lunedì 9 maggio 2011

Uno sguardo, dentro

Quando, nell’Ottocento, lo sguardo dell’Occidente si spinse a esplorare gli angoli più remoti della Terra e a incontrarne gli abitanti, la fotografia parve il mezzo ideale per riportare a casa ciò che si era visto – o, come si prese a dire con candida presunzione, ‘scoperto’. Quelle lastre impressionate dalla luce, nello spirito positivista dell’epoca, rappresentavano la prova oggettiva di ciò che si era visto: uomini diversi da ‘noi’ fin dall’aspetto esteriore, fieri guerrieri muscolosi dalla scura pelle decorata, donne innocentemente a seno nudo. Così, il ‘buon selvaggio’ si metteva in posa davanti al fotografo-esploratore. Quelle immagini alimentarono la curiosità nei confronti di popolazioni che la teoria evoluzionista battezzò ‘primitive’, cioè una sorta di antenati viventi, una testimonianza di come noi eravamo ‘prima’.
L’Oriente, si sa, esercitò un fascino speciale. Ed ecco la fotografia farsi interprete privilegiata dell’esotismo. Il campione fu Felice Beato, un avventuroso metà veneto metà inglese. Le sue foto diventarono le perfette icone di un Giappone come piaceva pensarlo agli occidentali. Quelle figure stereotipate – i Native types- furono in seguito criticate come espressione di ‘orientalismo’ , o giustificate dalla necessità tecnica di fissare le posture a lungo, per poter impressionare le lastre. Ed è invece proprio l’artificiosità evidente di quei ritratti a interessarci. Essa ci mostra come la fotografia non sia la rappresentazione della realtà ma piuttosto la rappresentazione di una – personale, soggettiva, culturalmente specifica – rappresentazione della realtà. Le posture, in quel caso, sottolineano i messaggi corporali di quella società: la geisha sinuosa, il fiero samurai, le adolescenti timide che voltano le spalle all’occhio indiscreto dell’obbiettivo.

Oggi, viviamo in una società di esasperato visualismo. Siamo immersi in un flusso continuo di comunicazioni e abbiamo passivamente accettato il vecchio mantra che ‘il medium è il messaggio’. Un’altra forma di reificazione dopo quella positivista, non troppo dissimile, in fondo, dalla prima. Il significato – il messaggio – emergerebbe dal solo fatto di essere parte di un medium globale quale è diventato il mondo in cui viviamo, ognuno nel ruolo affidatogli dalla società dello spettacolo, con la propria immagine, con il proprio corpo.
Ma, come insegna Beato, è invece quello scatto a attribuire un significato a un’espressione, a un movimento, a far emergere il messaggio. E il medium, si potrebbe dire, è la mente, la personalità della fotografa o del fotografo: il loro occhio, piuttosto che i pixel o le fibre ottiche.
E così non saranno i corpi rappresentati a interessarci, ma la rappresentazione fatta dal fotografo/a di quelle rappresentazioni espresse nella loro viva esteriorità; meglio ancora, l’interazione tra le une e le altre. Così ad esempio, un tatuaggio o la posizione di un corpo esercitato in una particolare disciplina comunicano già di per sé un messaggio; dal canto suo, la fotografia ha il potere magico non tanto di comunicare, ma al contrario di fissare quel momento vitale e trasformarlo da segno idiografico in segno universale. Che è poi quello che fanno tutte le arti.

Nelle rappresentazioni artistiche così come nell’analisi dei fenomeni socioculturali stiamo assistendo a un rinnovato interesse verso il corpo umano. E la fotografia occupa un posto di rilievo in questa fenomenologia dello sguardo: al tempo stesso operazione emblematica di alterità tra osservatore e osservato, e espressione di un rapporto empatico, di una condizione antropologica condivisa, che la fisicità mostra in tutta la sua evidenza.
Il crollo delle ideologie dominanti fino alla caduta del Muro di Berlino ha avuto tra le conseguenze il rifugio nel concreto, nell’attenzione ai gesti e ai fatti quotidiani, lontana da astrazioni. Un nuovo linguaggio del corpo ha preso forma nel contesto della vita contemporanea, alla ricerca di una riappropriazione della fisicità, di percezioni sensoriali naturali,organiche, della condizione umana; in dialogo e talvolta in reazione alle tecnologie più avanzate che vanno proponendo un mondo parallelo di replicanti, di intelligenze artificiali e robot umanoidi. D’altra parte, il contatto sempre più ravvicinato tra culture remote – altro tratto caratterizzante la contemporaneità - trova una base comune per comunicare nei messaggi trasmessi dal corpo, più immediatamente percepibili di quelli linguistici, nella spesso inconsapevole ricerca di una universalità latente, dietro la specificità delle diverse tradizioni.

BIBLIOGRAFIA
Beato, Antonio e Felice, Catalogo Ikona Photo Gallery, Venezia 1983
Chalfen, R., Snapshot Versions of Life, Bowling Green University Press, Ohio 2008
Csordas, T. J. Embodiment and Experience, Cambridge University Press, Cambridge 1994
Debray R., Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Il Castoro, Milano 1999
McDougall, D. The Corporeal Image: Film, Ethnography and the Senses, Princeton University Press, Princeton 2005
Zannier I., Verso Oriente: fotografie di Antonio e Felice Beato, Alinari, Firenze 1986

Antonio Marazzi, già professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Padova, è stato Chairman della Commission on Visual Anthropology dell’Unione internazionale di antropologia, che ora rappresenta presso il Comitato di scienze umane dell’Unesco

Testo pubblicato in: Padova Aprile Fotografia 11. I territori del corpo

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