lunedì 1 ottobre 2012
Seminario valido per il tirocinio DEA/ACEL. Coordinatore: Glauco Sanga: sanga@unive.it
LABORATORIO DEA
Lunedì 1 ottobre 2012
ore 14.30-16.30
Palazzo Vendramin, I piano, sala A
ANTONIO MARAZZI
(Università di Padova)
terrà una conferenza su:
VERSO UN’EVOLUZIONE ARTIFICIALE?
Abstract
L'uomo
contemporaneo
va
modificando
sempre
più
le
proprie
dotazioni
naturali.
Dalla
nascita
alla
morte,
aumentano
gli
interventi
artificiali
sul
corpo
e
con
essi
la
possibilità
di
manipolare
la
nostra
esistenza.
Contemporaneamente,
si
creano
nuove
forme
di
uomini
artificiali,
i
robot
umanoidi.
Nota
biografica
Antonio
Marazzi
è
stato
professore
ordinario
di
antropologia
culturale
all'Università
di
Padova
e
Chairman
della
Commission
on
Visual
Anthropology
dell'Unione
internazionale
di
scienze
antropologiche,
che
ora
rappresenta
presso
il
Comitato
di
scienze
umane
dell'UNESCO.
Ha
compiuto
ricerche
sul
campo
in
India
e
Giappone.
Principali
pubblicazioni:
Tibetani
in
Svizzera:
analisi
di
una
distanza
culturale
,
Milano,
Angeli,
1975;
Il
potere
latente:
struttura
politica
e
valori
spirituali
tra
i
Tibetani
in
India
,
Milano,
Angeli,
1979;
Mi
rai:
in
Giappone
il
futuro
ha
un
cuore
antico
,
Firenze,
Sansoni,
1990;
La
volpe
di
Inari
e
lo
spirito
giapponese
,
Firenze,
Sansoni,
1990;
Lo
sguardo
antropologico:
processi
educativi
e
multiculturalismo
,
Roma,
Carocci,
1998;
Giapponeserie:
un
antropologo
tra
uomini
e
spiriti
lontani
,
Padova,
Unipress,
2001;
Antropologia
della
visione
,
Roma,
Carocci,
2002;
Antropologia
dei
sensi:
da
Condillac
alle
neuroscienze
,
Roma,
Carocci,
2010;
Uomini,
cyborg
e
robot
umanoidi.
Antropologia
dell’uomo
artificiale
,
Roma
,Carocci,
2012.
XVI EDIZIONE SIEFF
Dalla Rassegna al SIEFF : continuità e rinnovamento
Il Sardinia International Ethnographic Film Festival celebra oggi il suo trentesimo compleanno, inaugurando la sua sedicesima edizione. Proprio come capita a un individuo, le sue doti, promettenti sin dalla nascita, si sono affermate progressivamente mentre raggiungeva l’età adulta e possono essere osservate con soddisfazione oggi da chi ne ha seguito lo sviluppo fin dai primi passi. Il prestigio internazionale che ha saputo conquistarsi è testimoniato, più che dalle parole di elogio, dalle crescenti richieste di partecipazione e dalla qualità dei filmati che ambiscono a essere selezionati.
Non nascondiamoci che la sfida sia stata grande. Chi ha avuto per anni il compito istituzionale di coordinare festival e incontri di antropologia visuale in giro per il mondo può assicurarvi di quanto sia stato più facile attirare attenzione, esperti e pubblico a Parigi piuttosto che a New York, per fare due esempi.
Certe cose non avvengono per caso, e vanno attribuite a chi vi ha investito in questi anni passione, competenza e progettualità, a Paolo Piquereddu con il suo fedele team e al vitale sostegno dei rappresentanti delle istituzioni locali, che ora si trovano riuniti accanto a me in questa celebrazione, ricca di soddisfazioni per tutti.
