UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE, MILANO, Largo Gemelli 1
LUNEDì 25 OTTOBRE 2010 alle ore 15,30
Antropologia dei sensi. I sensi come luogo di confronto scientifico tra la ricerca di una regolarità e il riconoscimento della varietà
Ne discutono: Antonio MARAZZI, autore, ordinario di antropologia, Università di Padova; Anna CASELLA, ricercatore di antropologia, Università Cattolica del Sacro Cuore; Gianni GASPARINI, ordinario di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore; Muganda MUHINDO, dottore di ricerca, Università di Siena; Italo PICCOLI, associato di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore; Giovanna SALVIONI, associato di antropologia, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Introduce: Vincenzo CESAREO
venerdì 22 ottobre 2010
mercoledì 20 ottobre 2010
ANTROPOLOGIA DEI SENSI
È attraverso i sensi che l'uomo entra in contatto con il mondo esterno e con il proprio stesso corpo. Lungi dall'essere un processo meccanico determinato unicamente da leggi fisiche e dalla fisiologia umana, la percezione sensoriale è un laboratorio affidato in larga parte a codici culturali specifici e a esperienze personali inscritte in memorie che l'attività neuronale utilizza per interpretare i messaggi che dai sensi giungono al cervello. Dopo "Antropologia della visione", Marazzi affronta qui un nuovo ambito di analisi della condizione umana.
Editore: Carocci
Data di pubblicazione: 2010
Origine del record: Il copyright dei dati bibliografici e catalografici e delle Immagini fornite è di Informazioni Editoriali I.E. Srl o di chi gliene ha concesso l’autorizzazione. Tutti i diritti sono riservati.
martedì 19 ottobre 2010
CONFERENZA - PRESENTAZIONE LIBRO "ANTROPOLOGIA DEI SENSI"
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Mercoledì 17 novembre ore 14.00-16.00
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"ANTONIO MARAZZI
terrà una conferenza su: SENSI E CULTURA".
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Presso il Dipartimento di Studi Storici
Palazzo Malcanton Marcorà, II piano, in sala grande.
Università Ca’ Foscari di Venezia
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Abstract
L’antropologia ha da tempo abbandonato la prospettiva olistica originaria di studio dell’uomo attraverso l’osservazione della varietà delle popolazioni e delle loro culture, per cogliere da vicino le particolarità e trasmetterle a noi. L’esperienza in tal modo minuziosamente accumulata nel corso di decenni attraverso il contatto diretto con le società vicine o remote alle quali ha rivolto la propria attenzione ha senza dubbio fornito conoscenze preziose di quelle varietà, spesso soggette a rapida trasformazione o addirittura minacciate di sparizione, offrendo contributi di incalcolabile valore alle scienze umane. Lungi dall’essere minacciata anch’essa di sparizione per la crescente omologazione culturale (la fin des voyages di cui parlava già oltre mezzo secolo fa Lévi-Strauss), l’antropologia oggi sembra essere chiamata con urgenza a nuovi compiti, nell’era della globalizzazione. Interrotti i fili di tante tradizioni, il genere umano si trova a dover ripensare il senso delle proprie appartenenze e il modo di comunicare tra di esse. Nuove tecnologie incalzano di continuo, chiamando il corpo e la mente dell’uomo a affrontare le potenzialità offerte da informatica, robotica, bionica e altre espansioni artificiali del nostro essere nel mondo. Contemporaneamente, le neuroscienze vanno disvelando molti misteri del funzionamento del nostro cervello, sollevando al tempo stesso altrettanti interrogativi, ai quali l’antropologia non può sentirsi estranea. Come affrontare queste nuove sfide? Il volume che presentiamo propone di rimanere fedeli all’identità della disciplina, rifuggendo da speculazioni filosofiche così come da ambiti scientifici non di sua competenza, per indagare la fenomenologia delle esperienze osservabili nelle varietà individuali e culturali, a partire dalle comuni dotazioni sensoriali. E’ attraverso i sensi che l’uomo ha conoscenza di sé, degli altri e del mondo intorno. E’ servendosi delle proprie dotazioni sensoriali che l’uomo comunica con gli altri uomini e costruisce, attraverso la varietà delle culture, un proprio universo di senso. E’ espandendo le proprie potenzialità sensoriali che l’uomo di oggi sta inventando il futuro dell’umanità. Nel solco della più tradizionale pratica antropologica, queste riflessioni scaturiscono dalle conoscenze fornite dall’osservazione etnografica, che rivelano come, al di là della comune dotazione fisiologica, le varie culture sappiano adottare specifici strumenti sensoriali di contatto con il mondo per dare un senso alla propria condizione umana.
