lunedì 11 ottobre 2010

LA GRATITUDINE

Voll Verdienst, doch dichterisch wohnet
Der Mensch auf dieser Erde

(F. Hölderlin)

Secondo il dizionario Devoto-Oli, gratitudine è un “sentimento di affettuosa riconoscenza per un beneficio o un favore ricevuto e di sincera completa disponibilità a contraccambiarlo. Si tratta di una definizione pressoché identica a quella di tale “virtù” secondo son Tommaso d’Aquino. Se in mezzo vogliamo metterci un capitoletto intitolato Riconoscenza in quella summa di buoni sentimenti che è il Cuore di De Amicis – una lunga lettera di consigli edificanti del padre al figlio adolescente al fine di suscitare in lui quel moto dell’animo specie nei confronti del maestro -, ne abbiamo abbastanza per sapere cosa intendiamo.
E, dato che siamo stati qui chiamati per trattare di essa come parte di una lunga lista di ‘sentimenti’, sappiamo anche di poter collocare la gratitudine dalla parte dei ‘buoni’, ben lontano dai ‘cattivi’ sentimenti dell’odio e della gelosia.
Tuttavia, sembra esservi un limite implicito nell’opportunità di provare e di manifestare tale sentimento nei confronti di qualcun altro. Dobbiamo infatti chiarire un punto preliminare: a differenza di altri sentimenti della lista che si è deciso di prendere in considerazione, come la gioia e la melanconia, la gratitudine è un modo di sentire relazionale, esiste cioè soltanto nei confronti di qualcun altro, con il quale scatta a causa di ciò un legame. E’ tale vincolo a creare disagio nei confronti di un sentimento che, idealmente, è considerato positivo, ma che nel vissuto quotidiano viene sentito anche come un peso, un obbligo da assolvere, magari liberandosene con una buona azione, una volta per tutte.
Qui sta, forse, il significato della seconda parte di ogni definizione di ‘gratitudine’: la “disponibilità a contraccambiare”, quella che san Tommaso esprime come “manifestazione esterna e ricambio nei fatti”. Segni concreti di gratitudine sono ovunque, intorno a noi, come manifestazioni esteriori del riconoscimento di un obbligo per qualcosa che si è ricevuto e della volontà di ricambiarlo, secondo le proprie possibilità: sono segni che ci vengono spesso dal passato, sotto forma di monumenti e memorie di azioni virtuose, che celebrano la virtù di chi, in quei modi visibili, ha dato prova di aver assolto il proprio debito.
Una virtù. insomma, che ha un suo costo: un costo anzitutto psicologico, di cui gli aspetti materiali e le manifestazioni visibili sarebbero l’espressione simbolica. In questo modo d’intendere, si tratterebbe di qualcosa di indotto dall’esterno, da un gesto o da una manifestazione d’affetto di cui siamo stati l’oggetto: non, quindi, di un sentimento spontaneo, che nasce da noi stessi. Per prendere le distanze da un vincolo di tale sorta, molti affermano talvolta di compiere un’azione a favore di qualcuno, o di esprimergli amicizia, per un puro senso di simpatia e di amore, e non perché sentano di avere, nei confronti di quella persona, un debito di riconoscenza.
Dopo questa breve analisi, vorrei suggerire un’interpretazione che, da una parte, inserisca questo nostro, diffuso modo di sentire –ammesso che l’analisi proposta venga condivisa – nel contesto culturale all’interno del quale anche i nostri sentimenti vengono plasmati e ne vengono suggerite le modalità di espressione; e dall’altra liberi la gratitudine da quella percezione di rappresentare un debito morale, che sembra accompagnare lo slancio incondizionato d’affetto.