Dietro ai miglioramenti della sede – l’ampliamento del museo, questa sala di proiezione in cui ci troviamo, le attrezzature tecniche – sta una continuità nella gestione del festival che non ha riscontri altrove, e che è di per sé un importante segno di identità.
Ma uno dei segreti del successo e – lasciatemi dire – del fascino del Festival di Nuoro emerge dai commenti che invariabilmente ascolto dagli ospiti che qui convergono a ogni edizione dalle più diverse parti del mondo : quel senso di condividere una curiosità particolare nelle sue mille mutevoli varianti, di appartenere a una medesima tribu di visualisti. Quel ritrovarsi a tavola dopo le proiezioni, affermati film-makers accanto a studenti spesso ancora incerti del loro futuro percorso, quelle lunghe giornate trascorse insieme, spesso accanto a abitanti di Nuoro o venuti da altre parti della Sardegna (talvolta con le loro famiglie), quei dibattiti spontanei e informali rappresentano per tutti un’esperienza unica nel grande circo dell’antropologia visuale.
Una partecipazione corale di cui si finisce per sentire la mancanza altrove.
Trent’anni dalla prima Rassegna, quella sul pastore e la sua immagine, significano anche trent’anni di antropologia visuale. Significano anche un periodo spesso controverso di rapporti con l’etnologia e l’antropologia culturale e sociale, le discipline di riferimento diretto o indiretto dell’approccio visualista.
Nel 1982 erano passati quasi trent’anni – ventotto per l’esattezza – dalla première di Les Maîtres fous di Jean Rouch al Musée de l’Homme di Parigi. Il maestro Marcel Griaule inferocito, pronto a scaricare il discepolo e a sbarrargli le porte dell’accademia, ambasciatori africani che scatenarono un incidente diplomatico, fino ai rappresentanti delle associazioni animaliste che ottennero la messa al bando del filmato, con il divieto per lungo tempo della sua proiezione in pubblico. E in mezzo a ciò Rouch, come sempre ironico e quasi divertito, deciso a continuare per la sua strada. Una pietra miliare nell’antropologia visuale – anche se nessuno usava quel termine – e uno scandalo nella patria dell’Illuminismo. Tanto rumore per nulla ? Non proprio : quel film metteva a nudo aspetti inquietanti della realtà africana, celata dall’immagine oleografica proposta dal colonialismo, anche intellettuale.
Nove anni prima dell’edizione inaugurale della Rassegna nuorese aveva fatto sensazione la difesa dell’antropologia visuale in una ‘disciplina di parole’ fatta da Margaret Mead in occasione del congresso di Chicago del 1973. La sua autorità accademica, i suoi pionieristici filmati balinesi in collaborazione con Gregory Bateson e la sua personalità carismatica diedero notevole peso a quel suo appello. Ma anche allora le contestazioni, in quel caso provenienti dall’interno stesso della disciplina, non si fecero attendere. Gli strali più pungenti vennero dall’antropologia sociale britannica : si accusò l’uso delle immagini di superficialità, un modo per aggirare il faticoso imperativo categorico della conoscenza delle lingue locali. Dietro alla difesa dell’oralità si celava uno scontro tra la lingua scritta delle monografie etnografiche e le immagini, cui non era riconosciuto uno statuto accademico. Per la Mead, si trattava di sperimentare strumenti metodologici adatti allo studio di culture a distanza e di estese comparazioni invece di ristrette indagini etnografiche.
In Italia era andata esaurendosi già nel decennio precedente la stagione dei cosiddetti documentari demartiniani di cui l’esempio più appresentativo è La taranta di Gianfranco Mingozzi, del 1962. Le indimenticabili registrazioni audio che corredano quel filmato erano dovute all’etnomusicologo Diego Carpitella che in seguito, attratto dalle potenzialità della registrazione di immagini per lo studio dei movimenti del corpo, specie nella danza, propose una versione italiana della cosiddetta ‘scuola di Gottingen’ denominandola ‘cinesica’.
