l’esterno, nel timore di poter perdere il controllo dei propri strumenti conoscitivi, intesi anche come strumenti di potere.. Se la ricerca antropologica possiede anch’essa qualcosa di avventuroso, non è tanto per la spinta a viaggiare ma per la volontà di comunicare arrischiando difficili traduzioni linguistiche e culturali, e interpretare i segni spesso oscuri di altri modi di vivere e di pensare.
Quei messaggi, quei segni sono i doni che l’antropologo riceve da uomini lontani e che egli, a sua volta, cercherà di donare ai suoi vicini nel grande kula globale dei rapporti tra gli uomini. Sono doni perché sono prestazioni gratuite che egli riceve, visitatore esterno a quella società senza i diritti e i doveri che deriverebbero da quella appartenenza. Sono doni anche perché attraverso quei contatti l’antropologo viene a acquisire cose che non riuscirebbe a avvicinare se si servisse soltanto dei propri strumenti conoscitivi e rimanesse chiuso nel proprio contesto ermeneutica. In ciò, il pensiero antropologico non fa che rifarsi al significato primario di ermeneutica, che è quello, rappresentato dal dio Ermes, di portare messaggi.
Note:
1. P. Gauguin, L’isola dell’anima. Gli antichi culti maori e i diari di viaggio a Noa Noa illustrati dall’autore, Como, Red edizioni, 1987.
2. C Berselli, “Principi giapponesi a Mantova nel 1585”, in Civiltà mantovana, III, n. 14, marzo-aprile 1968, pp. 73-83.
3. Mauss, Saggio sul dono, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965.
4. B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Roma, Newton Compton, 1973.
5. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1973.
6. G. Vattimo, “Differente and interference. On the reduction of hermeneutics to anthropology”, Res, n. 4, 1982, pp. 85-91.
7. V. Segalen, “Le double Rimbaud”, in Oeuvres complètes, Parigi, Robert Laffont, 1994, pp. 481-511.
“Regalare sempre…sempre. Che bel regno era il nostro, dove l’uomo prodigava i suoi doni, come la terra, e noi cantavamo tutto l’anno”. Così diceva Vaitua a Gauguin, come egli annota in Noa Noa. (1). Non si può immaginare più perfetta icona dell’esotismo di questo incontro tra la principessa e il pittore francese che, lontano dai debiti e dai travagli lasciati in patria, così reagiva:” La civiltà mi scivola via di dosso”.
Ma, se i quadri di soggetto esotico hanno fatto la fortuna, ahimé postuma, del pittore, l’esotismo in sé non è mai stato considerato qualcosa di rispettabile. Se il salottino di lacche cinesi nei palazzi aristocratici e le stampe giapponesi nelle case borghesi erano l’arredo più in voga nella Belle Epoque e l’attesa di un “fil di fumo” all’orizzonte, da parte di Madama Butterfly, commuoveva le platee dei teatri d’opera, chinoiseries e japonaiseries non sono mai state riconosciute altro che una moda effimera e superficiale. Per non parlare della letteratura à la Pierre Loti.
A partire da Edward Said poi, l’orientalismo, per lo più arabeggiante, ha ricevuto un forte stigma negativo, con una indicazione di come dovesse venire considerato in modo intellettualmente corretto: un forma di colonialismo culturale, un’imposizione indebita del modo di vedere occidentale su civiltà altre e le loro espressioni. Uno degli argomenti addotti per dimostrare l’esistenza di una tale forma di imposizione unilaterale era che, dall’altra parte, non si era sviluppato uno speculare “occidentalismo”. Ma ne siamo sicuri?
Possiamo anche concedere che quelle figure pallide dal naso lungo, nelle narrazioni dell’incontro visto dall’altra parte siano delle rappresentazioni marginali, così come le testimonianze del “rovescio della Conquista” americana. Ma è difficile ritenere che l’occidentalismo contemporaneo – quello che viene definito come globalizzazione e che qualche spiritoso sociologo ha chiamato macdonaldizzazione – uno dei fenomeni culturali di più vasta portata nella storia dell’umanità, sia qualcosa da cui le società interessate possono chiamarsi fuori, affermando che si tratta di un’imposizione dall’esterno, che passa sopra le loro teste e che viene subito passivamente dalle culture non occidentali.
In realtà, il modello occidentale – per quanto perversa la cosa possa apparire a molti, fino a cercare di nascondersi dietro a falsi interrogativi su cosa si intenda per esso – è stato e continua a essere invidiato, e ha fatto nascere nuovi miti, come i culti del Cargo. E là dove l’organizzazione sociale lo consentiva, l’Occidente nelle sue varie forme è stato meticolosamente studiato e sistematicamente imitato. Per un Gauguin a cui la civiltà occidentale scivolava di dosso, vi sono stati milioni, ormai miliardi di uomini che quella veste hanno voluto indossare.
I giapponesi, eterni primi della classe, sono stati gli iniziatori, e li troviamo qui in Italia già nel 1585, come si legge nella Insalata di Gianbattista Vigilio, testimonianza diretta del passaggio alla corte dei Gonzaga della prima delegazione ufficiale giapponese in Europa, composta da quattro aristocratici e dal loro seguito (2). Portogallo, Spagna, e poi Pisa, Firenze, Roma, Napoli e Venezia: il classico Tour, come fanno oggi in milioni. Sappiamo che furono molto colpiti dalle visite alle città italiane: possiamo forse pensare che, al rientro in patria, non si siano dilungati in descrizioni di cos’era l’Occidente, secondo il loro modo di vederlo?
L’Asia di oggi –l’Oriente- si è modellata a partire dal modo con cui quei popoli, nelle loro diversità interne e nella diversità dei modi più o meno violenti con cui quegli incontri sono avvenuti, hanno elaborato una loro consapevole visione dell’Occidente. Non possiamo trascurare queste forme a noi esterne di elaborazione del contatto culturale, a rischio di perpetuare, paradossalmente, una nostra visione colonialista secondo la quale, comunque, tutto si crea e tutto si distrugge unicamente a partire dall’Occidente.
Al di là delle conquiste militari, della evangelizzazione forzata e dello sfruttamento economico, si è andato sviluppando un seducente esotismo, dall’una e dall’altra parte. Se l’Oriente seduceva con i suoi piaceri sensuali gli esteti e gli avventurieri frustrati dai moralismi di casa, l’Occidente offriva doni ben più dolci, potenti – e avvelenati.
E’ in questa forma reciproca ed estesa che si può cogliere tutta l’importanza della circolazione di doni, di quelle offerte gratuite e, inversamente, di inaspettate gratificazioni, cioè, la cui natura essenziale consiste nell’essere incommensurabili, cioè nel non avere valore. Non ha, o perde, il suo valore economico per chi dona, poiché nel momento in cui viene donato esce dalla sfera dell’utile per diventare veicolo di un sentimento gratuito; non ha valore economico per chi riceve, giacché non riempie un bisogno. Il dono ideale è quello che passa da una cultura a un’altra, dove ciò che viene donato, essendo ignoto fino al momento in cui viene ricevuto, non può essere compreso, né quindi valutato.
Regalare, regalare sempre come fa la natura. Un dono vero deve essere veramente gratuito, non prevedere quindi effetti né immediati né differiti, non esigere reciprocità, non creare un obbligo.
L’unico effetto di un dono vero è un sentimento di gratitudine, la sensazione di sentirsi arricchiti senza contropartita. Si realizza non già un passaggio dal donatore al ricevente, ma piuttosto un surplus, qualcosa che prima non c’era, e il cui merito va in parti uguali all’uno e all’altro. Il valore che la cosa donata non aveva prima che il donatore se ne privasse le viene attribuito quando il ricevente lo accetta e mostra di apprezzarla ( le attribuisce cioè in quel momento un prezzo, un valore).
L’atto del donare dovrebbe esaurire il suo effetto nel piacere che esso provoca nel dare: l’unica reciprocità che esso dovrebbe instaurare è nello speculare piacere che può, senza che sia necessario, attivare. E’ a questo a cui pensava la principessa Vaitua.
Certo, posiamo legittimamente chiamare doni qugli oggetti che passano di mano in cui chi paga non è chi ottiene il bene ma chi lo offre, e quelle prestazioni che non esigono una controprestazione immediata o differita. Ma limitarsi a considerare tali azioni, così frequenti in tutte le società, come espressioni dell’atto del donare e cercare in esse la sua natura rivela il carattere mercantilistico di chi così ragiona. Non è da stupirsi che a un simile approccio sfugga l’esistenza del dono puro, incommensurabile, specie se avviene in una cultura diversa dalla propria, in forme incomprensibili.
Strette all’interno di gabbie mentali utilitariste, a certe prestazioni vengono attribuiti altri significati. Ed ecco il dono venire definito un passaggio entro un generalizzato sistema di scambi, addirittura l’instaurarsi di un’obbligazione. E’ quanto si legge nelle parole di Marcel Mauss, che ha inserito il dono all’interno di quello che egli chiamò il “sistema delle prestazioni totali”. “Queste prestazioni e controprestazioni si intrecciano sonno una forma a preferenza volontaria con doni e regali, benché esse siano, in fondo, rigorosamente obbligatorie, sotto pena di guerra privata o pubblica”.(3) E’ l’obbligo a revanschieren, che Mauss riprende da Thurnwald, l’etnologo tedesco sollevato nel credere di ritrovare quel peso, caratteristico dell’etichetta borghese (e ereditato a sua volta dal codice di comportamento aristocratico), anche tra le isole Salomone.
Se è Mauss che si riferiva in generale a economie primitive, del passato e a lui contemporanee, è a Malinowski che si deve la descrizione esemplare del caso divenuto più classico, quello degli “argonauti” delle Trobriand e dell’nello ideale, detto kula, da essi instaurato tra le loro isole. A costo di fatiche e pericoli, essi fanno circolare in senso orario da isola a isola delle collane di conchiglie, in senso inverso dei bracciali. Perché tanta fatica se quegli oggetti non sono utili e non possono essere scambiati con qualcosa che serve, né possono entrare a far parte della ricchezza personale poiché dovranno in seguito essere ceduti ad altri, così che non si fermi la circolazione all’interno dell’anello? Sono doni perché sono oggetto di scambio non oneroso, e quindi economicamente inutili, dice Malinowski, ma culturalmente indispensabili perché quegli scambi tengono insieme una società dispersa tra le isole, senza che gli stessi “selvaggi” se ne rendano conto.
Le tanto spesso analizzate pagine degli Argonauti possono qui prestarsi a una nuova interpretazione. Dopo un’accurata descrizione del kula, Malinowski scrive: “Not even the most intelligent native has any clear idea of the Kula as a big, organized sociali construction, still less of its sociological function and implications”. (“Nemmeno il più intelligente dei nativi ha alcuna concezione del kula come di una vasta e organizzata costruzione sociale, e men che meno delle sue funzioni e implicazioni sociologiche”) (4), Così inserito in un sistema di senso comprensibile in Occidente perché inseribile nelle sue regole di comportamento sociale, il kula può circolare anche all’esterno, ed è diventato infatti un topos centrale del pensiero antropologico. Comprendendo a modo nostro ciò che si mette in atto nel kula, entriamo anche noi, idealmente, a farne parte.
In questo primo livello di interpretazione, vediamo in atto un dono che ci viene fatto dai trobriandesi. Oggetto del dono è, in questo caso, l’idea stessa di dono, che abbiamo visto funzionare in modo esemplare laggiù. Approfittando della straordinaria densità simbolica della ricerca di Malinowski, possiamo considerare, per estensione, l’intero pensiero antropologico come la messa in atto di un kula totale che leghi in un anello di senso l’Occidente alle altre culture: un “fatto sociale totale” à la Mauss che unisca non giù gli individui all’interno di una società ma le società stesse tra di loro. Per innescare questa circolazione di senso ci voleva un atto gratuito, dato che non si può pensare che i trobriandesi avessero un qualche interesse a far conoscere a Malinowski – e a noi attraverso di lui – la loro istituzione.