L’origine di tale ambivalenza mi pare possa ricercarsi in uno dei capisaldi della cultura cui apparteniamo, che rappresenta una delle linee-guida per la formazione, a partire dall’infanzia, di uomini e donne adulti. Essi vengono considerati maturi quando mostrano di essere individui indipendenti, autosufficienti. Per ottenere ciò, il legame di dipendenza dalle figure genitoriali deve allentarsi fino a cessare, per prepararsi a una condizione adulta autonoma e in seguito a riprodurre, da altra posizione, un legame analogo con i propri figli. La gratitudine nei confronti dei genitori, per le cure e la dedizione ricevute, diventa allora una sopravvivenza, una virtù facoltativa. Ma vi è qualcosa di più profondo, che riguarda il legame psicologico intimo con il proprio padre e la propria madre. Per superare i travagli dell’adolescenza, si ritiene che un individuo debba liberarsi dai legami con gli amati/odiati genitori, che si aggiungono alla consapevolezza del legame biologico, di dovere cioè all’atto sessuale tra di essi il fatto stesso di essere in vita. A ognuno le proprie responsabilità: decidendo di mettere al mondo un figlio, i genitori si assumono il dovere di crescerlo e rispondono delle sue azioni fino a quando raggiunge la maggiore età, quasi che egli non sia che il loro prolungamento naturale. Quanto ai figli, essi non si sentono responsabili del fatto di essere venuti al mondo figli di quei genitori. Tutto quanto hanno ricevuto a partire dalle cure cui devono la loro stessa sopravvivenza, essi non l’hanno chiesto. E’ da ciò che nasce il carattere impositivo della gratitudine che ne consegue: restituzione ideale, sul piano dei sentimenti, dei doni ricevuti, a partire dalla vita stessa.
Vi può essere un altro modo di vedere le cose, a partire da come, all’interno di una cultura, si sia pensato di interpretare il mistero della nascita. Non è tanto essere o meno a conoscenza del meccanismo biologico della riproduzione. Come è noto, testimonianze di antropologi hanno documentato come alcune popolazioni, ancora in epoca contemporanea, ignorassero il rapporto tra atto sessuale e fertilità, o almeno lo considerassero esistente su un piano simbolico, propiziatorio, ma non fisiologico. Era il caso degli abitanti delle isole Trobriand, quando furono studiati da Bronislav Malinowski. Pur non essendo considerato genitore – colui, cioè, che genera – chi si era unito sessualmente alla madre di un bambino ne era considerato il ‘padre’, ruolo che quella società gli riconosceva per quell’atto ritenuto rituale, e che egli esprimeva affettivamente nei confronti del figlio. Quest’ultimo, a sua volta, era grato a quell’adulto che si occupava di lui senza esercitare autorità, non appartenendo al gruppo all’interno del quale egli stava crescendo. Quell’incompleto riconoscimento della funzione del padre si esprimeva infatti a livello sociale , essendo il figlio riconosciuto appartenente al gruppo di parentela della madre ma non di quello del padre. Rispetto a quella figura che si occupava di lui e gli insegnava tante cose utili, il figlio provava gratitudine, mentre l’autorità era esercitata era prerogativa del fratello della madre, l’adulto più vicino a lui all’interno del suo gruppo di parentela.
Non dobbiamo però, dando prova di ingenuità, limitarci a casi come questi, in cui si ha una risposta culturale derivante da una inadeguata conoscenza scientifica. Sapere che i propri padri sono anch’essi genitori, così come le madri, non esaurisce la questione delle cause delle nascite e dei destini che ne derivano. Le interpretazioni sul perché si viene al mondo possono essere molto diverse dalle nostre, presso culture con altra tradizione.Là dove si ritiene che i destini dell’uomo siano retti dalla grande ruota del karma, sarebbero le azioni compiute in una vita precedente a condizionare quella nuova e, fra l’altro, a farci nascere in una certa famiglia piuttosto che in un’altra.