Sono gli anni in cui si apre la Rassegna di Nuoro, le cui prime edizioni furono seguite attivamente da Carpitella, fino alla sua scomparsa. L’iniziale orientamento rigidamente descrittivista dello stile ‘scientifico’ di Gottingen lasciò presto spazio a un interesse più ampio verso le potenzialità di una etnografia visiva orientata alla rappresentazione di fenomeni culturali con più ampio respiro, pur nella specificità dei temi scelti. Furono questi ultimi a imporre una visione più ampia, come avviene in ogni buona ricerca antropologica. Carnevali e altre feste rituali, e poi il rito sociale per eccellenza, quello delle nozze, vennero mostrati nella caleidoscopica varietà delle loro espressioni culturali.
Mano a mano che, con regolare ritmo biennale, si succedevano le varie edizioni, la Rassegna andava mostrando uno stretto e al tempo stesso dialettico rapporto con gli sviluppi dell’antropologia visiva e dell’etnoantropologia in generale.
E’ questo un aspetto che vorrei sottolineare. In proposito, lasciatemi ricordare un aneddoto. Robert Gardner, il celebrato fondatore del Film Study Center di Boston, mostrava per la prima volta a un pubblico selezionato di colleghi, in un cinema di Piccadilly, a Londra, il suo nuovo film Forest of Bliss, girato a Varanasi, sulle rive del Gange. Al termine della proiezione, vi fu un silenzio lungo e imbarazzato. Lo ruppe Timothy Asch, che disse semplicemente : « Bob, ci hai regalato un’opera poetica ». Quel giudizio estemporaneo rimase legato al film, e fu diversamente interpretato : come un raro pregio piuttosto che come un tradimento della vocazione dell’antropologia visiva alla rappresentazione della realtà (opinione, quest’ultima, avanzata con particolare vis polemica da Jay Ruby). Un pò paradossalmente, si trattava in realtà in ambeue i casi di giudizi emotivi. Conoscendo la ricerca etnografica compiuta per la preparazione del film da Akos Ostor, un esperto di India, sapevo che la forma estetica era servita a Gardner per entrare in sintonia con l’estetica spirituale dei riti funerari induisti.
E’ forse questo ciò che intende David MacDougall – il più fedele e intelletualmente generoso tra gli amici del SIEFF - quando parla di « estetica sociale » nelle forme di rappresentazione culturale ; uno stile personale che ritroviamo nel suo indimenticabile saggio visivo sulle trasformazioni sociali in Sardegna, quel Tempus de baristas che fu prodotto dall’ Istituto Etnografico.
Ma torniamo al film di Gardner. L’iniziale divergenza di opinioni continuò per anni ad alimentare, in modo salutare, il dibattito all’interno dei visualisti. La Rassegna di Nuoro non si lasciò sfuggire l’occasione di presentare e premiare il film, confermandosi sempre attenta a ciò che di più significativo avviene nel nostro campo. Dovette però attendere che se ne presentasse l’occasione, alcuni anni dopo, quando il tema prescelto fu L’uomo e il fiume.
Il caso ora presentato può forse chiarire in modo efficace l’opportunità dell’abbandono della formula monotematica nel 2006, in coincidenza con la nuova denominazione in SIEFF (Sardinia International Ethnographic Film Festival).
Questo doppio fatto assume, agli occhi di un antropologo, il significato di un rito di passaggio. Nella sua crescita, la Rassegna non poteva più accontentarsi di raccogliere, di volta in volta, puntualmente ordinati in capitoli secondo gli argomenti, le rappresentazioni della condizione umana. Gli incontri di Nuoro sono andati assumendo un ruolo attivo sulla scena internazionale, di partecipazione alle nuove proposte e di stimolo a innovativi orientamenti, attraverso i dibattiti intorno alle opere presentate, animati da esperti e semplici spettatori, sempre così apprezzati da autori e pubblico ; mentre le segnalazioni operate attraverso l’assegnazione dei premi sono diventate una preziosa conferma per gli autori di essere riusciti a comunicare ciò che intendevano, nel sempre mutevole e disordinato flusso degli eventi umani.