"Nota biografica"
Rappresentante della IUAES (International Union of Anthropological and Ethnological Sciences) presso il Comité International de Philosophie et Sciences Humaines.////
Già Professore ordinario di Antropologia culturale e Direttore del corso di perfezionamento in antropologia culturale e sociale presso l’Università di Padova. Chairman (1992-2003) della Commission on Visual Anthropology della IUAES. ////
Ha tenuto corsi di Visual Thinking presso la New York University e ha svolto attività di ricerca presso il National Museum of Ethnology di Osaka. Membro fondatore dell’I.S.Mu (Iniziative e studi sulla multietnicità) di Milano. Responsabile di progetti europei sulla multietnicità./////
Ha compiuto ricerche sul campo presso i profughi tibetani in India e Europa, e in Giappone su aspetti tradizionali e contemporanei di quella cultura. Autore di numerose pubblicazioni e di video etnografici./////
Membro dell’Advisory Board del Margaret Mead film and video festival di New York. Membro del comitato scientifico delle riviste Diogène e Visual Anthropology.
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mercoledì 13 ottobre 2010
INTELLECTUAL AND CULTURAL PROPERTY IN ANTHROPOLOGICAL PERSPECTIVE*
Circulation of ideas and artefacts has enormously expanded in recent years, following a worldwide network of communications and exchanges, in which internet – commonly referred to with the symbolically appropriated term of ‘the web’ – plays a major role. There is no longer any place that can be considered isolated from the rest of the world and cannot be reached, via satellite if not by more traditional system of communication. This unprecedented condition of humankind offers unlimited opportunities and at the same time raises equally vast problems.
Before this fundamental change in human destiny, anthropology played the role – at a micro scale – of connecting small, neglected, often ignored societies and marginal groups to the increasingly ‘developed’, ‘modern’ world. The primary role of ethnographic fieldwork and subsequent anthropological analysis has been to build up. through accurate, direct testimonies, an increased knowledge of human diversity. Based on that knowledge was an awareness that this very diversity is a primary, positive value of our species, the sign of our unique adaptability to different ecological and historical conditions.
The time-consuming, scrupulous work of the anthropologist – of transferring and translating social rules and cultural expressions of groups often referred to as ‘exotic’, in terms and meanings more familiar to her/his audience and readers – anticipated, in its own way, intercultural communication, a growing present concern. In a way. That is, predominantly in one way: from the ‘isolated’ to the ‘developed’.
In that direction, anthropologists developed, along with scientific techniques, a moral concern of respect and defence of the delicate matter that was in thei hands, the core of individual and social identity of the group they were studying, and of which they were the self-appointed representatives. Indigenous groups and minorities had little opportunities to check the accuracy of the anthropologists’ narratives, if only due to the linguistic barrier, further complicated by the scientific jargon. To correct this bias, visual anthropologists introduced the habit of returning to the people they had filmed, showing the images and discussing together the accuracy of their representations. This was what Jean Rouch called “anthropologie partagée”, the result being often more a moral relief for the anthropologist than a guarantee for the people represented.
In any case, independently from the support for their representations – be it written, visual or oral -, the underlying question is always: whose story is it? (To borrow an expression used as title for one of his articles by David McDougall, not by chance, like Rouch, also a visual anthropologist and filmmmaker). Are we anthropologists the authors of our narratives, or do we simply expand the knowledge of others’ cultural expressions?
The legitimization of the anthropologist’s work has moved from an initial cultural self-reference , for the sake of our knowledge , to an intercultural mission , to present their point of view. If this is a central concern for anthropologists, the idea in general is not an unfamiliar one. There is a long intellectual tradition and a growing awareness concerning the respect due to cultural differences. In theory, at least, we are all ready to recognize the right of people living in different parts of the world, or coming from there, to follow their credos and ways of life. But the answer to the question we have put before – whose story is it? –is, in fact, more complex than one would expect. In traditional societies, an epic, a ritual, a performance reproduced from one generation to another, a design, material artefacts made following socially established patterns, objects and actions produced and reproduced as codified expressions of religious meanings, aesthetic representations in images, sounds or bodily expressions are all something that the performer, the narrator or the artist does not consider her/his own. Nor does society consider the outcome as an invention, but rather the execution, following certain, sometimes secret rules, of a cultural legacy.