Ospiti passeggeri di quei genitori, in un rapporto che essenzialmente a noi va imputato, ci troviamo alleggeriti da una dipendenza fisica e psicologica da essi. Ecco quindi che in un rapporto privo di aggressività repressa e di conflittualità può scattare un senso di gratitudine del tutto gratuita per quelle persone che, come madre e come padre, si sono occupate di noi permettendoci di realizzare il nostro karma. Sarà una gratitudine che non si esaurirà a una certa età ma alimenterà piuttosto un affetto e un rispetto crescenti col passare degli anni.
Provare gratitudine, e manifestarlo, è inoltre un modo per accumulare karma positivo: è una virtù che non esprime un debito accumulato dalla nascita, ma un atto di pietà filiale. Secondo tale visione, le figure genitoriali non sono un ostacolo al pieno sviluppo della nostra personalità, come mostrano invece molti costrutti culturali occidentali, dal complesso di Edipo al ‘mammismo’.
Sia nel contesto occidentale che nei casi a cui abbiamo accennato, comunque, possiamo dire che la gratitudine si ‘impara’ dalla nascita; prende forma, cioè, nella psicologia infantile come risposta a quel senso di stretta empatia e di dipendenza psicofisica nei confronti di chi assicura la nostra sopravvivenza fin dai primi giorni di vita. Semmai potremmo aggiungere come la diversa interpretazione razionale di questo sentimento mette in risalto che, forse, contrariamente a quanto si crede, non sia l’Occidente il luogo di più accentuato individualismo: considerarsi parte della nostra famiglia per un reciproco destino karmico dà un senso di indipendenza dagli altri, quanto ai propri pensieri e alle nostre azioni , e al senso ultimo della vita; e ciò rende più altruistico, e quindi più meritorio, il senso di gratitudine che deriva dai rapporti con gli altri.
Vi è una cultura orientale, quella giapponese, che ha elaborato una espressione della gratitudine in cui si ha un totale rovesciamento nei modi di sentire il legame che ne deriva. Essa si manifesta in quel modo di sentire che lo psicologo Takeo Doi ha individuato come amae, definito come il piacere de la dipendenza. Si tratta della dipendenza psicologica che si sviluppa insieme a, e a partire da, quella dipendenza fisica che ha il bambino dalla propria madre. Un rapporto quasi esclusivo – la figura del padre, in Giappone, è e deve essere quasi assente – e così gratificante in quella società che si desidera perpetuarlo anche nella vita adulta, trasferendolo ad altre figure dal ruolo influente, come il maestro o il datore di lavoro. Anche se sarà impossibile trovare qualcuno che, come la propria madre, sia capace e desideroso di soddisfare ogni desiderio, i cogliere nell’intimo sogni, dubbi, umori e timori, quello è il rapporto che si cerca di riprodurre nella vita adulta. Un rapporto di gratificante dipendenza, sul modello di quello instauratosi nell’infanzia con la madre. Un modello psicologico che diventa un modello sociale. In Giappone, le madri sono culturalmente incoraggiate a indulgere nella spontanea propensione a viziare i propri figli finché non giungono all’età scolare, ad assecondare ogni loro capriccio; provvederà poi la società stessa, attraverso le sue istituzioni,a impartire una rigida disciplina ai ragazzi, non appena inizieranno a uscrie dall’ambito familiare dominato dalla diade madre-figlio. In quest’ultimo rimarrà un ricordo nostalgico indelebile, e una inestinguibile gratitudine, sempre più rafforzata dal duro impatto con la vita esterna.
Il desiderio di riprodurre quel modello, pur sapendo che sarà impossibile, porta con sé anche una rinnovata disponibilità a provare gratitudine nei confronti di chi si pone in una posizione di benevola protezione, nella vita adulta. E anche qui, la società favorisce tali dinamiche formalizzando le mille forme di rispetto dovute ai superiori e assecondando l’etica confuciana che attribuisce quanto si riceve alla benevolenza altrui più che ai meriti personali. Lungi dal provocare frustrazioni, come vorrebbe una mentalità egocentrica, questa costante riproduzione di un legame di dipendenza provoca un sottile piacere, dato che ricorda - pur senza eguagliarlo – il ‘paradiso perduto’ della gratificante dipendenza dalla madre. Ed è facile allora che la risposta a quella benevolenza di cui si è l’oggetto sia un senso di gratitudine, anch’esso modellato su quello originario infantile.