Ma vi è un secondo livello di interpretazione, che richiede una decostruzione del sistema elaborato da Malinowski per attribuire un significato al kula, comprensibile a lui e a noi. Possiamo ritenere che, se i trobriandesi avessero una “idea chiara” – alla Malinowsi – di ciò che fanno, il kula o non esisterebbe o sarebbe un’altra cosa. Possiamo pensare, cioè. che l’idea di un dono senza secondi fini sia indispensabile perché possa funzionare (per usare un termine caro al funzionalista Malinowski). La lezione che allora possiamo ricavare da questo secondo livello di interpretazione è allora questa. Ciò che riceviamo in dono dall’ entrare in contatto con il kula non è tanto il disvelarsi del suo meccanismo latente, quando piuttosto la conoscenza che ne riceviamo della necessità di un comportamento disinteressato, asistematico, non preoccupato delle conseguenze: non finalizzato insomma. E’ legittimo pensare che non sia la logica del sistema, ma l’ingenuità degli uomini, a far girare l’anello.
In una circolazione globale delle idee, si può allora immaginare un confronto e uno scambio disinteressato tra una visione locale e una visione occidentale di un comportamento umano. Il contributo dell’antropologia, in questa ottica, non sarebbe più quello di farci avvicinare agli “altri” servendoci dei nostri strumenti conoscitivi, ma di farci dialogare con essi.
Qui si apre un problema di fondo, e l’antropologia è andata quindi a chiedere soccorso, come altre volte, alla filosofia. Che strumenti di pensiero abbiamo per interpretare espressioni linguisticamente, culturalmente altre? L’ermeneuta, affinatosi nell’interpretazione dei codici antichi, può aiutarci a trasferire strumenti di analisi testuale al “testo” di una cultura? C’è uno scritto di Martin Heidegger, maestro di ermeneutica, in cui si mette in scena un incontro tra lui e un giapponese, docente di letteratura tedesca, venuto a rendergli visita. Il discorso si porta sui passaggi da un sistema luguistico-culturale a un altro e delle difficoltà che ne derivano. A monte del problema sta, per il filosofo,quel processo che egli chiama “la ompleta europeizzazione della terra e dell’uomo”, un “accecamento” che distruggerebbe “nelle sue fonti tutto ciò che è essenziale. Ricordando la sua famosa definizione del linguaggio come della dimora dell’Essere, Heidegger prosegue affermando che “se l’uomo grazi al suo linguaggio abita nel dominio dell’Essere, è da supporre che noi europei abitiamo in una dimora del tutto diversa da quella dell’uomo orientale” (5).
Gli fa eco Gianni Vattimo, in uno scritto in cui si paventa il pericolo di una “riduzione” dell’ermeneutica a antropologia “L’idea dell’antropologia come disciplina che preveda il dialogo con altre culture nella loro alterità” non sarebbe altro che “una finzione ideologica, creata per bilanciare una situazione in cui l’alterità tende in realtà a dissolversi traverso la crescente occidentalizzazione del mondo”. D’altra parte, nella convinzione che “l’inizio di un dialogo presuppone una alterità preliminare tra i partner”, sembrerebbe non esservi scampo, poiché “anche un relazione con una cultura altra presuppone un ‘contesto’ dato” (6).
E chi, se non l’interlocutore occidentale, definirà quel contesto e fisserà le regole del dialogo?
Per uscire da quello che, più che un circolo ermeneutico, appare un circolo vizioso del pensiero occidentale, viene allora da pensare che sia necessario aprirsi a ricevere un dono unilaterale e disinteressato, anche ai fini conoscitivi. Senza entrare nell’ottica mercantilista dello scambio, né sentire l’obbligo funzionalista della reciprocità bilanciata. Lasciando piuttosto che vi sia libertà nel dare così come nel ricevere i doni di un incontro con l’altro.
Ma lasciamo per un momento la via maestra di quei settori del pensiero occidentale che, in antropologia e in altre scienze umane, si sono interrogati sulla possibilità di un dialogo interculturale. Seguiamo idealmente il viaggio di ritorno in patria, dai mari del Sud, di Victor Segalen, l’esegeta dell’esotismo, il suo unico teorico convinto: Fantasioso personaggio, durante i suoi viaggi buttò giù note per un “”saggio sull’esotismo” che finì per non scrivere mai, sempre in lott com’era tra la volontà di restare ancorato a ciò che egli chiamava il Reale e le tentazioni di un rifugio nell’immaginario. L’irrequietezza vitalista e la stessa incompiutezza dell’opera si addicono comunque perfettamente sia all’argomento che aveva a cuore. Medico coloniale, sul finire di una sua campagna nel Pacifico pensa di rendere visita a uno dei suoi miti giovanili, Gauguin.
Va a Tahiti, ma viene a sapere che il pittore si è trasferito alle isole Marchesi. Quando vi giunge, è troppo tardi, Gauguin è morto da alcuni mesi, e da quel primo incontro mancato Segalen riporta molte impressioni, le testimonianze di chi gli era stato vicino, qualche oggetto della capanna che l’ospitava. Gli ultimi doni, disinteressati, di un artista.
Mentre la nave su cui si è imbarcato ha già la prua verso l’Europa, l’inguaribile egotista decide di rendere un’altra visita postuma al secondo dei suoi miti giovanili, Rimbaud, e si fa sbarcare a Gibuti. Qui, Seglen ha intenzione di esplorare non un territorio ma il mistero di una mente, quella del “doppio Rimbaud” (7). Non è soddisfatto, evidentemente, di quella che è la versione accreditata e che tutti conosciamo. Sublime poeta dall’inesplicabile perfezione della parola, da adolescente, arrivato a diciannove anni si tace per sempre, si mette a viaggiare fino a sparire in Oriente da dove riapparirà, malato, per andare a morire in famiglia. Ma l’Oriente non l’aveva attirato per un fascino estetico, esoticheggiante, quanto piuttosto per esercitarvi sporchi commerci d’armi e forse di schiavi. Delicato poeta prima, cinico avventuriero poi,sedotto dal fascino oscuro, semmai, dell’esotico. Questo il “doppio” Rimbaud nella versione corrente, al tempo stesso disincantata e decadentista.
Intuizione geniale di Segalen di volerci vedere più chiaro in quello che, in prima ipotesi, egli considera un caso di “bovarismo”, il prendersi per un altro da quello che si è e immedesimarsi in quella seconda natura. Fattosi investigatore, Segalen interroga nei caffé di Gibuti chi lo aveva conosciuto e magari millanta un’amicizia trascorsa. Ne esce, del secondo Rimbaud, un quadro patetico. Soggetto a frequenti insolazioni per le bravate di volersi mostrare a capo scoperto e torso nudo, ma sobrio, solitario, incapace di convivere con una donna (tranne che, per un breve periodo, con un’abissina), appariva in realtà ossessionato da una cosa sola: l’incapacità di fare soldi con i suoi commerci (niente di illegale, niente di avventuroso) par manque de capitaux. Mai a scrivere, mai a leggere, mai interessato ai rapporti con la Francia, se si eccettua un fitto carteggio con la madre e la sorella. Finché, debilitato e ammalato, chiede di venire aiutato a rientrare per farsi curare dalla sorella. Che Segalen va a trovare per raccogliere qualche ricordo negli ultimi giorni del poeta. Orrore per la poesia, l’incarico di mandare un po’ di denaro agli amici lasciati in Africa.
Come i giocattoli che la sorella ha conservato e che ritrova, le poesie sono state per Rimbaud, dice Segalen, i suoi bibelots infantili. Poi, “hai lottato per il Reale. L’hai preso corpo a corpo”. Ma inutilmente, rimanendo poeta fino alla fine, anche senza volerlo. Sono, infine, le lettere scritte alla madre borghese a spiegare il personaggio. Il reale, per la mentalità borghese incarnata dalla madre e che, lasciati i bibelots, Rimbaud teneva più di ogni altra cosa a assecondare, significava avere successo negli affari, fare denaro. Lontano fisicamente, Rimbaud non era riuscito a allontanarsi da quella mentalità. Occuparsi d’alto c’est mal, come ebbe a dire una volta della letteratura, e che noi possiamo estendere a ogni altra curiosità intellettuale fine a se stessa.
Per assecondare la madre e il mondo che essa rappresenta, Rimbaud si era negata la possibilità di ricevere sia i doni che il suo talento interiore gli aveva fornito, sia quelli che il mondo esterno avrebbe potuto offrirgli – magari sotto forma di una “estetica del diverso”, come suggeriva la poetica dell’esotismo cara a Segalen – e che Gauguin invece aveva saputo cogliere fondendo gli uni agli altri per poi, a sua volta,offrire al mondo i doni incommensurabili delle sue opere.
Meno poetico, meno visionario dell’avventurosa curiosità egotista, il pensiero antropologico si nutre di un’analoga fiducia. Quella di poter uscire dalle gabbie con le quali l’Occidente si è autoescluso da un dialogo con l’esterno, nel timore di poter perdere il controllo dei propri strumenti conoscitivi, intesi anche come strumenti di potere.. Se la ricerca antropologica possiede anch’essa qualcosa di avventuroso, non è tanto per la spinta a viaggiare ma per la volontà di comunicare arrischiando difficili traduzioni linguistiche e culturali, e interpretare i segni spesso oscuri di altri modi di vivere e di pensare.
Quei messaggi, quei segni sono i doni che l’antropologo riceve da uomini lontani e che egli, a sua volta, cercherà di donare ai suoi vicini nel grande kula globale dei rapporti tra gli uomini. Sono doni perché sono prestazioni gratuite che egli riceve, visitatore esterno a quella società senza i diritti e i doveri che deriverebbero da quella appartenenza. Sono doni anche perché attraverso quei contatti l’antropologo viene a acquisire cose che non riuscirebbe a avvicinare se si servisse soltanto dei propri strumenti conoscitivi e rimanesse chiuso nel proprio contesto ermeneutica. In ciò, il pensiero antropologico non fa che rifarsi al significato primario di ermeneutica, che è quello, rappresentato dal dio Ermes, di portare messaggi.
Note:
1. P. Gauguin, L’isola dell’anima. Gli antichi culti maori e i diari di viaggio a Noa Noa illustrati dall’autore, Como, Red edizioni, 1987.
2. C Berselli, “Principi giapponesi a Mantova nel 1585”, in Civiltà mantovana, III, n. 14, marzo-aprile 1968, pp. 73-83.
3. Mauss, Saggio sul dono, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965.
4. B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Roma, Newton Compton, 1973.
5. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1973.
6. G. Vattimo, “Differente and interference. On the reduction of hermeneutics to anthropology”, Res, n. 4, 1982, pp. 85-91.
7. V. Segalen, “Le double Rimbaud”, in Oeuvres complètes, Parigi, Robert Laffont, 1994, pp. 481-511.
THE KULA RING, THE HERMENEUTIC CIRCLE AND THE GIFT OF ANTHROPOLOGY
ANTONIO MARAZZI
“Always giving…always. What a beautiful realm was ours, where man lavished his gifts, like the earth, and we sang all year long” So Vaitua told Gauguin, as he notes in Noa Noa (1). It is impossibile to imagine a more perfect icon of exoticism than this encounter between the princess and the French painter who, far from the debts and the travails left behind in his homeland, responded: “Civilization is slipping away from me”.
But, while paintings of exotic subjects made the painter a fortune (alas, posthumously), exoticism itself has never been considered respectable. While Chinese lacquer-paneled sitting-rooms in aristocratic palazzos and Japanese prints in middle-class houses were the furnishings most in vogue during the Belle Epoque, and Madame Butterfly’s hopeful anticipation of the appearance of a “thread of smoke” on the horizon which moved opera houses audiences, chinoiseries and japonaiseries were never recognized as anything other than an ephemeral and superficial fashion; to say nothing of literature à la Pierre Loti.