This is what allows us to give to a society the otherwise vague attribute o ‘traditional’. There, cultural expressions central for for reinforcing through time social identities and considered something inherited from the ancestors, the founding fathers or the spirits of another world. They are the authors, the living merely follow the received patterns.
All this seems distant from the present process of globalization and, with it, of intercultural contacts: again, ‘exotic’. But consider an example. In recent years, paintings made by Australian aborigines have entered the art market of the West: mostly made with acrylic colours, often with the ‘dot’ technique. As Fred Myers – an anthropologist that has extensively studied this phenomenon as part of his lifelong research on Central Australian aborigines - explained in a recent article, this is at least partly the curious consequence of the process of assimilation fostered by the Australian government, as a reaction to it, in order to preserve indigenous cultural identity, and partly to the support received by a schoolteacher sympathetic with the Western Desert painting movement.
There is here a complex involvement of different forces: the local artists, the context out of which the artistic movement grew, the local supporters, the all-powerful art market system and its logic of commoditisation of the ‘object’. These paintings are visual representations of what we could call the ‘cultural treasures’ of the aborigines. They are part of a collective patrimony, often intended to be preserved for controlled, sometimes secret, uses and interpretations. Apart for the recognition of the individual artist’s merits and skills – and their consequent right to have a copyright and receive economic compensation for the exchange of the object –, we should answer the previous question by saying that these are their culture’s stories.
In fact, Myers reports the comments of the Pintupi painters: they “always insisted to me that their images ‘are not made up, not made by us. They are from the Dreaming’ “ (Myers 2004:14). For the aborigines, “ the story-song-design complexes of the Dreaming – like the rituals of which they are considered part and like the landscape, which is a further manifestation – are ‘held’ (kanyinu) by various groups of people “ (Myers 2004:5). They are not the autonomous expressions of an individual artist. “Intellectual copyright law may allow compensation for unauthorized use of designs, but – as most supporters of this remedy acknowledge – copyright does not represent fully what is at stake in the problematic circulation of acrylic paintings as cultural artefacts” (Myers 2004:109.
The problem of attribution of authorship and consequent possible rights over images or texts is also raised by Giancarlo Scoditti, an anthropologist that has done intensive fieldwork in the island of Kitawa, Melanesia, focusing on the aesthetic sense of the islanders. “Often, in an oral culture, in order to give force to a certain image [...] its construction is attributed to a superior being, a hero for instance, especially if the image is inserted in texts concerning myths, like the narration of the foundation of a clan or sub-clan, or in poems recited in occasion of a ritual exchange. Once composed, the image is fixed, made sacred. Thenceforth is no longer relevant to detect the name of its author and/or the singer that gave it voice for the first time “ (Scoditti 2003:45) (1). The role of the single artist is recognized as important as that of an interpreter
Scoditti uses the metaphor of a musical performance of a classical symphony in our culture, of a receive “canon”. “It is not relevant to discover who is the canon’s author, but we know that it exists”. (Scoditti 2003:45) (2). Proof of this “hypotesis”, for Scooditti, is “the long series of polychromic tables, kept in various collections of ethnographic museums, that can all be reported to their respective patterns, in turn derived from some fundamental schemes/styles: goragora, nagega, and tadobu”. (Scoditti 2003:46) (3). He contends that “in this case, the author [...] leaves his hand on the polychromic table and to detect his name can be totally irrelevant, because it is already kept in the way he has carved onto the wood the graphic texture. In the same way, the author of a poetic text leaves the mark of his hand in the verbal texture of the work.” (Scoditti 2003:46) (4).
The right over the narration of a myth pass from one generation to another, following the direct line of descent. “The text composed by the First Author, coinciding with the androgynous ancestor founder of the referred clan and sub-clan group, is donated by him to his direct descendants, that were born from him by parthenogenesis :[...] the woman will keep the text in her womb, while to the man is attributed the function to narrate it, and so communicate to the descendants the grounds and reasons for their power [...] At childbirth, the woman donates to her sons, together with life, the vital breath, also the text: in a sort of literary insemination
and an immediate acquisition of the text by the newborns” (Scoditti 2003:67) (5).