Quale può essere l’interesse di un’incursione come questa in modi di pensiero altri, al di là della semplice curiosità per qualcosa di esotico? Constatare che altri uomini hanno idee e comportamenti diversi e che ciò non è imputabile a qualche bizzarria ma a consapevoli scelte e convinzioni non significa, come teme qualcuno, appiattire tutto in una visione genericamente relativista, per cui una cosa vale l’altra. Affermare la relatività delle espressioni culturali significa, al contrario, affermare la ricchezza e rinforzare il valore dell’una nel confronto con le molte altre. Ciò si può applicare anche al nostro caso. A taluno, nel nostro ambito culturale, la gratitudine può apparire come una virtù lodevole certo ma un pò infantile, forse anche poco dignitosa, quasi il riconoscimento della sottomissione del beneficiato nei confronti di chi gli ha elargito i suoi favori; il ‘grazie’ di chi, in stato di bisogno, tende la mano.
Non così figura, ad esempio, nel Bushido, il codice dei samurai, espressione di un’etica severa e aristocratica. Il guerriero scelto per difendere una nobile causa è grato a chi l’ha ritenuto degno di assolvere a tale compito, anche se dovesse comportare il sacrificio della propria vita. Quella stessa cultura esprime un senso di gratitudine delicato, struggente e nostalgico, nell’amae. Potremmo considerarli i due poli opposti della gratitudine, virile l’uno e originato da un rapporto femminile l’altro. Ambedue manifestazioni spontanee, segno di generosità d’animo e di dignità personale, pur nel roconoscimento della superiorità gerarchica di chi è oggetto della gratitudine.
Esempi come questo, che ci vengono da società lontane invitano a riflettere sulla nostra elaborazione culturale di questo sentimento e ad interrogarci sul significato da dare al suo apparire nel nostro animo, al suo carattere: è anche, per noi, nobile e disinteressato?
Può essere utile in proposito riflettere sull’esistenza di un concetto, e di un termine linguistico esplicito di riferimento, per indicare il suo opposto: l’ingratitudine, appunto. Non abbiamo bisogno di avere a disposizione una parola per rimproverere a qualcuno, che so, di non essere beato, o gioioso ( sempre per riferirmi a alcuni dei sentimenti considerati in questo simposio). Ma quante volte ricorre, in letteratura e nel linguaggio corrente, l’accusa di ingratitudine! Ciò significa che si dà per implicito che ricorra un do ut des affettivo: ho ricevuto amore e affetto da parte dei genitori, devo allora essere grato, mostrare gratitudine. E così ugualmente nei confronti di chi mi ha fatto dei favori, la società: la patria, si diceva una volta. Si svela allora anche all’interno dei moti d’affetto il carattere di scambio che sembra dominare l’attribuzione di senso e il valore delle azioni umane. E non soltanto per un’estensione del significato mercantilistico attribuito alle cose di questo mondo: anche riguardo all’aldilà il notro comportamento si aspetta di ricevere una ricompensa divina. Non è quindi soltanto in una visione materialistica, ma in un contesto di senso assai più ampio che la gratitudine viene intesa come compenso che ci si attende da parte di chi ha ricevuto qualcosa da noi: pensieri, parole o opere. Altrimenti, si è debitori, si è insolventi, si è ingrati. La gratitudine, intesa in tal senso, non è un atto gratuito.