Then, beginning with Edward Said, Orientalism – for the most part Arab-esque –obtained a strong negative stigma, with an indication of how it should be considered in an intellectually correct way: as a form of cultural colonialism, an unjust imposition of the Western way of seeing things on other civilizations and their expressions. One of the arguments adopted to demonstrate the existence of a form of unilateral imposition was that, on the part of other civilizations, an analogous “Westernism” did not develop.
We can concede that those pallid, long-nosed figures who tell of the encounter, viewed from the other side, are only marginal representations, as are testimonials of the “flip side” of the American “Conquest”. But it is difficult to maintain that contemporary Westernsm – which is seen as globalization and a witty sociologist called Macdonaldization -, one of the most significant cultural phenomena in human history, is something from which the societies involved can declare themselves detached, affirming that it i san imposition from without which passes above their heads and which they passively abide. In reality, the Western model has been and continue sto be envied –perverse as it may seem to many-, and has created new myths, like the Cargo cults. And, wherever social organization has allowed it, the West and its forms have been meticulously studied and systematically imitated.
For every Gauguin who shed the accouterments of Western civilization, there have been millions, by now billions of men who sought to don those same garments.
The Japanese, eternally top-of-the-class, were the initiators, and we find them here in Italy already in 1585, as we can read in Gianbatista Vigilio’s Insalata, direct testimony of the visit to the court of the Gonzaga by the first official Japanese delegation in Europe, composed of four aristocrats and their retine (2). Portugal, Spain, and then Pisa, Florence, Rome, Naples and Venice: the classical Tour, the same route taken today by the millions. We know that they were very impressed by their visits to the Italian cities: can we imagine that they did not wax enthousiastic in their descriptions once back home and with great accuracy, according with their way of seeing?
The Asia of today – the Orient – has been shaped based on the way in which those peoples, in their internal diversity and in the diversity of the more or less violent ways in which the encounters occurred, have elaborated their own conscious vision of the West. We cannot ignore these forms – to us foreign –of cultural contact, at the risk of perpetuating, paradoxically, our own colonialist vision, accordino to which everything originates in the West.
Beyond militare conquests, forced religious conversion and economic exploitation, a seductive exoticism was developing, on both sides, and while the Orient with its sensual pleasures seduced esthetes and adventurers frustrated by the puritanic mores of their homelands, the West offered far sweeter, more potent and poisonous gifts.
It is in this reciprocal and extensive form that the full importance of the circulation of gifts –of those gratuitous offerings and, inverely, of unexpected gratification – can be grasped; that is, its esential nature resides in being immeasurable, in having no value. The gift does not have, or loses, economic value for the giver, since at the moment in which it is given, it exits the spere of the utilitarian and becomes the vehicle of a positive and freely-given sentiment; it has no economic value for the receiver since it does not fill a need. The ideal gift is one which passes from one culture to another, when that which is given, being unknown until the moment in which it is received, cannot be understood and, thus, cannot be assigned a value.
Giving, always giving, as nature does. A real gift must be truly free, and therefore must not anticipate either immediate or deferred effects, must not demand reciprocità, must not create obligation. The only effect of the pure gift is a feeling of gratitude, the sensation of being enriched without the need for counter-exchange. What is brought about is not a passage from a giver to a receiver, but rather a surplus, something that was not there before, and for which credit is due in equal parts to both the one and the other. The value the gift did not have before the giver divested himself of it comes to be attributed to it when the receiver demonstrates appreciation for it.
The act of giving should play out its effect in the pleasure it causes one to give, and the only reciprocity it should establish lies in the correspondent pleasure it can – but does not necessarily – activate. This is what the princess Vaitua had in mind. Certainly, we can legitimately call gifts those objects that pass from hand toh and where he who pays is no the who obtains the good but he who offers it, as well as those acts or services that do not demand an immediate compensation. But to limit oneself to considering such actions, so frequent in all societies, as expressions of the act of giving, and to seek the nature of the act of giving in them, reveals one’s mercantilist character. It is not surprising that this sort of approach fails to allow for the existence of a pure, incommensurabile gift, especially if the giving occurs in a culture that is not one’s own, and present itself in incomprehensible forms.
Closed inside utilitarin mental cages, some offerigs are attributed other meanings. Here the gift comes to be defined as a transfer within a generalized system of exchanges, or even as the establishment of an obligation. This is what we read in the words of Marcel Mauss, who inserted the gift in what he called the “system of total service”. In this system, according to Mauss, giving and receiving are interwoven in a form of voluntary preferences with gifts and presents, even though they are, in fact, strictly obligatory, under penalty of private or public war. (3). It is the obligation to revanschieren, which Mauss takes from Thurnwald, the German ethnologist convinced to have found that burden, characteristic of bourgeois etiquette, even in the Salomon islands.
While Mauss generally referred to past and contemporary primitive economies, it is to Malinowski that we owe the exemplary description of th case that has become most classic, that of the “argonauts” of the Trobriand islands and the ideal ring, called the kula, that they have established among their islands. Despite the difficulties and dangers involved, the Trobrianders circulate several necklaces made of shells from island to island in a clockwise direction, and bracelets, also made of shells, counterclockwise. If these objects are not useful and can neither be exchanged for necessities, nor become part of the receivers’ personal wealth, since they must bifore long be ceded to others so that the circulation within the ring never stops, then why such effort? These are gifts becuse they are non-onerous – and therefore economically useless – objects of exchange, according to Malinowski, but they are culturally indispensabile, because these exchanges serve to bind together a society dispersed among islands, a function the “savages” themselves are not consciously aware of.
The oft-analyzed pages of the Argonauts can here lend themselves to another interpretation. After an accurate description of the kula, Malinowski writes: “Not even the most intelligent native has any clear idea of the kula as a big, organized social construction, and still less of its sociological function and implications.” (4) Thus inserted in a system of meaning comprehensible in the West beceuse it concerns rules of social behaviour, the kula can circulate externally as well, and has in fact become a central topos of anthropological thought. In comprehending – in our way – what the kula enacts, we also enter into it and, ideally, become part of it.
In this first level of interpretation, we see in action a gift given to us by the Trobrianders. The object given is, in this case, the idea of giving itself, which we have seen work in an exemplary way in these islands. Taking advantage of the extraordinary symbolic density of Manowski’s research, we can, by extension, consider the whole of anthropological thought as the enactment of a total kula which links the West to other cultures in a ring of meaning: a “total social fact” à la Mauss that unites not just the individual within a society but also the different societies themselves. To prime this circuation of meaning, a voluntary act was necessary, given that we cannot imagine that the Trobrianders had some reason in revealing to Malinowski – and to us, through him – their institution.
But there is a second level of interpretation which requires a deconstruction of the system elaborated by Malinowski in order to attribute to the kula a meaning that is comprehensible to him and to us. We can presume that, if the Trobrianders had a “clear idea” of what they were doing, the kula either would not exist or would be another thing. We can presume, that is, that the idea of a gift without ulterior motives is indispensabile because it can “work” (to use the term so dear to the functionalist Malinowski). The lesson we can derive from this second level of interpretation is this, the gift we receive in coming into contact with the kula is no so much the revelation of its latent mechanism , to which Malinowski has initiated us, but rather the awareness we gain of the need for a disinterested, asystematic behaviour that is not concerned with consequences. It can legitimately be suggested that it is not the logic of the system, but the ingenuousness of the participants, that makes the ring revolve.
In the global circulation of ideas we can then immagine a comparison and a disinterested exchange between a local vision and a Western vision of human behaviour. Anthropology-s contribution, in this scenario, would no longer be that of bringing us closer to ‘others’ by utilizing our own instruments of knowledge but that of allowing us to dialogue with them.
Here a fundamental problem arises, and anthropology has thus sought aid, as in other instances, from philosophy. What instrumentes of thought do we have to interpret as expressions that are linguistically, culturally alien to us? Can the hermeneutics scholar, accomplished in the interpretation of ancient codes, help us to transfer instruments of textual analysis to the ‘text’ of a culture? In one of his writings, Martin Heidegger, master of hermeneutics, stages an encounter between himself and a Japanese, teacher of German literature, who has come to visit him. The discussion turn sto the problem of passages from one linguistic and cultural system to another, and of the difficulties such passages present. The root of the problem, for the philosopher, lies in the process he calls “the complete Europeanization of the Earth and of man”, a “binding” that would destroy “at the source all that which is essential”. Recalling his famous definition of language as the dwelling place of Being, Heidegger goes on to affirm that “if man inhabits the domain of Being thanks to his language, we must suppose that we Europeans inhabit a dwelling place that is completely different from that of Easter man (5).
Gianni Vattimo echoes his thought i one of his writings, expressing his fear of the danger of a “reduction” of hermeneutics to anthropology. “The idea of anthropology as a discipline that provides for dialogue with other cultures in their otherness” would for him be nothing but “an ideological fiction, created to balance a situation in which otherness in reality tends to be dissolved by the growing Wsternization of the world”. On the other hand, believing that “the beginning of a dialogue presupposes a preliminary unity between the partners”, there would seem to be no way out since “ any relation with another culture presupposes a given context” (6). And who, if not the Western interlocutor, would define the context and set the rules of of the dialogue?
To break out of what appears to us to be more a vicious circle than a hermeneutis circle rooted in the Western thought, it seems necessary to open ourselves to receive a gift that is unilateral and disinterested without entering in the mercantilist scenaio of exchange, nor feeling the functionalist obligation of balanced reciprocity; allowing there to be freedom of giving as in receiving the gift of an encounter with the other.
Let us leave for a moment the main sectors of those Western thought which, in anthropology and in other human sciences, have examined the possibilities of an intercultural dialogue. Let us ideally follow the route of the return home frem the South Seas taken by Victor Segalen, exegete and sole convinced theorist ox exoticism. An imaginative character, Segalen for years during his voyages took down notes for ar essay on exoticism that he ended up never writing, being always torn between the will to remain anchored to what he caled the Real and the temptation to take refuge in the Imaginary. A vital restlessness, and the very incompleteness of the work are in any case perfectly suited both to the authot and to the subject he held so dear. A colonial doctor, he decided at the end of one of his “campaigns” in the Pacific to pay a visit to one of the myths of his youth, Gauguin.
He traveled to Tahiti, to discover that the painter had moved to the Marquesas Islands. But, when he reached the Marquesas, it was too late: Gauguin had been dead for a few months.
From that first missed encounter Segalen garnered many impressions, including he testimonials of those who had been close to the painter, and a few objects from the cabin where he had lived. The last, disinterested gifts of an artist.
Although the ship on which he re-embarked had its prow pointed toward Europe, the incurable exoticist decided to pay another, posthumous visit, to the second of the wyths of his youth, Rimbaud, and disembarked in Djibuti. Here, Segalen intended to explore not a territory, but rather the mystery of a mind, that of the “two-sided Rimbaud” (7). Evidently, he was not satisfied wih the accepted version of Rimbaud’s life that we all know: sublime poet with an unexplicable perfection of the word in the adolescence, at the age of nineteen he silences himself, forever, and sets off to travel, disappearing in the Orient, from where he will re-appear, gravely ill, only to return to die in the bosom of his family. But he had not been attracted to the Orient for its exotic esthetic fascination; rather he was drawn to condeuct nefarious commerce in arms and perhaps slaves. First a delicate poet, then a cynical adventurer, seduced by the dark allure, if anything, of the exotic. This was the “two-sided Rimbaud” of the commonlt accepted version, at once disenchanted and decadent.