From her fieldwork in the same area, the Trobriand islands, Annette Weiner came to similar conclusions for what she called the “inalienable possessions”. “What gives these possessions their fame and power is their authentication through an authority perceived to be outside the present” (Weiner 1992:42).
These are but a few of the many testimonies by ethnologists of local attributions and validations of authorship in traditional, oral societies. As we have seen, this credit is not given to single persons – the narrator, the performer, the artist – since what is at stake is not their personal achievement, but something perceived as coming from “outside the present” and belonging to the whole community. It is through this sense of sharing a unique legacy that what we call cultural identity is built. But we can ask ourselves what or who gives an outsider – the anthropologist – the authorization to play, in a way, th same role of local narrators, to bring to the present the legacy so carefully preserved within well-defined limits of time and space and to diffuse it outside these borders.
From the point of view of the ethics of our discipline, more than from the feeling of contributing to broaden knowledge, I think that this should derive from the intimate acquaintance with local populations through the rite of passage of fieldwork. This is not to go native, but to become a kind of appointed representative, able to play outside a similar role of the local person-in-charge, in a reliable and respectful way, in other languages, in other societies, with their rules. These rules being, for instance, the copyright laws regulating the market of written texts, objects, images and music in our societies.
Nonetheless, we can ask ourselves: who is really the author of Dieu d’eau (Griaule 1948) ? The French ethnologist Marcel Griaule, or the Dogon wise man Ogotemmeli who told him (using an interpreter) the complex cosmology elaborated through ages by his society, in the same way as he himself was instructed before by others of his group? No doubt that Griaule and his descendants had legitimately the copyright of that book: he wrote the text, he put his name on the cover. And correctly in the text he quotes the real name of the person from which he received the narration – the cultural legacy: something that is rarely done in our social sciences, where anonymity, initials and pseudonyms are preferred, due to an ill-placed use of the concept of privacy. Through Ogotemmeli, Griaule became what we have called the appointed representative of Dogon’s cosmology in the Western world, its guardian, relying on the copyright legal system to control the spread of that knowledge outside its proper cultural borders.
The African continent s particularly rich in oral traditions, narratives of myths and local ideologies, and the work of transference done by Griaule is by no means an isolated case. More recently, Jack Goody made accessible to the outside world the monumental myth of the Bagre (Goody 1972) and the scientific endeavour that made this possible is certainly to be entirely attributed to him: at the same time, the myth is the legacy of a culture metaphorically adopted. Or rather, shouldn’t we say that it was Goody that has been adopted by the owners – through spiritual descent – of the myth?
Societies that have a long tradition of writing faced the question of authorial attribution in cases that we may consider having some analogies. But here the crucial moment of the transference from the oral to the written is very far in the past. In any case, no one would consider the amanuenses to be the authors of our most classical, mythical or realistic, narratives. No one challenges the attribution of the Iliades to Homer, nor of the Histories to Herodotus: even if- so the story goes – it all began with a group of people gathered under the shade of a tree to listen to a poet, in the first case, with an audience in an agorà, curious to hear the tales of someone that had been there, in the second.
One could continue, with the Indian Vedas and Upanishads, the Mahabharata and the Ramayana, and their uncountable different versions, in Java and elsewhere. If we follow this line of analysis, we should logically come to the conclusion that we need to enlarge our frame of thought. We would need to embrace something involving many different people in different roles, a content that can go back to a mythical past, an authorial attribution that includes living beings, ancestors and spirits, and beliefs that are at the same time specific to a group and essential for its common identity. All this may seem exotic, eccentric and, in the end, irrelevant. It would indeed be very far from the logic of the market society we live in, the economic and legal rules that regulate our behaviour.
Raising its voice in the name of minorities and indigenous people, anthropology is used to fight a battle in which its arguments are at the same time weak and strong: weak in terms of the ‘real powers’, strong as a crucial defence of precious patrimonies of humankind. But there is a new perspective, of historical momentum. This brings us back to the beginning of our argument, to the world connected through the web of internet and the impulse of globalization.
We begin to be aware that globalization concerns not only markets and political strategies. The fascinating, if bizarre, metaphor used by ecologists of the wings of the butterfly that, through a chain of consequences can be applied to our cultures, if we reverse the image. The powerful storms of our ever-growing and ever-expanding societies can now much more easily than in the past, wipe out the frail espressions of faraway human beings. This, in the end, would negatively affect us all.