Il Romanticismo incoraggiò, in una fusione tra arte e vita, lo slancio generoso, altruistico, che non si aspetta altra ricompensa se non quella che deriva dalla consapevolezza di avere saputo elevarsi dalle miserie della quotidianità, nel dialogo con la natura e nell’agire seguendo l’impulso di ideali disinteressati. In questo clima culturale, l’eroe non si aspettava gratitudine per i suoi gesti dall’uomo comune, ma non ne era per questo amareggiato. Era piuttosto all’interno delle piccole virtù borghesi ottocentesche dell’operosità, dei legami familiari e delle vicende patrie, esaltate dal protestantesimo, che si riteneva legittimo aspettarsi un compenso: sotto forma di gratitudine da parte dei figli o della nazione, soddisfazione personale ma anche segno di avere bene operato e di essersi meritati un riconoscimento da parte degli uomini. Poco prima che si affermassero nella cultura europea quelle piccole virtù borghesi, a suggerire una forma estrema di disinteressato sentimento di gratitudine , è stata la voce, sublime ma inascoltata, di Hölderlin. Secondo il poeta tedesco, “ l’uomo si eleva al di sopra della necessità nella misura in cui si ricorda del suo destino e può e vuole essere grato della sua vita”. E’ il dono stesso della vita che vincola l’uomo a esprimere gratitudine. In un suo verso famoso (che abbiamo inserito in originale in testa a questo scritto), Hölderlin precisa: “Pieno di merito ma poeticamente abita/ l’uomo su questa terra”. “Pieno di merito” fa riferimento a quella figura che potremmo chiamare dell’homo faber: l’uomo ha in larga parte plasmato il suo modo di vivere su questa terra e ne è consapevole, meriti (e danni) gliene vanno attribuiti. Ciò che aggiunge Hoölderlin è davvero degno di un poeta, ed è quel “ma poeticamente”: significa, come suggeriscono i suoi esegeti, che vi è qualcosa in più, rappresentato appunto dalla gratitudine per il dono ricevuto della vita, anche se accompagnato dalla nozione drammatica del trascorrere del tempo e quindi del termine di essa.
Eppure, se scendiamo dall’empireo ideale del mondo poetico e, da osservatori dell’uomo, posiamo un occhio forse impietoso sull’uomo Hölderlin, possiamo scorgere nella drammaticità stessa della sua vita la contraddizione insanabile di un modo dualistico di concepire la gratitudine, puro slancio da una parte, ma anche compenso di un credito che il beneficiante si aspetta gli venga riconosciuto; altrimenti, scatta l’arma di accusa di ingratitudine. Simbolicamente, la follia dell’uomo Hölderlin, che passa la seconda metà della sua vita rinchiuso nella torre della casa del falegname di Tübingen, esprime l’ingratitudine che il poeta ha provato da parte del mondo, che non ha riconosciuto la sua grandezza e l’ha fatto oggetto di molte grettezze e ingiustizie. Ma perché mai il mondo, possiamo chiederci lucidamente anche se impietosamente, avrebbe dovuto essergli grato? E perché mai quella stessa gratitudine per aver ricevuto la vita, che egli aveva saputo così bene esprimere, non poteva manifestarsi gratuitamente, senza che il poeta nulla chiedesse al mondo?
Possiamo ritenere che la sua, la nostra cultura non gli abbia fornito i modi adeguati per maturare in sé e manifestare in modo libero e non condizionato quel sentimento, senza cioè nulla aspettarsi dagli altri. Dagli altri mortali almeno, se non dagli dei, veri interlocutori dei poeti.
La follia in cui si rifugiò Hölderlin non è forse altro che una inadeguata risposta agli interrogativi che ci pone la vita per i quali la cultura alla quale apparteniamo ci propone delle soluzioni non da tutti accettate o accettabili.

1 commento:

  1. Ho letto solo oggi, anando su web, quello che scrive sulla gratitudine. C'è molta vicinanza. Soprattutto su Hölderlin. Mentre mi spiace di non averla citata nel libro che sta ormai per uscire, dedicato alla questione (c'è un annuncio su web), sono contento che questa sia un'idea condivisa, che fa sperare in un "prossimo meglio" (nächste Beste). Con stima - Daniele Goldoni

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