Segalen ingenious intuition led him to attempt to see more clearly in what he had in a first hypotesis taken for a case of “Bovarism”, that Rimbaud had taken himself for something he was not and identified with that second nature. Stepping into the shoes of an investigator, Segalen frequented the cafés of Djibuti, questioning those who had known the poet and perhaps boasted of a past friendship with him. A pathetic picture of the second Rimbaud came to light. He was subject to frequent sonstroke due to a brash desire to be seen bare-headed and bare-chested, but sober, solitary, incapable of living with a woman (except for a brief period with an Abissinian). In reality, he appeared to be obsessed with one thing only: his incapacity to make money with his commercial activities (nothing illegal, nothing adventurous), “par manque de capitaux”. Never writing, never reading, never interested in relations with France, apart fr a continuous correspondence with his mother nd sister. Until finally, weakened and sick, he asked for assistance in returning home, to be taken care of by his sister. Segalen went to visit the sister, to cull her memories of the poetìs last days, his horror for poetry, and the request to send a bit of money to his friensa left in Africa.
Like th toys his sister had kept for him and which he found upon his return home,poems were for Rimbaud, Segalen says, his childish bibelots. Later- Segalen writes, speaking of Rimbaud – “you fought for the Real. You took it on in hand-to-hand combat”. But to no avail, remaining a poet to the end, even against his will. In the end, it is the letters writen to his middle-class mother that reveal his character. The Real, according to the bourgeois mentality embodied by his mother and which Rimbaud, having left behind his bibelots , wanted more than anything else to uphold, meant having success in business, making money. Though physically far removed, Rimbaud never managed to distance himself from that mentality. To occupy oneself with anything else “c’est mal”, as he once said about literature, and we can extend the sentiment to every other intellectual curiosity that is an end in itself.
In order to satisfy his mother and the world she represented, Rimbaud denied himself the possiility of receiving both the gifts his interior talent had provided him, and those of the external world could have offered him – perhaps in the form of an “esthetic of the different”, as the poetics of exoticism dear to Segalen suggested – and which Gauguin hadbeen able to reap, melding the interior with the exterior so as to then, in turn, offer immeasurable gifts to the world.
While less poetic, less visionary than adventurous exoticist curiosity, anthropological thought is fed by an alalogous faith; the faith in the potential to break out the cages with which the West has excluded himself from a dialogue with the outside, afraid to lose control of its own instruments of knowledge. If anthropological research also possesses something of the adventurous, it is not so much due to the urge to travel, but to the will to communicate daring difficult linguistic and cultural translations, and to interpret the often obscure signs of other ways of living and thinking. Those messages, those signs are the gifts the anthropologist receives from men far away from him, and which he in turn will try to give to his neighbourgs in the great global kula of relations among peoples. They are gifts because they are free offerings which he – a visitor alien to that society and lacking the rights and duties he would derive from belonging to it – receives. They are gifts also because through these contacts, the anthropologist comes to acquire thingshe would be unable to approach if he used only his instruments of knowledge and remained locked within his own hermeneutical context. In this, anthropological thought simply recalls itself to the primary meaning of hermeneutics, which is that – represented by the god Hermes – of bearing messages.
Note.
1. P. Gauguin, L’isola dell’anima. Gli antichi culti maori e i diari di viaggio a Noa Noa ilustrati dall’autore, Como, Red edizioni, 1987.
2. C. Berselli, “Principi giapponesi a Mantova nel 1585”, in Civiltà mantovana, III, n. 14, Marzo-Aprile 1968, pp. 73-83.
3. M. Mauss, Gift: The Form and Reason for Exchange, in Archaic Societies, New York, Norton&Co. , 1990.
4. B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, IL. Waveland Press, 1984 (reprint).
5. M. Heidegger, On the Way to Language, San Francisco, Harper Collins, 1971.
6. G. Vattimo, “Difference and Interference. On the reduction of hermeneutics to anthropology”, Res, n. 4, 1982, pp. 85-91.
7. V. Segalen, “Le double Rimbaud”, in Oeuvres complètes, Paris, Robert Laffont, 1994, pp. 481-511.
“Always giving…always. What a beautiful realm was ours, where man lavished his gifts, like the earth, and we sang all year long” So Vaitua told Gauguin, as he notes in Noa Noa (1). It is impossibile to imagine a more perfect icon of exoticism than this encounter between the princess and the French painter who, far from the debts and the travails left behind in his homeland, responded: “Civilization is slipping away from me”.
But, while paintings of exotic subjects made the painter a fortune (alas, posthumously), exoticism itself has never been considered respectable. While Chinese lacquer-paneled sitting-rooms in aristocratic palazzos and Japanese prints in middle-class houses were the furnishings most in vogue during the Belle Epoque, and Madame Butterfly’s hopeful anticipation of the appearance of a “thread of smoke” on the horizon which moved opera houses audiences, chinoiseries and japonaiseries were never recognized as anything other than an ephemeral and superficial fashion; to say nothing of literature à la Pierre Loti.
Then, beginning with Edward Said, Orientalism – for the most part Arab-esque –obtained a strong negative stigma, with an indication of how it should be considered in an intellectually correct way: as a form of cultural colonialism, an unjust imposition of the Western way of seeing things on other civilizations and their expressions. One of the arguments adopted to demonstrate the existence of a form of unilateral imposition was that, on the part of other civilizations, an analogous “Westernism” did not develop.
We can concede that those pallid, long-nosed figures who tell of the encounter, viewed from the other side, are only marginal representations, as are testimonials of the “flip side” of the American “Conquest”. But it is difficult to maintain that contemporary Westernsm – which is seen as globalization and a witty sociologist called Macdonaldization -, one of the most significant cultural phenomena in human history, is something from which the societies involved can declare themselves detached, affirming that it i san imposition from without which passes above their heads and which they passively abide. In reality, the Western model has been and continue sto be envied –perverse as it may seem to many-, and has created new myths, like the Cargo cults. And, wherever social organization has allowed it, the West and its forms have been meticulously studied and systematically imitated.
For every Gauguin who shed the accouterments of Western civilization, there have been millions, by now billions of men who sought to don those same garments.
The Japanese, eternally top-of-the-class, were the initiators, and we find them here in Italy already in 1585, as we can read in Gianbatista Vigilio’s Insalata, direct testimony of the visit to the court of the Gonzaga by the first official Japanese delegation in Europe, composed of four aristocrats and their retine (2). Portugal, Spain, and then Pisa, Florence, Rome, Naples and Venice: the classical Tour, the same route taken today by the millions. We know that they were very impressed by their visits to the Italian cities: can we imagine that they did not wax enthousiastic in their descriptions once back home and with great accuracy, according with their way of seeing?
The Asia of today – the Orient – has been shaped based on the way in which those peoples, in their internal diversity and in the diversity of the more or less violent ways in which the encounters occurred, have elaborated their own conscious vision of the West. We cannot ignore these forms – to us foreign –of cultural contact, at the risk of perpetuating, paradoxically, our own colonialist vision, accordino to which everything originates in the West.
Beyond militare conquests, forced religious conversion and economic exploitation, a seductive exoticism was developing, on both sides, and while the Orient with its sensual pleasures seduced esthetes and adventurers frustrated by the puritanic mores of their homelands, the West offered far sweeter, more potent and poisonous gifts.
It is in this reciprocal and extensive form that the full importance of the circulation of gifts –of those gratuitous offerings and, inverely, of unexpected gratification – can be grasped; that is, its esential nature resides in being immeasurable, in having no value. The gift does not have, or loses, economic value for the giver, since at the moment in which it is given, it exits the spere of the utilitarian and becomes the vehicle of a positive and freely-given sentiment; it has no economic value for the receiver since it does not fill a need. The ideal gift is one which passes from one culture to another, when that which is given, being unknown until the moment in which it is received, cannot be understood and, thus, cannot be assigned a value.
Giving, always giving, as nature does. A real gift must be truly free, and therefore must not anticipate either immediate or deferred effects, must not demand reciprocità, must not create obligation. The only effect of the pure gift is a feeling of gratitude, the sensation of being enriched without the need for counter-exchange. What is brought about is not a passage from a giver to a receiver, but rather a surplus, something that was not there before, and for which credit is due in equal parts to both the one and the other. The value the gift did not have before the giver divested himself of it comes to be attributed to it when the receiver demonstrates appreciation for it.
The act of giving should play out its effect in the pleasure it causes one to give, and the only reciprocity it should establish lies in the correspondent pleasure it can – but does not necessarily – activate. This is what the princess Vaitua had in mind. Certainly, we can legitimately call gifts those objects that pass from hand toh and where he who pays is no the who obtains the good but he who offers it, as well as those acts or services that do not demand an immediate compensation. But to limit oneself to considering such actions, so frequent in all societies, as expressions of the act of giving, and to seek the nature of the act of giving in them, reveals one’s mercantilist character. It is not surprising that this sort of approach fails to allow for the existence of a pure, incommensurabile gift, especially if the giving occurs in a culture that is not one’s own, and present itself in incomprehensible forms.
Closed inside utilitarin mental cages, some offerigs are attributed other meanings. Here the gift comes to be defined as a transfer within a generalized system of exchanges, or even as the establishment of an obligation. This is what we read in the words of Marcel Mauss, who inserted the gift in what he called the “system of total service”. In this system, according to Mauss, giving and receiving are interwoven in a form of voluntary preferences with gifts and presents, even though they are, in fact, strictly obligatory, under penalty of private or public war. (3). It is the obligation to revanschieren, which Mauss takes from Thurnwald, the German ethnologist convinced to have found that burden, characteristic of bourgeois etiquette, even in the Salomon islands.
While Mauss generally referred to past and contemporary primitive economies, it is to Malinowski that we owe the exemplary description of th case that has become most classic, that of the “argonauts” of the Trobriand islands and the ideal ring, called the kula, that they have established among their islands. Despite the difficulties and dangers involved, the Trobrianders circulate several necklaces made of shells from island to island in a clockwise direction, and bracelets, also made of shells, counterclockwise. If these objects are not useful and can neither be exchanged for necessities, nor become part of the receivers’ personal wealth, since they must bifore long be ceded to others so that the circulation within the ring never stops, then why such effort? These are gifts becuse they are non-onerous – and therefore economically useless – objects of exchange, according to Malinowski, but they are culturally indispensabile, because these exchanges serve to bind together a society dispersed among islands, a function the “savages” themselves are not consciously aware of.
The oft-analyzed pages of the Argonauts can here lend themselves to another interpretation. After an accurate description of the kula, Malinowski writes: “Not even the most intelligent native has any clear idea of the kula as a big, organized social construction, and still less of its sociological function and implications.” (4) Thus inserted in a system of meaning comprehensible in the West beceuse it concerns rules of social behaviour, the kula can circulate externally as well, and has in fact become a central topos of anthropological thought. In comprehending – in our way – what the kula enacts, we also enter into it and, ideally, become part of it.
In this first level of interpretation, we see in action a gift given to us by the Trobrianders. The object given is, in this case, the idea of giving itself, which we have seen work in an exemplary way in these islands. Taking advantage of the extraordinary symbolic density of Manowski’s research, we can, by extension, consider the whole of anthropological thought as the enactment of a total kula which links the West to other cultures in a ring of meaning: a “total social fact” à la Mauss that unites not just the individual within a society but also the different societies themselves. To prime this circuation of meaning, a voluntary act was necessary, given that we cannot imagine that the Trobrianders had some reason in revealing to Malinowski – and to us, through him – their institution.
But there is a second level of interpretation which requires a deconstruction of the system elaborated by Malinowski in order to attribute to the kula a meaning that is comprehensible to him and to us. We can presume that, if the Trobrianders had a “clear idea” of what they were doing, the kula either would not exist or would be another thing. We can presume, that is, that the idea of a gift without ulterior motives is indispensabile because it can “work” (to use the term so dear to the functionalist Malinowski). The lesson we can derive from this second level of interpretation is this, the gift we receive in coming into contact with the kula is no so much the revelation of its latent mechanism , to which Malinowski has initiated us, but rather the awareness we gain of the need for a disinterested, asystematic behaviour that is not concerned with consequences. It can legitimately be suggested that it is not the logic of the system, but the ingenuousness of the participants, that makes the ring revolve.