Some indigenous groups have shown a strong consciousness that their common cultural patrimony can become a strong argument to raise their often endangered rights, in a wider social arena: Native Americans in the United States (some in particular, like the Navajo or the Lakota) and in Canada, the Maori of New Zealand. Recognition of their cultural properties can avoid two extremes: isolation in an exotic ghetto, or the disappearance of original, often ancient traditions into a national ‘melting pot’ or, now, in a global homogenisation.
Once again, through its experience, anthropology can offer its contribution. Making its typical long turn outside what is familiar to us, it can come back with a new insight, a global one, that can be useful for us, here. Working at a micro scale, focusing on marginality and least known human expressions, anthropological knowledge can offer a test to the possible generalization of some of our own ideas and strtegies, in an increasingly ‘connected’ world. In the specific case we have focused on here, anthropological experience suggests the use of a broader category than that indicated by the term ‘intellectual property – with its reference to an individual quality – and to think more in general of ‘cultural property’. Cultural properties can be considered as belonging to humankind, as universal, and at the same time being specific to individual social groups with their unique characters and histories. Cultural property can be shared, but it has also to be protected and regulated in its circulation and exchange. Concern for the preservation of the cultural patrimony, as expressed in different societies and kept within their often neglected or endangered traditions, has been expressed by the international community, notably the UNESCO, where a Division du Patrimoine Culturel has been established.
Adopting the anthropological meaning of the term culture, now based on a common understanding, the scope of this ‘patrimony’ has been expanded to include not only what has a ‘static’ nature, like books, manuscripts and artistic images, but also what has been called ‘immaterial patrimony’ (Bouchenaky 1999: 4). This is important, both in terms of widening the concept and in terms of the actions to be taken in order to protect its manifestations.
Under the pressure of the world’s interconnectedness, intercultural exchanges and contacts, further steps are now needed. Ideas and values superimposed from outside about what has to be protected, and how – defining rules and categories – could collide with other societies’ perceptions. These perceptions cannot be separated, within a society, from the actual expressions of which they are but a manifestation. The values encapsulated within these material or immaterial elements are part of that “complex whole” (Tylor 1871) that makes a society’s culture. Thus is what gives them a place and a role, and from there comes the wider meaning of the term ‘property’, when we attribute it to a cultural expression.
At the same time, we have also to consider these cultural properties being part of the humankind’s patrimony. This conciousness becomes more acute with the world’s interconnectedness and the recent, enormous increase of what circulates among people of different societies. The idea of cultural property should not mean that no others than the ones that ‘own’ these expressions – having created or inherited them . can have access to them. But more and more often local groups or individuals see that outsiders take advantage – in terms of money and prestige – from the selling and circulation of original goods and their copies to other cultural expressions, sometimes part of a tourist package. And they ask their share.
Who should set the rules and limits for the access by outsiders to something that usually has rules and limits concerning the members of a group – and who should be in charge of that – is an open question. Certainly it is one that is no easy to answer; one that can, and should, be approached from different points of view. Pure, Western-style commoditisation cannot be the answer. Nor is the even more distorted and contradictory adoption of the logic of the market as it is sometimes used in societies equating cultural value with economic value and therefore giving a price to anything, from a religious object to an interview.
Leaving these questions open to analysis in a hopefully intercultural discussion, we can return to the Internet as a fact and a metaphor. Widening enormously the circulation of ideas and human expressions, giving them free access to people the world over, the web stimulates a new approach to the intellectual immaterial property, to be considered today as a world’s common cultural patrimony, a vital bond for the destiny of humanity.
Notes.
1. Translation mine. Original text (Italian): “ Spesso in una cultura orale, per dare forza a una data immagine – la cui formulazione ha richiesto la formulazione di più ipotesi e vari tentativi per realizzare la più corretta – se ne attribuisce la costruzione a un essere superiore, per esempio un eroe, soprattutto se l’immagine è racchiusa in testi relativi a miti, come il racconto di fondazione di un clan e subclan, oppure nelle poesie salmodiate per lo scambio rituale. Una volta composta, l’immagine viene irrigidita, sacralizzata, appunto, per cui non è rilevante individuare il nome del suo autore e/o del cantore che l’ha sonorizzata per la prima volta”.
2. Translation mine. Original text (Italian): “[...] non è rilevante scoprire l’autore del canone ma sappiamo che esiste”.