Ho usato deliberatamente l’aggettivo ‘disordinato’ come una sorta di segreta citazione dell’indimenticato maestro di tutti noi, Jean Rouch, che mi disse un giorno quanto aveva apprezzato l’accoglienza ospitale ricevuta qui. Per Rouch, filmare era il modo migliore per cogliere la natura dionisiaca della vita, l’eterno disordine di creazione e distruzione che egli seppe così magistralmente rappresentare nelle danze e nei riti africani a cui partecipava con tutto se stesso, dialogando con la cinepresa con quei ‘maestri di follìa’.
Al riparo dal disordine caotico delle metropoli, Nuoro appare come il luogo ideale per concentrarsi sulle immagini che rappresentano le diverse culture umane nelle loro più varie e spesso problematiche espressioni. Ogni appuntamento qui è una lezione di cui siamo debitori nei confronti degli autori e degli organizzatori, per quella costante attenzione alle nuove tendenze e quel senso di continuo rinnovamento nelle tematiche e negli stili rappresentativi, espressione dell’inesauribile creatività delle culture umane.
Per trovarne conferma, diamo un rapido sguardo alle più recenti edizioni. Nel 2008 fu premiato Losers and Winners, di Michael Loeken e Ulrike Franke, due registi televisivi con una evidente vocazione di ricerca etnografica, accanto a The Third Violin, di Reinhardt Bjorn. Non potevano immaginarsi due soggetti più diversi, due stili più diversi. Nel primo filmato si affrontano alcune delle grandi questioni sociali del nostro tempo- la globalizzazione, la delocalizzazione, la nuova potenza cinese – attraverso un caso emblematico e drammatico : lo smantellamento di una enorme fabbrica, una cockeria nella Ruhr, e i relativi rapporti problematici tra operai tedeschi e cinesi. Il secondo è il ritratto di un estroso e vivace personaggio nel suo chalet di legno, in compagnia del violino che si è costruito e che suona magistralmente, in uno dei luoghi più isolati e tradizionali d’Europa, la Rutenia ucraina.
Un ultimo esempio. L’edizione precedente a questa ha segnalato Demolition, di John Snianiecki, girato in Cina, di cui ha colpito l’originale stile visuale. L’autore è un giovane dottorando del SEL, il Sensory Ethnography Lab dell’Università di Harvard, avamposto nella ricerca di etnografia visiva e dei soundscapes. La rappresentazione multsensoriale è oggi una delle più stimolanti aree di ricerca in antropologia ; rivolgendo la propria attenzione alla corporeità non può non trovare nella rappresentazione visiva il mezzo espressivo e interpretativo ideale. E anche in questo caso, il SIEFF si è dimostrato attento alle più avanzate tendenze, segnalandole tempestivamente.
Ancora una volta, la rappresentazione audiovisiva si conferma nelle nuove opere in possesso di qualità espressive e di stimolo all’osservazione etnografica e alla ricerca uniche, nell’analisi dei fenomeni di interesse socio-antropologico.
Dal canto suo, spesso l’accademia si mostra ancora insensibile alle prospettive dell’antropologia visuale : non dovremme stupircene troppo noi antropologi, che in molti casi abbiamo basato la nostra conoscenza di altre culture principalmente sulla tradizione orale, accolta con altrettanto miope diffidenza da altri settori scientifici. Le nuove generazioni sono meno condizionate da queste chiusure e come possiamo osservare ogni volta con soddisfazione negli appuntamenti di Nuoro aprono gli occhi ad aspetti inediti delle culture umane e entrano in stimolante dialogo con i maestri : quelli che Jean Rouch –includendo idealmente se stesso, credo – chiamò una volta gli antenati totemici dell’antropologia visiva. Una continuità nel rinnovamento che questo anniversario del Festival intende celebrare.
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