In the global circulation of ideas we can then immagine a comparison and a disinterested exchange between a local vision and a Western vision of human behaviour. Anthropology-s contribution, in this scenario, would no longer be that of bringing us closer to ‘others’ by utilizing our own instruments of knowledge but that of allowing us to dialogue with them.
Here a fundamental problem arises, and anthropology has thus sought aid, as in other instances, from philosophy. What instrumentes of thought do we have to interpret as expressions that are linguistically, culturally alien to us? Can the hermeneutics scholar, accomplished in the interpretation of ancient codes, help us to transfer instruments of textual analysis to the ‘text’ of a culture? In one of his writings, Martin Heidegger, master of hermeneutics, stages an encounter between himself and a Japanese, teacher of German literature, who has come to visit him. The discussion turn sto the problem of passages from one linguistic and cultural system to another, and of the difficulties such passages present. The root of the problem, for the philosopher, lies in the process he calls “the complete Europeanization of the Earth and of man”, a “binding” that would destroy “at the source all that which is essential”. Recalling his famous definition of language as the dwelling place of Being, Heidegger goes on to affirm that “if man inhabits the domain of Being thanks to his language, we must suppose that we Europeans inhabit a dwelling place that is completely different from that of Easter man (5).
Gianni Vattimo echoes his thought i one of his writings, expressing his fear of the danger of a “reduction” of hermeneutics to anthropology. “The idea of anthropology as a discipline that provides for dialogue with other cultures in their otherness” would for him be nothing but “an ideological fiction, created to balance a situation in which otherness in reality tends to be dissolved by the growing Wsternization of the world”. On the other hand, believing that “the beginning of a dialogue presupposes a preliminary unity between the partners”, there would seem to be no way out since “ any relation with another culture presupposes a given context” (6). And who, if not the Western interlocutor, would define the context and set the rules of of the dialogue?
To break out of what appears to us to be more a vicious circle than a hermeneutis circle rooted in the Western thought, it seems necessary to open ourselves to receive a gift that is unilateral and disinterested without entering in the mercantilist scenaio of exchange, nor feeling the functionalist obligation of balanced reciprocity; allowing there to be freedom of giving as in receiving the gift of an encounter with the other.
Let us leave for a moment the main sectors of those Western thought which, in anthropology and in other human sciences, have examined the possibilities of an intercultural dialogue. Let us ideally follow the route of the return home frem the South Seas taken by Victor Segalen, exegete and sole convinced theorist ox exoticism. An imaginative character, Segalen for years during his voyages took down notes for ar essay on exoticism that he ended up never writing, being always torn between the will to remain anchored to what he caled the Real and the temptation to take refuge in the Imaginary. A vital restlessness, and the very incompleteness of the work are in any case perfectly suited both to the authot and to the subject he held so dear. A colonial doctor, he decided at the end of one of his “campaigns” in the Pacific to pay a visit to one of the myths of his youth, Gauguin.
He traveled to Tahiti, to discover that the painter had moved to the Marquesas Islands. But, when he reached the Marquesas, it was too late: Gauguin had been dead for a few months.
From that first missed encounter Segalen garnered many impressions, including he testimonials of those who had been close to the painter, and a few objects from the cabin where he had lived. The last, disinterested gifts of an artist.
Although the ship on which he re-embarked had its prow pointed toward Europe, the incurable exoticist decided to pay another, posthumous visit, to the second of the wyths of his youth, Rimbaud, and disembarked in Djibuti. Here, Segalen intended to explore not a territory, but rather the mystery of a mind, that of the “two-sided Rimbaud” (7). Evidently, he was not satisfied wih the accepted version of Rimbaud’s life that we all know: sublime poet with an unexplicable perfection of the word in the adolescence, at the age of nineteen he silences himself, forever, and sets off to travel, disappearing in the Orient, from where he will re-appear, gravely ill, only to return to die in the bosom of his family. But he had not been attracted to the Orient for its exotic esthetic fascination; rather he was drawn to condeuct nefarious commerce in arms and perhaps slaves. First a delicate poet, then a cynical adventurer, seduced by the dark allure, if anything, of the exotic. This was the “two-sided Rimbaud” of the commonlt accepted version, at once disenchanted and decadent.
Segalen ingenious intuition led him to attempt to see more clearly in what he had in a first hypotesis taken for a case of “Bovarism”, that Rimbaud had taken himself for something he was not and identified with that second nature. Stepping into the shoes of an investigator, Segalen frequented the cafés of Djibuti, questioning those who had known the poet and perhaps boasted of a past friendship with him. A pathetic picture of the second Rimbaud came to light. He was subject to frequent sonstroke due to a brash desire to be seen bare-headed and bare-chested, but sober, solitary, incapable of living with a woman (except for a brief period with an Abissinian). In reality, he appeared to be obsessed with one thing only: his incapacity to make money with his commercial activities (nothing illegal, nothing adventurous), “par manque de capitaux”. Never writing, never reading, never interested in relations with France, apart fr a continuous correspondence with his mother nd sister. Until finally, weakened and sick, he asked for assistance in returning home, to be taken care of by his sister. Segalen went to visit the sister, to cull her memories of the poetìs last days, his horror for poetry, and the request to send a bit of money to his friensa left in Africa.
Like th toys his sister had kept for him and which he found upon his return home,poems were for Rimbaud, Segalen says, his childish bibelots. Later- Segalen writes, speaking of Rimbaud – “you fought for the Real. You took it on in hand-to-hand combat”. But to no avail, remaining a poet to the end, even against his will. In the end, it is the letters writen to his middle-class mother that reveal his character. The Real, according to the bourgeois mentality embodied by his mother and which Rimbaud, having left behind his bibelots , wanted more than anything else to uphold, meant having success in business, making money. Though physically far removed, Rimbaud never managed to distance himself from that mentality. To occupy oneself with anything else “c’est mal”, as he once said about literature, and we can extend the sentiment to every other intellectual curiosity that is an end in itself.
In order to satisfy his mother and the world she represented, Rimbaud denied himself the possiility of receiving both the gifts his interior talent had provided him, and those of the external world could have offered him – perhaps in the form of an “esthetic of the different”, as the poetics of exoticism dear to Segalen suggested – and which Gauguin hadbeen able to reap, melding the interior with the exterior so as to then, in turn, offer immeasurable gifts to the world.
While less poetic, less visionary than adventurous exoticist curiosity, anthropological thought is fed by an alalogous faith; the faith in the potential to break out the cages with which the West has excluded himself from a dialogue with the outside, afraid to lose control of its own instruments of knowledge. If anthropological research also possesses something of the adventurous, it is not so much due to the urge to travel, but to the will to communicate daring difficult linguistic and cultural translations, and to interpret the often obscure signs of other ways of living and thinking. Those messages, those signs are the gifts the anthropologist receives from men far away from him, and which he in turn will try to give to his neighbourgs in the great global kula of relations among peoples. They are gifts because they are free offerings which he – a visitor alien to that society and lacking the rights and duties he would derive from belonging to it – receives. They are gifts also because through these contacts, the anthropologist comes to acquire thingshe would be unable to approach if he used only his instruments of knowledge and remained locked within his own hermeneutical context. In this, anthropological thought simply recalls itself to the primary meaning of hermeneutics, which is that – represented by the god Hermes – of bearing messages.
Note.
1. P. Gauguin, L’isola dell’anima. Gli antichi culti maori e i diari di viaggio a Noa Noa ilustrati dall’autore, Como, Red edizioni, 1987.
2. C. Berselli, “Principi giapponesi a Mantova nel 1585”, in Civiltà mantovana, III, n. 14, Marzo-Aprile 1968, pp. 73-83.
3. M. Mauss, Gift: The Form and Reason for Exchange, in Archaic Societies, New York, Norton&Co. , 1990.
4. B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, IL. Waveland Press, 1984 (reprint).
5. M. Heidegger, On the Way to Language, San Francisco, Harper Collins, 1971.
6. G. Vattimo, “Difference and Interference. On the reduction of hermeneutics to anthropology”, Res, n. 4, 1982, pp. 85-91.
7. V. Segalen, “Le double Rimbaud”, in Oeuvres complètes, Paris, Robert Laffont, 1994, pp. 481-511.
martedì 14 settembre 2010
IL NOME DEL ROSA *
In giapponese, il nome del rosa è ‘pinku’. E ‘pinku’ è ‘kawaii’. Per usare le parole dell’artista contemporaneo Takeshi Murakami, “la nozione di ‘kawaii’ è totalmente positiva. Esprime l’aspetto luminoso di un mondo fatato” (2002). E’ a partire da questi due termini che intendo sviluppare qualche riflessione.
Non credo ci sia bisogno, nel nostro caso, di scomodare la tanto spesso citata quanto poco documentata ‘ipotesi Sapir-Whorf’, alla quale si attribuisce l’idea che sia la lingua – e cioè siano LE lingue - a modellare i concetti. Il nostro è il classico caso in cui anziché teorie generalizzanti e di ampio respiro è il caso particolare a essere illuminante.
Pinku non è che la parola inglese ‘pink’ pronunciata alla giapponese (un giapponese avrebbe difficoltà a troncare sulla kappa: anche da qui derivano certi problemi nell’apprendere l’inglese) a partire dalla sua scrittura in ‘katakana’, l’alfabeto fonetico utilizzato per traslitterare le parole straniere, composto di segni sillabici che comprendono consonanti e vocali insieme. Cosa ci dice questo? Che prima del contatto con l’Occidente, ben rappresentato da quella contaminazione linguistica, non esisteva un termine per indicare un certo intervallo nella gamma del rosso? No, possiamo ritenere che quello che nella nostra lingua indichiamo come ‘rosa’, venisse indicato in passato in Giappone con ‘momoiro’. Che significa ‘momoiro’? Letteralmente, ‘colore-pesca’, e cioè il colore dei fiori di pesco. Possiamo vedere in molti disegni e stampe e in stoffe per kimono quanto frequenti fossero rami fioriti di pesco, qualcosa che evidentemente, anche se meno dei fiori di ciliegio, era provvisto di speciale apprezzamento estetico e simbolico, indice di delicatezza e di rinnovemento primaverile.
Cosa afferma la fisica ottica? Che vi è una continuità nello spettro della rifrazione luminosa che trasmette ai nostri occhi la percezione di ciò che noi indichiamo come il colore degli oggetti e del mondo intorno a noi. Tale continuità viene generalmente indicata in modo grafico. Ma quando vogliamo introdurre un criterio di classificazione, adottiamo degli attributi linguistici, dei numeri, dei segni, oppure, nel caso dei colori, costruiamo una scala cromatica, anch’essa convenzionale, introduciamo comunque una discontinuità per potere classificare e dare un ordine al mondo e nella percezione che ne abbiamo.
La tonalità cosiddetta ‘rosa’ appare agli occhi dei giapponesi di oggi allo stesso modo che in passato e allo stesso modo che appare a noi. D’altra parte, una rosa è in Giappone altrettanto rosa che in un’altra parte del mondo, e agli occhi dei giapponesi essa appare allo stesso modo che appare a noi. Che bisogno vi è stato di introdurre un nuovo modo per definire quella tonalità, a partire non già da una diversa caratteristica isolabile all’interno della varietà cromatica percepibile, ma adottando un nuovo termine linguistico? Rompendo, in tal modo, una corrispondenza consolidata tra il modo di vedere e il modo di dire ciò che si vede e si pensa di vedere.
Dobbiamo ritenere che il nome del rosa ‘momoiro’ fosse non già un modo per indicare un certo segmento di spettro luminoso nella scala cromatica, bensì piuttosto un attributo culturale di qualcosa -i fiori di pesco-, ai quali corrispondono alcune caratteristiche, nella società che così si esprime. Introducendo il nuovo termine ‘pinku’, i giapponesi non hanno introdotto il rosa nella loro percezione della natura, affinando, per così dire, il loro modo di vederla percettivamente, ma hanno espresso una nuova sensazione nella propria cultura: e l’hanno sottolineato adottando una denominazione straniera.