3. Translation mine. Original text (Italian): “La lunga serie di tavole policrome, conservate nelle varie collezioni dei musei etnografici, tutte rapportbili ai loro rispettivi modelli di riferimento, a loro volta derivati da alcuni schemi/stili fondamentali: goragora, nagega e tanobu”.
4. Translation mine. Original text (Italian): “ In questo caso l’autore (foss’anche il semplice incisore che reitera un dato modello progettato da un tokabitamu bougwaœ, maestro-incisore) lascia la sua mano e individuare il suo nome può essere del tutto irrilevante perché ormai è rimasto racchiuso nel modo con cui ha inciso sul legno la tessitura grafica. Anche l’autore di un testo poetico lascia la sua mano nella tessitura verbale dell’opera [...]”.
5. Translation mine. Original text (Italian): “ Il testo del racconto composto dal Primo Autore, che coincide con l’antenata androgina fondatrice del gruppo clanico e subclanico cui si riferisce il testo, viene donato da questi suoi discendenti diretti, ai quali ha dato vita per partenogenesi. Con il nome del segmento di lignaggio e la proprietà della terra l’antenata mitica dona anche il testo del racconto relativo a questi stessi atti fondanti. Lo dona al primo figlio e alla prima figlia, ai primi due distinti di se stesso. Da ora in poi alla donna spetterà la funzione di conservare nel suo ventre il testo del racconto, come all’uomo la funzione di narrarlo per comunicare ai discendenti i fondamenti, le ragioni de loro potere. La donna al momento del aprto dona ai propri figli, oltre che la vita, il soffio vitale, anche il testo del racconto: sarà, questa, una sorta di inseminazione letteraria e una acquisizione immEdiata del testo da parte dei nuovi nati.”
Bibliography.
BOUCHENAKI Mounir 1999 Préface. La culture populaire, in Francesco Lucarelli e Lello Mazzacane (eds) L’UNESCO et la tutelle du patrimoine immatériel. Les Fetes traditionnelles – Les Gigli de Nola, Extra Moenia, Nola.
GOODY, Jack 1972 The Myth of the Bagre, Oxford University Press, Oxford.
GRIAULE, Marcel 1948 Dieu d’eau, entretiens avec Ogotemmeli, Editions du Chene, Paris.
MYERS, Fred 2004 “Ontologies of the image and economies of exchange”, American Ethnologist, Vol. 31, Issue 1, pp. 1-16.
SCODITTI Giancarlo 2003 Kitawa. Il suono e il colore della memoria, Bollati Boringhieri, Torino.
TYLOR, Edward B. 1871 Primitive Culture, Oxford University Press Oxford.
WEINER Annette B. 1992 Inalienable Possessions. The Paradox of Keping-While-Giving, University of California Press, Berkeley, Los Angeles.
* Paper presented at the General Assembly of the CIPSH (Conseil International de la Philosophie et des Sciences Humaines), Beijing 2004.
Before this fundamental change in human destiny, anthropology played the role – at a micro scale – of connecting small, neglected, often ignored societies and marginal groups to the increasingly ‘developed’, ‘modern’ world. The primary role of ethnographic fieldwork and subsequent anthropological analysis has been to build up. through accurate, direct testimonies, an increased knowledge of human diversity. Based on that knowledge was an awareness that this very diversity is a primary, positive value of our species, the sign of our unique adaptability to different ecological and historical conditions.
The time-consuming, scrupulous work of the anthropologist – of transferring and translating social rules and cultural expressions of groups often referred to as ‘exotic’, in terms and meanings more familiar to her/his audience and readers – anticipated, in its own way, intercultural communication, a growing present concern. In a way. That is, predominantly in one way: from the ‘isolated’ to the ‘developed’.
In that direction, anthropologists developed, along with scientific techniques, a moral concern of respect and defence of the delicate matter that was in thei hands, the core of individual and social identity of the group they were studying, and of which they were the self-appointed representatives. Indigenous groups and minorities had little opportunities to check the accuracy of the anthropologists’ narratives, if only due to the linguistic barrier, further complicated by the scientific jargon. To correct this bias, visual anthropologists introduced the habit of returning to the people they had filmed, showing the images and discussing together the accuracy of their representations. This was what Jean Rouch called “anthropologie partagée”, the result being often more a moral relief for the anthropologist than a guarantee for the people represented.