Come molto intuitivamente ha scritto Harumi Befu, nel Giappone contemporaneo ciò che ha un sapore, una connotazione occidentale è provvisto di uno status superiore, non in quanto straniero, ma in quanto adottato nella sfera pubblica, quell’area ‘tatemae’ espressione della collettività e delle sue regole. L’adozione di stilemi occidentali (così come, in passato, di ciò che veniva dalla Cina, dal sistema di scrittura al confucianesimo e al buddismo) rappresenta quindi al tempo stesso una concessione all’esotismo e una forma di rispetto della società e delle sue regole, nonché dei comportamenti e degli stili di vita connessi, in definitiva degli interessi nazionali; non già un ‘tradimento’ della tradizione, come si potrebbe essere portati a credere. Si concilia in tal modo il fascino esercitato anche in Giappone, a livello individuale, soprattutto tra i giovani, dai modelli culturali occidentali, con il sentimento che l’appropriazione e l’adattamento di quei modelli non si oppongano ai valori della collettività ma anzi ne diventino essi stessi un’espressione.
Il rosa ‘pinku’, non più legato alla natura locale –i fiori di pesco- ma alla cultura straniera, come colore che esprime un mondo infantile e innocente, insieme a altre tonalità cromatiche tenui e brillanti, rappresenta emblematicamente, in modo esteriore - e quindi, provvisto di prestigio in quanto ciò che è esteriore è pubblico e condiviso - l’espressione di una visione che i giovani giapponesi attribuiscono all’Occidente e che ad essi appare efficace come modo per distinguersi da un passato che era, anche, diversamente colorato. Se la reazione che avremo noi occidentali sarà quella di affermare che il nostro mondo non è tutto rosa, non faremo che dare una conferma a quel modo di vedere e cioè di considerare il rosa. Il modo di vedere di cui stiamo parlando, ricordiamolo, non fa riferimento alla percezione così com’è intesa dalla fisica ottica, ma come è costruita culturalmente e che comprende ciò che gli altri considerano spesso degli stereotipi: e gli esotismi, dall’una e dall’altra parte, appartengono a questa categoria.
Quali erano, piuttosto, i colori dominanti del passato, in Giappone? Un’indicazione possiamo averla leggendo l’elogio che fa dell’ombra Tanizaki in un suo racconto. Il lato ombroso di un luogo, così come quello della vita, vi si dice, è misterioso e affascinante finché non siamo in grado di afferrarne le forme, di distinguerne i contorni, di riconoscerne le caratteristiche, in una parola di appropriarcene con lucidità intellettuale, lasciando che i sensi siano al tempo stesso ingannati e stimolati. E’ un mondo in cui i colori sono oscuri, sfumati, evanescenti, trasmettono una sensazione di umido e di instabile, mutevole a ogni vibrare della natura vegetale, dell’aria, della terra.
Guardando al passato remoto, troviamo quello stile di vita aristocratico, dominato al tempo stesso da valori militari e spirituali, che la riforma Meiji impose all’interno e all’esterno come la versione ortodossa della propria identità culturale, quella dei samurai, dello Zen e delle arti marziali, che tanto ha affascinato l’Occidente. Un mondo di uomini, monaci, aristocratici e guerrieri che rivestivano le loro donne di kimono coloratissimi perché somigliassero a dei fiori, ma riservavano per sé e il proprio ambiente i colori più austeri. Il nero anzitutto, colore dell’inchiostro usato nell’arte calligrafica come pure per rendere più impressionanti al nemico elmi e corazze; colore che distingueva i monaci buddisti, Zen e di altre sette, dal candore dei sacerdoti shintoisti, gli uni familiari con la morte e l’aldilà, gli altri che ne rifuggivano temendone la contaminazione. I colori delle abitazioni erano quelli naturali del legno e delle stuoie. Là dove era necessario attirare l’attenzione, su un evento o un personaggio, si usava l’oro, simbolo di prestigio e di potere, ma soprattutto riflesso e mimesi della luce solare. Ecco quindi i paraventi ricoperti di sottili lamine d’oro, posti alle spalle di un capo, di un oratore, di una coppia di sposi. Ecco i tetti anch’essi rivestiti d’oro della pagoda di Kinkakuji a Kyoto, oggetto di culto estetico per i giapponesi, quel ‘padiglione d’oro’ che Mishima in un suo celebre racconto immagina in fiamme.
I colori più specificamente giapponesi sono ancora altri, specie l’indaco e il ‘murasaki’; quest’ultimo viene convenzionalmente tradotto nelle lingue occidentali con ‘porpora’, ma a chi scrive la tonalità di ciò che i giapponesi denominano in quel modoappare piuttosto bruno-violaceo. Non è che un caso della sempre incerta e inevitabilmente arbitraria sovrapposizione tra denominazioni in sistemi linguistici diversi, che fanno riferimento a particolari scomposizioni nell’adottare quella discontinuità a cui si faceva riferimento.
Le stoffe di cotone e di canapa usate principalmente per gli abiti venivano immerse, per renderle più resistenti -ma anche più attraenti, con l’introduzione di motivi decorativi geometrici- in una tintura vegetale, che assumeva toni più o meno intensi a seconda dei tempi di immersione e dei modi del trattamento. Il colore indaco così ottenuto ha formato per secoli una sorta di ‘basso continuo’, un tono uniforme, caratterizzante soprattutto il mondo popolare rurale e urbano: il trattamento era poco costoso e non richiedeva tecniche complesse. Oggi, è un colore che evoca nostalgicemente il buon tempo passato. Murasaki era, invece, un colore elegante, ombroso, indefinibile, aristocratico.
Le splendide sete dei kimono che noi ammiriamo nelle immagini del passato e nelle versioni moderne ci appaiono poi un’esplosione di rossi e di altri colori vivacissimi. Non tutti sanno che le sete da kimono originariamente erano ‘écru’, e che il colore nelle sete fu introdotto per venire incontro ai gusti dei primi mercanti olandesi: splendido esempio di ‘invenzione’ dell’esotismo e, al tempo stesso, esempio di un’altra delle mille operazioni di adozione interculturale esercitate dai giapponesi nel corso della loro storia . L’austerità, per l’aristocrazia, e la povertà, per le classi popolari, imponevano stili di vita dai toni e dai colori smorzati, poco illuminati nelle ore notturne dalle lampade rivestite di carta, qualcosa che trasmetteva un sentimento di intimità assai caro agli uomini e alle donne d’allora.
I giovani giapponesi rifuggono da tutto questo, aborriscono l’ombra. A Shinjuku e a Shibuya, più che in qualsiasi metropoli occidentale, la notte è illuminata da mille luci e da cento colori, tutti forti e brillanti, tutti pulsanti e mobili. L’eterna lotta tra la vita e la morte è giocata simbolicamente tra la luce e l’ombra di una notte che non viene più, nel mondo degli uomini.
Quanto al pinku, il suo primo significato sembra quello di essere un colore senza passato, senza una sua collocazione nella storia e nella cultura giapponesi, e perciò privo di una sua denominazione nella lingua locale. Dal punto di vista occidentale, l’interpretazione è semplice, per non dire semplicistica: è un altro dei modi con cui si vuole imitare l’Occidente, in questo caso cercando di somigliare alle ‘teen-agers’ americane, o meglio a una loro immagine stereotipata. Proprio quest’ultimo punto ci può aiutare a superare un’ analisi troppo impressionistica. Ciò che interessa nel gusto ‘kawaii’, con i suoi colori, è proprio l’icona, l’immagine stereotipata, non la realtà dei giovani d’oggi occidentali e le loro mode. Non vi è nulla di più demodé di questa immagine sdolcinata, tra gli adolescenti occidentali d’oggi, che hanno modelli ben più ‘hard’, a cui corrispondono altri movimenti giovanili giapponesi. Quell’immagine stereotipata adottata dall’esterno viene poi metabolizzata in un discorso culturale interno che da quel tipo di operazioni trae impulso: né più né meno di come oggi i colori sgargianti dei kimono -dove ritroviamo i rami di pesco- siano, per i giapponesi stessi, quanto di più tradizionale e autentico possa esserci, la quintessenza della giapponesità.
Se pinku è la storia dell’adozione di un colore ‘straniero’ e dei suoi significati, il passaggio in senso inverso è uno dei capitoli più interessanti dei rapporti tra Oriente e Occidente. La rappresentazione del ‘mondo fluttuante’, dietro l’influenza buddista del concetto di impermanenza di tutte le cose, produsse in Giappone la corrente pittorica ‘ukiyo-e’, che mirava a trasferire nei dipinti e nelle stampe le mutevoli luci della natura. Giunte in Europa, quelle immagini hanno rivoluzionato, attraverso il filtro degli sguardi dei nostri artisti, il modo di vedere di tutti, qualcosa che non è confinabile, come spesso si fa, in un episodio della storia dell’arte, al capitolo ‘impressionisti e post-impressionisti’. L’originalità tecnica della pittura ‘ukiyo-e’ consisteva nell’uso di colori piatti accostati (che nelle stampe venivano dati con un tampone, una tecnica che fu chiamata ‘au pochoir’) non mescolati ma eventualmente racchiusi in bordi neri, il ‘cloisonné’. Quella tecnica consentì agli artisti europei di uscire all’aria aperta trovando un modo per rappresentare i mille mutevoli colori della natura: si pensi alle ‘ninfee’ di Monet, o a quanto le sue visioni della cattedrale di Reims alla luce dei diversi momenti della giornata richiamino le ‘trentasei vedute del monte Fuji, di Hokusai.
Oggi, Murakami, con il suo gruppo di artisti, propone un movimento che chiama ‘superflat’ e che egli stesso considera un ‘nuovo giapponismo’, rappresentazione del mondo di oggi, appiattito dalla globalizzazione. Mentre Koji Mizutani (serie ‘Merry’, 2001) presenta il mondo delle coloratissime teen-agers di Harajuku, vetrina dei gusti ma anche espressione di un tipo di ideologia dei nuovi giapponesi metropolitani. Dominano i colori universalmente considerati come infantili, primo fra tutti il pinku, insieme all’azzurro e altre tinte pastello.
Qual è, nel modo di pensare di questi adolescenti, il significato di tali scelte, nell’abbigliamento anzitutto, ma anche nei beni di consumo, nell’arredamento e in una quantità inverosimile di pupazzi e bamboline con cui decorarsi e decorare il proprio habitat metropolitano? Uno stile che viene messo in scena dagli ‘aidoru’ (dall’inglese ‘idol’). La parola-chiave, mille volte ripetuta, è appunto ‘kawaii’. Il suo significato è: grazioso, tenero, delicato, qualcosa che richiama il mondo innocente dell’infanzia e, come diceva Murakami, una rappresentazione favolistica del mondo. Cercare di riprodurre quel mondo fatato, da adolescenti o già giovani adulti, significa prendere una posizione rispetto alla propria condizione di vita nel mondo in cui si sono trovati a crescere, esprimere un desiderio d’identità che è in opposizione, dietro alla delicatezza dei modi in cui si manifesta, rispetto ai modelli che la società ha loro proposto. Tingersi i capelli e adottare mode e modi infantili esprime un rifiuto nei confronti del grigiore impiegatizio, delle uniformi dei doppiopetto maschili e delle tenute da scolaretta.
Il passato, in Giappone, ha il colore della morte atomica, della polvere radioattiva di Hiroshima e Nagasaki, qualcosa che dietro l’apparente amnesia di un mondo frenetico e consumista non si è cancellato nella memoria culturale della nazione. I giovani rifiutano quel passato, non vogliono esserne considerati gli eredi, vanno elaborando i propri stili di vita.
Vorrei avanzare un’interpretazione del significato che possiamo attribuire all’adozione di quel modello kawaii con i suoi colori, e che ci riporta a una storia tutta giapponese. Il rifiuto dei giovani è rivolto a un’etica e a un modello sociale dominati da un’ideologia maschilista: la guerra, la dedizione al lavoro al limite del fanatismo, le gerarchie sociali, nel rispetto di regole ferree, di fronte alle quali i sentimenti individuali devono scomparire. Ma proprio nel mitico tempo dei samurai, quando tutto ciò prese forma, vi fu chi ne diede una rappresentazione grottesca, accentuandone gli eccessi. Okuni, la leggendaria figlia di un sacerdote del tempio di Izumo, iniziò a danzare ‘alla maniera kabuki’, e la sua eredità fu raccolta dal teatro omonimo. Tutte donne, inizialmente, sacerdotesse come Okuni; poi, quando il kabuki divenne il teatro della ricca borghesia cittadina, tutti uomini, anche per i ruoli femminili. Inizialmente una manovra repressiva, per porre freno all’eccessivo successo delle attrici da parte del pubblico, da parte del severo shogunato Tokugawa, che si trasformò in raffinata arte di travestimento e di più o meno ambigue inversioni di ruoli sessuali: dietro il ruolo femminile (‘onna’), l’identità maschile dell’attore doveva restare evidente, ed era questo gioco di parti a dare valore alla recitazione.
L’esempio del kabuki può mostrare, a mio parere, come in Giappone una certa critica sociale abbia preso origine da una critica a ruoli sessuali rigidamente definiti e a un tentativo di appropriarsene, reinterpretandoli. E’ forse questo il messaggio che sta dietro allo stile kawaii e ai suoi colori: una femminilizzazione che, per le ragazze, significa accentuazione di certi stereotipi e per i ragazzi rifiuto di adottare quelli che la società imporrebbe loro, con l’obiettivo comune di opporsi alle regole sociali che si vorrebbero iscritte nell’appartenenza sessuale, e agli stili di vita imposti.
Le narrazioni disegnate dette ‘manga’ (‘immagini spontanee’, come definì i suoi schizzi Hokusai) sono il ‘genere’ considerato più rappresentativo della condizione dei giovani giapponesi e delle loro fantasie. Anche qui ritroviamo quel desiderio di rompere schemi rigidi di separazione tra i generi sessuali. Come scrive un loro attento studioso, Paul Gravett, in alcuni popolari autori di manga “i loro struggenti melodrammi hanno eroi maschili, in realtà caratteri solo maschili, ma sono stati femminizzati, spesso hanno un’apparenza androgina, con lunghi capelli e ciglia” (Their deeply-moving melodramas had male roles, in fact all-male characters, but they were feminized, often androginous-looking with long hairs and eyelashes) (Gravett 2004: 80). E in un’altro sotto—genere, osserva lo stesso autore, quello dei manga per ragazze, i caratteri “perfetti” sono considerati quelli “asessuati”(id.).
Non si tratta, forse, di un’effimera moda giovanile, ma della ricerca di una nuova identità, affermata attraverso una presa di distanza radicale rispetto ai modelli delle generazioni precedenti, così rigidamente imposti dall’etica sociale, e che vengono identificati con le arti marziali e le guerre del passato, e poi con il grigiore e l’anonimato di una vita tutta votata al lavoro: comportamenti e modelli tutti di segno maschilista. Dietro qualcosa che può apparire fatuo e caramelloso può celarsi un messaggio, quasi un manifesto della condizione postmoderna, che rifiuta l’opposizione tra i sessi e come segno di protesta vuole accentuare –non importa quanto consapevolmente- proprio lo stereotipo più disimpegnato del ‘femminile’, per farne la propria bandiera. Chi meglio dei nipoti dei sopravvissuti al bagliore atomico può proporlo?
* Intervento al Seminario Interdisciplinare "Sguardi sui Colori", Università degli Studi di Siena, marzo 2006. Gli Atti del Seminario sono stati pubblicati in "Sguardi sui colori. Arti, Comunicazione, Linguaggi", a cura di Massimo Squillacciotti, 2007, Protagon, Siena.
BIBLIOGRAFIA
Gravett P. 2004 Manga. Sixty years of Japanese Comics, London.
Murakami T. 2002 Catalogo della mostra ‘Superflat’, Fondation Cartier, Parigi.
Tanizaki Libro d’ombra
Non credo ci sia bisogno, nel nostro caso, di scomodare la tanto spesso citata quanto poco documentata ‘ipotesi Sapir-Whorf’, alla quale si attribuisce l’idea che sia la lingua – e cioè siano LE lingue - a modellare i concetti. Il nostro è il classico caso in cui anziché teorie generalizzanti e di ampio respiro è il caso particolare a essere illuminante.
Pinku non è che la parola inglese ‘pink’ pronunciata alla giapponese (un giapponese avrebbe difficoltà a troncare sulla kappa: anche da qui derivano certi problemi nell’apprendere l’inglese) a partire dalla sua scrittura in ‘katakana’, l’alfabeto fonetico utilizzato per traslitterare le parole straniere, composto di segni sillabici che comprendono consonanti e vocali insieme. Cosa ci dice questo? Che prima del contatto con l’Occidente, ben rappresentato da quella contaminazione linguistica, non esisteva un termine per indicare un certo intervallo nella gamma del rosso? No, possiamo ritenere che quello che nella nostra lingua indichiamo come ‘rosa’, venisse indicato in passato in Giappone con ‘momoiro’. Che significa ‘momoiro’? Letteralmente, ‘colore-pesca’, e cioè il colore dei fiori di pesco. Possiamo vedere in molti disegni e stampe e in stoffe per kimono quanto frequenti fossero rami fioriti di pesco, qualcosa che evidentemente, anche se meno dei fiori di ciliegio, era provvisto di speciale apprezzamento estetico e simbolico, indice di delicatezza e di rinnovemento primaverile.
Cosa afferma la fisica ottica? Che vi è una continuità nello spettro della rifrazione luminosa che trasmette ai nostri occhi la percezione di ciò che noi indichiamo come il colore degli oggetti e del mondo intorno a noi. Tale continuità viene generalmente indicata in modo grafico. Ma quando vogliamo introdurre un criterio di classificazione, adottiamo degli attributi linguistici, dei numeri, dei segni, oppure, nel caso dei colori, costruiamo una scala cromatica, anch’essa convenzionale, introduciamo comunque una discontinuità per potere classificare e dare un ordine al mondo e nella percezione che ne abbiamo.
La tonalità cosiddetta ‘rosa’ appare agli occhi dei giapponesi di oggi allo stesso modo che in passato e allo stesso modo che appare a noi. D’altra parte, una rosa è in Giappone altrettanto rosa che in un’altra parte del mondo, e agli occhi dei giapponesi essa appare allo stesso modo che appare a noi. Che bisogno vi è stato di introdurre un nuovo modo per definire quella tonalità, a partire non già da una diversa caratteristica isolabile all’interno della varietà cromatica percepibile, ma adottando un nuovo termine linguistico? Rompendo, in tal modo, una corrispondenza consolidata tra il modo di vedere e il modo di dire ciò che si vede e si pensa di vedere.
Dobbiamo ritenere che il nome del rosa ‘momoiro’ fosse non già un modo per indicare un certo segmento di spettro luminoso nella scala cromatica, bensì piuttosto un attributo culturale di qualcosa -i fiori di pesco-, ai quali corrispondono alcune caratteristiche, nella società che così si esprime. Introducendo il nuovo termine ‘pinku’, i giapponesi non hanno introdotto il rosa nella loro percezione della natura, affinando, per così dire, il loro modo di vederla percettivamente, ma hanno espresso una nuova sensazione nella propria cultura: e l’hanno sottolineato adottando una denominazione straniera.
Come molto intuitivamente ha scritto Harumi Befu, nel Giappone contemporaneo ciò che ha un sapore, una connotazione occidentale è provvisto di uno status superiore, non in quanto straniero, ma in quanto adottato nella sfera pubblica, quell’area ‘tatemae’ espressione della collettività e delle sue regole. L’adozione di stilemi occidentali (così come, in passato, di ciò che veniva dalla Cina, dal sistema di scrittura al confucianesimo e al buddismo) rappresenta quindi al tempo stesso una concessione all’esotismo e una forma di rispetto della società e delle sue regole, nonché dei comportamenti e degli stili di vita connessi, in definitiva degli interessi nazionali; non già un ‘tradimento’ della tradizione, come si potrebbe essere portati a credere. Si concilia in tal modo il fascino esercitato anche in Giappone, a livello individuale, soprattutto tra i giovani, dai modelli culturali occidentali, con il sentimento che l’appropriazione e l’adattamento di quei modelli non si oppongano ai valori della collettività ma anzi ne diventino essi stessi un’espressione.
Il rosa ‘pinku’, non più legato alla natura locale –i fiori di pesco- ma alla cultura straniera, come colore che esprime un mondo infantile e innocente, insieme a altre tonalità cromatiche tenui e brillanti, rappresenta emblematicamente, in modo esteriore - e quindi, provvisto di prestigio in quanto ciò che è esteriore è pubblico e condiviso - l’espressione di una visione che i giovani giapponesi attribuiscono all’Occidente e che ad essi appare efficace come modo per distinguersi da un passato che era, anche, diversamente colorato. Se la reazione che avremo noi occidentali sarà quella di affermare che il nostro mondo non è tutto rosa, non faremo che dare una conferma a quel modo di vedere e cioè di considerare il rosa. Il modo di vedere di cui stiamo parlando, ricordiamolo, non fa riferimento alla percezione così com’è intesa dalla fisica ottica, ma come è costruita culturalmente e che comprende ciò che gli altri considerano spesso degli stereotipi: e gli esotismi, dall’una e dall’altra parte, appartengono a questa categoria.
Quali erano, piuttosto, i colori dominanti del passato, in Giappone? Un’indicazione possiamo averla leggendo l’elogio che fa dell’ombra Tanizaki in un suo racconto. Il lato ombroso di un luogo, così come quello della vita, vi si dice, è misterioso e affascinante finché non siamo in grado di afferrarne le forme, di distinguerne i contorni, di riconoscerne le caratteristiche, in una parola di appropriarcene con lucidità intellettuale, lasciando che i sensi siano al tempo stesso ingannati e stimolati. E’ un mondo in cui i colori sono oscuri, sfumati, evanescenti, trasmettono una sensazione di umido e di instabile, mutevole a ogni vibrare della natura vegetale, dell’aria, della terra.
Guardando al passato remoto, troviamo quello stile di vita aristocratico, dominato al tempo stesso da valori militari e spirituali, che la riforma Meiji impose all’interno e all’esterno come la versione ortodossa della propria identità culturale, quella dei samurai, dello Zen e delle arti marziali, che tanto ha affascinato l’Occidente. Un mondo di uomini, monaci, aristocratici e guerrieri che rivestivano le loro donne di kimono coloratissimi perché somigliassero a dei fiori, ma riservavano per sé e il proprio ambiente i colori più austeri. Il nero anzitutto, colore dell’inchiostro usato nell’arte calligrafica come pure per rendere più impressionanti al nemico elmi e corazze; colore che distingueva i monaci buddisti, Zen e di altre sette, dal candore dei sacerdoti shintoisti, gli uni familiari con la morte e l’aldilà, gli altri che ne rifuggivano temendone la contaminazione. I colori delle abitazioni erano quelli naturali del legno e delle stuoie. Là dove era necessario attirare l’attenzione, su un evento o un personaggio, si usava l’oro, simbolo di prestigio e di potere, ma soprattutto riflesso e mimesi della luce solare. Ecco quindi i paraventi ricoperti di sottili lamine d’oro, posti alle spalle di un capo, di un oratore, di una coppia di sposi. Ecco i tetti anch’essi rivestiti d’oro della pagoda di Kinkakuji a Kyoto, oggetto di culto estetico per i giapponesi, quel ‘padiglione d’oro’ che Mishima in un suo celebre racconto immagina in fiamme.