In any case, independently from the support for their representations – be it written, visual or oral -, the underlying question is always: whose story is it? (To borrow an expression used as title for one of his articles by David McDougall, not by chance, like Rouch, also a visual anthropologist and filmmmaker). Are we anthropologists the authors of our narratives, or do we simply expand the knowledge of others’ cultural expressions?
The legitimization of the anthropologist’s work has moved from an initial cultural self-reference , for the sake of our knowledge , to an intercultural mission , to present their point of view. If this is a central concern for anthropologists, the idea in general is not an unfamiliar one. There is a long intellectual tradition and a growing awareness concerning the respect due to cultural differences. In theory, at least, we are all ready to recognize the right of people living in different parts of the world, or coming from there, to follow their credos and ways of life. But the answer to the question we have put before – whose story is it? –is, in fact, more complex than one would expect. In traditional societies, an epic, a ritual, a performance reproduced from one generation to another, a design, material artefacts made following socially established patterns, objects and actions produced and reproduced as codified expressions of religious meanings, aesthetic representations in images, sounds or bodily expressions are all something that the performer, the narrator or the artist does not consider her/his own. Nor does society consider the outcome as an invention, but rather the execution, following certain, sometimes secret rules, of a cultural legacy.
This is what allows us to give to a society the otherwise vague attribute o ‘traditional’. There, cultural expressions central for for reinforcing through time social identities and considered something inherited from the ancestors, the founding fathers or the spirits of another world. They are the authors, the living merely follow the received patterns.
All this seems distant from the present process of globalization and, with it, of intercultural contacts: again, ‘exotic’. But consider an example. In recent years, paintings made by Australian aborigines have entered the art market of the West: mostly made with acrylic colours, often with the ‘dot’ technique. As Fred Myers – an anthropologist that has extensively studied this phenomenon as part of his lifelong research on Central Australian aborigines - explained in a recent article, this is at least partly the curious consequence of the process of assimilation fostered by the Australian government, as a reaction to it, in order to preserve indigenous cultural identity, and partly to the support received by a schoolteacher sympathetic with the Western Desert painting movement.
There is here a complex involvement of different forces: the local artists, the context out of which the artistic movement grew, the local supporters, the all-powerful art market system and its logic of commoditisation of the ‘object’. These paintings are visual representations of what we could call the ‘cultural treasures’ of the aborigines. They are part of a collective patrimony, often intended to be preserved for controlled, sometimes secret, uses and interpretations. Apart for the recognition of the individual artist’s merits and skills – and their consequent right to have a copyright and receive economic compensation for the exchange of the object –, we should answer the previous question by saying that these are their culture’s stories.
In fact, Myers reports the comments of the Pintupi painters: they “always insisted to me that their images ‘are not made up, not made by us. They are from the Dreaming’ “ (Myers 2004:14). For the aborigines, “ the story-song-design complexes of the Dreaming – like the rituals of which they are considered part and like the landscape, which is a further manifestation – are ‘held’ (kanyinu) by various groups of people “ (Myers 2004:5). They are not the autonomous expressions of an individual artist. “Intellectual copyright law may allow compensation for unauthorized use of designs, but – as most supporters of this remedy acknowledge – copyright does not represent fully what is at stake in the problematic circulation of acrylic paintings as cultural artefacts” (Myers 2004:109.
The problem of attribution of authorship and consequent possible rights over images or texts is also raised by Giancarlo Scoditti, an anthropologist that has done intensive fieldwork in the island of Kitawa, Melanesia, focusing on the aesthetic sense of the islanders. “Often, in an oral culture, in order to give force to a certain image [...] its construction is attributed to a superior being, a hero for instance, especially if the image is inserted in texts concerning myths, like the narration of the foundation of a clan or sub-clan, or in poems recited in occasion of a ritual exchange. Once composed, the image is fixed, made sacred. Thenceforth is no longer relevant to detect the name of its author and/or the singer that gave it voice for the first time “ (Scoditti 2003:45) (1). The role of the single artist is recognized as important as that of an interpreter
Scoditti uses the metaphor of a musical performance of a classical symphony in our culture, of a receive “canon”. “It is not relevant to discover who is the canon’s author, but we know that it exists”. (Scoditti 2003:45) (2). Proof of this “hypotesis”, for Scooditti, is “the long series of polychromic tables, kept in various collections of ethnographic museums, that can all be reported to their respective patterns, in turn derived from some fundamental schemes/styles: goragora, nagega, and tadobu”. (Scoditti 2003:46) (3). He contends that “in this case, the author [...] leaves his hand on the polychromic table and to detect his name can be totally irrelevant, because it is already kept in the way he has carved onto the wood the graphic texture. In the same way, the author of a poetic text leaves the mark of his hand in the verbal texture of the work.” (Scoditti 2003:46) (4).