I colori più specificamente giapponesi sono ancora altri, specie l’indaco e il ‘murasaki’; quest’ultimo viene convenzionalmente tradotto nelle lingue occidentali con ‘porpora’, ma a chi scrive la tonalità di ciò che i giapponesi denominano in quel modoappare piuttosto bruno-violaceo. Non è che un caso della sempre incerta e inevitabilmente arbitraria sovrapposizione tra denominazioni in sistemi linguistici diversi, che fanno riferimento a particolari scomposizioni nell’adottare quella discontinuità a cui si faceva riferimento.
Le stoffe di cotone e di canapa usate principalmente per gli abiti venivano immerse, per renderle più resistenti -ma anche più attraenti, con l’introduzione di motivi decorativi geometrici- in una tintura vegetale, che assumeva toni più o meno intensi a seconda dei tempi di immersione e dei modi del trattamento. Il colore indaco così ottenuto ha formato per secoli una sorta di ‘basso continuo’, un tono uniforme, caratterizzante soprattutto il mondo popolare rurale e urbano: il trattamento era poco costoso e non richiedeva tecniche complesse. Oggi, è un colore che evoca nostalgicemente il buon tempo passato. Murasaki era, invece, un colore elegante, ombroso, indefinibile, aristocratico.
Le splendide sete dei kimono che noi ammiriamo nelle immagini del passato e nelle versioni moderne ci appaiono poi un’esplosione di rossi e di altri colori vivacissimi. Non tutti sanno che le sete da kimono originariamente erano ‘écru’, e che il colore nelle sete fu introdotto per venire incontro ai gusti dei primi mercanti olandesi: splendido esempio di ‘invenzione’ dell’esotismo e, al tempo stesso, esempio di un’altra delle mille operazioni di adozione interculturale esercitate dai giapponesi nel corso della loro storia . L’austerità, per l’aristocrazia, e la povertà, per le classi popolari, imponevano stili di vita dai toni e dai colori smorzati, poco illuminati nelle ore notturne dalle lampade rivestite di carta, qualcosa che trasmetteva un sentimento di intimità assai caro agli uomini e alle donne d’allora.
I giovani giapponesi rifuggono da tutto questo, aborriscono l’ombra. A Shinjuku e a Shibuya, più che in qualsiasi metropoli occidentale, la notte è illuminata da mille luci e da cento colori, tutti forti e brillanti, tutti pulsanti e mobili. L’eterna lotta tra la vita e la morte è giocata simbolicamente tra la luce e l’ombra di una notte che non viene più, nel mondo degli uomini.
Quanto al pinku, il suo primo significato sembra quello di essere un colore senza passato, senza una sua collocazione nella storia e nella cultura giapponesi, e perciò privo di una sua denominazione nella lingua locale. Dal punto di vista occidentale, l’interpretazione è semplice, per non dire semplicistica: è un altro dei modi con cui si vuole imitare l’Occidente, in questo caso cercando di somigliare alle ‘teen-agers’ americane, o meglio a una loro immagine stereotipata. Proprio quest’ultimo punto ci può aiutare a superare un’ analisi troppo impressionistica. Ciò che interessa nel gusto ‘kawaii’, con i suoi colori, è proprio l’icona, l’immagine stereotipata, non la realtà dei giovani d’oggi occidentali e le loro mode. Non vi è nulla di più demodé di questa immagine sdolcinata, tra gli adolescenti occidentali d’oggi, che hanno modelli ben più ‘hard’, a cui corrispondono altri movimenti giovanili giapponesi. Quell’immagine stereotipata adottata dall’esterno viene poi metabolizzata in un discorso culturale interno che da quel tipo di operazioni trae impulso: né più né meno di come oggi i colori sgargianti dei kimono -dove ritroviamo i rami di pesco- siano, per i giapponesi stessi, quanto di più tradizionale e autentico possa esserci, la quintessenza della giapponesità.
Se pinku è la storia dell’adozione di un colore ‘straniero’ e dei suoi significati, il passaggio in senso inverso è uno dei capitoli più interessanti dei rapporti tra Oriente e Occidente. La rappresentazione del ‘mondo fluttuante’, dietro l’influenza buddista del concetto di impermanenza di tutte le cose, produsse in Giappone la corrente pittorica ‘ukiyo-e’, che mirava a trasferire nei dipinti e nelle stampe le mutevoli luci della natura. Giunte in Europa, quelle immagini hanno rivoluzionato, attraverso il filtro degli sguardi dei nostri artisti, il modo di vedere di tutti, qualcosa che non è confinabile, come spesso si fa, in un episodio della storia dell’arte, al capitolo ‘impressionisti e post-impressionisti’. L’originalità tecnica della pittura ‘ukiyo-e’ consisteva nell’uso di colori piatti accostati (che nelle stampe venivano dati con un tampone, una tecnica che fu chiamata ‘au pochoir’) non mescolati ma eventualmente racchiusi in bordi neri, il ‘cloisonné’. Quella tecnica consentì agli artisti europei di uscire all’aria aperta trovando un modo per rappresentare i mille mutevoli colori della natura: si pensi alle ‘ninfee’ di Monet, o a quanto le sue visioni della cattedrale di Reims alla luce dei diversi momenti della giornata richiamino le ‘trentasei vedute del monte Fuji, di Hokusai.
Oggi, Murakami, con il suo gruppo di artisti, propone un movimento che chiama ‘superflat’ e che egli stesso considera un ‘nuovo giapponismo’, rappresentazione del mondo di oggi, appiattito dalla globalizzazione. Mentre Koji Mizutani (serie ‘Merry’, 2001) presenta il mondo delle coloratissime teen-agers di Harajuku, vetrina dei gusti ma anche espressione di un tipo di ideologia dei nuovi giapponesi metropolitani. Dominano i colori universalmente considerati come infantili, primo fra tutti il pinku, insieme all’azzurro e altre tinte pastello.
Qual è, nel modo di pensare di questi adolescenti, il significato di tali scelte, nell’abbigliamento anzitutto, ma anche nei beni di consumo, nell’arredamento e in una quantità inverosimile di pupazzi e bamboline con cui decorarsi e decorare il proprio habitat metropolitano? Uno stile che viene messo in scena dagli ‘aidoru’ (dall’inglese ‘idol’). La parola-chiave, mille volte ripetuta, è appunto ‘kawaii’. Il suo significato è: grazioso, tenero, delicato, qualcosa che richiama il mondo innocente dell’infanzia e, come diceva Murakami, una rappresentazione favolistica del mondo. Cercare di riprodurre quel mondo fatato, da adolescenti o già giovani adulti, significa prendere una posizione rispetto alla propria condizione di vita nel mondo in cui si sono trovati a crescere, esprimere un desiderio d’identità che è in opposizione, dietro alla delicatezza dei modi in cui si manifesta, rispetto ai modelli che la società ha loro proposto. Tingersi i capelli e adottare mode e modi infantili esprime un rifiuto nei confronti del grigiore impiegatizio, delle uniformi dei doppiopetto maschili e delle tenute da scolaretta.
Il passato, in Giappone, ha il colore della morte atomica, della polvere radioattiva di Hiroshima e Nagasaki, qualcosa che dietro l’apparente amnesia di un mondo frenetico e consumista non si è cancellato nella memoria culturale della nazione. I giovani rifiutano quel passato, non vogliono esserne considerati gli eredi, vanno elaborando i propri stili di vita.
Vorrei avanzare un’interpretazione del significato che possiamo attribuire all’adozione di quel modello kawaii con i suoi colori, e che ci riporta a una storia tutta giapponese. Il rifiuto dei giovani è rivolto a un’etica e a un modello sociale dominati da un’ideologia maschilista: la guerra, la dedizione al lavoro al limite del fanatismo, le gerarchie sociali, nel rispetto di regole ferree, di fronte alle quali i sentimenti individuali devono scomparire. Ma proprio nel mitico tempo dei samurai, quando tutto ciò prese forma, vi fu chi ne diede una rappresentazione grottesca, accentuandone gli eccessi. Okuni, la leggendaria figlia di un sacerdote del tempio di Izumo, iniziò a danzare ‘alla maniera kabuki’, e la sua eredità fu raccolta dal teatro omonimo. Tutte donne, inizialmente, sacerdotesse come Okuni; poi, quando il kabuki divenne il teatro della ricca borghesia cittadina, tutti uomini, anche per i ruoli femminili. Inizialmente una manovra repressiva, per porre freno all’eccessivo successo delle attrici da parte del pubblico, da parte del severo shogunato Tokugawa, che si trasformò in raffinata arte di travestimento e di più o meno ambigue inversioni di ruoli sessuali: dietro il ruolo femminile (‘onna’), l’identità maschile dell’attore doveva restare evidente, ed era questo gioco di parti a dare valore alla recitazione.
L’esempio del kabuki può mostrare, a mio parere, come in Giappone una certa critica sociale abbia preso origine da una critica a ruoli sessuali rigidamente definiti e a un tentativo di appropriarsene, reinterpretandoli. E’ forse questo il messaggio che sta dietro allo stile kawaii e ai suoi colori: una femminilizzazione che, per le ragazze, significa accentuazione di certi stereotipi e per i ragazzi rifiuto di adottare quelli che la società imporrebbe loro, con l’obiettivo comune di opporsi alle regole sociali che si vorrebbero iscritte nell’appartenenza sessuale, e agli stili di vita imposti.
Le narrazioni disegnate dette ‘manga’ (‘immagini spontanee’, come definì i suoi schizzi Hokusai) sono il ‘genere’ considerato più rappresentativo della condizione dei giovani giapponesi e delle loro fantasie. Anche qui ritroviamo quel desiderio di rompere schemi rigidi di separazione tra i generi sessuali. Come scrive un loro attento studioso, Paul Gravett, in alcuni popolari autori di manga “i loro struggenti melodrammi hanno eroi maschili, in realtà caratteri solo maschili, ma sono stati femminizzati, spesso hanno un’apparenza androgina, con lunghi capelli e ciglia” (Their deeply-moving melodramas had male roles, in fact all-male characters, but they were feminized, often androginous-looking with long hairs and eyelashes) (Gravett 2004: 80). E in un’altro sotto—genere, osserva lo stesso autore, quello dei manga per ragazze, i caratteri “perfetti” sono considerati quelli “asessuati”(id.).
Non si tratta, forse, di un’effimera moda giovanile, ma della ricerca di una nuova identità, affermata attraverso una presa di distanza radicale rispetto ai modelli delle generazioni precedenti, così rigidamente imposti dall’etica sociale, e che vengono identificati con le arti marziali e le guerre del passato, e poi con il grigiore e l’anonimato di una vita tutta votata al lavoro: comportamenti e modelli tutti di segno maschilista. Dietro qualcosa che può apparire fatuo e caramelloso può celarsi un messaggio, quasi un manifesto della condizione postmoderna, che rifiuta l’opposizione tra i sessi e come segno di protesta vuole accentuare –non importa quanto consapevolmente- proprio lo stereotipo più disimpegnato del ‘femminile’, per farne la propria bandiera. Chi meglio dei nipoti dei sopravvissuti al bagliore atomico può proporlo?
* Intervento al Seminario Interdisciplinare "Sguardi sui Colori", Università degli Studi di Siena, marzo 2006. Gli Atti del Seminario sono stati pubblicati in "Sguardi sui colori. Arti, Comunicazione, Linguaggi", a cura di Massimo Squillacciotti, 2007, Protagon, Siena.
BIBLIOGRAFIA
Gravett P. 2004 Manga. Sixty years of Japanese Comics, London.
Murakami T. 2002 Catalogo della mostra ‘Superflat’, Fondation Cartier, Parigi.
Tanizaki Libro d’ombra
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