The right over the narration of a myth pass from one generation to another, following the direct line of descent. “The text composed by the First Author, coinciding with the androgynous ancestor founder of the referred clan and sub-clan group, is donated by him to his direct descendants, that were born from him by parthenogenesis :[...] the woman will keep the text in her womb, while to the man is attributed the function to narrate it, and so communicate to the descendants the grounds and reasons for their power [...] At childbirth, the woman donates to her sons, together with life, the vital breath, also the text: in a sort of literary insemination
and an immediate acquisition of the text by the newborns” (Scoditti 2003:67) (5).
From her fieldwork in the same area, the Trobriand islands, Annette Weiner came to similar conclusions for what she called the “inalienable possessions”. “What gives these possessions their fame and power is their authentication through an authority perceived to be outside the present” (Weiner 1992:42).
These are but a few of the many testimonies by ethnologists of local attributions and validations of authorship in traditional, oral societies. As we have seen, this credit is not given to single persons – the narrator, the performer, the artist – since what is at stake is not their personal achievement, but something perceived as coming from “outside the present” and belonging to the whole community. It is through this sense of sharing a unique legacy that what we call cultural identity is built. But we can ask ourselves what or who gives an outsider – the anthropologist – the authorization to play, in a way, th same role of local narrators, to bring to the present the legacy so carefully preserved within well-defined limits of time and space and to diffuse it outside these borders.
From the point of view of the ethics of our discipline, more than from the feeling of contributing to broaden knowledge, I think that this should derive from the intimate acquaintance with local populations through the rite of passage of fieldwork. This is not to go native, but to become a kind of appointed representative, able to play outside a similar role of the local person-in-charge, in a reliable and respectful way, in other languages, in other societies, with their rules. These rules being, for instance, the copyright laws regulating the market of written texts, objects, images and music in our societies.
Nonetheless, we can ask ourselves: who is really the author of Dieu d’eau (Griaule 1948) ? The French ethnologist Marcel Griaule, or the Dogon wise man Ogotemmeli who told him (using an interpreter) the complex cosmology elaborated through ages by his society, in the same way as he himself was instructed before by others of his group? No doubt that Griaule and his descendants had legitimately the copyright of that book: he wrote the text, he put his name on the cover. And correctly in the text he quotes the real name of the person from which he received the narration – the cultural legacy: something that is rarely done in our social sciences, where anonymity, initials and pseudonyms are preferred, due to an ill-placed use of the concept of privacy. Through Ogotemmeli, Griaule became what we have called the appointed representative of Dogon’s cosmology in the Western world, its guardian, relying on the copyright legal system to control the spread of that knowledge outside its proper cultural borders.
The African continent s particularly rich in oral traditions, narratives of myths and local ideologies, and the work of transference done by Griaule is by no means an isolated case. More recently, Jack Goody made accessible to the outside world the monumental myth of the Bagre (Goody 1972) and the scientific endeavour that made this possible is certainly to be entirely attributed to him: at the same time, the myth is the legacy of a culture metaphorically adopted. Or rather, shouldn’t we say that it was Goody that has been adopted by the owners – through spiritual descent – of the myth?
Societies that have a long tradition of writing faced the question of authorial attribution in cases that we may consider having some analogies. But here the crucial moment of the transference from the oral to the written is very far in the past. In any case, no one would consider the amanuenses to be the authors of our most classical, mythical or realistic, narratives. No one challenges the attribution of the Iliades to Homer, nor of the Histories to Herodotus: even if- so the story goes – it all began with a group of people gathered under the shade of a tree to listen to a poet, in the first case, with an audience in an agorà, curious to hear the tales of someone that had been there, in the second.
One could continue, with the Indian Vedas and Upanishads, the Mahabharata and the Ramayana, and their uncountable different versions, in Java and elsewhere. If we follow this line of analysis, we should logically come to the conclusion that we need to enlarge our frame of thought. We would need to embrace something involving many different people in different roles, a content that can go back to a mythical past, an authorial attribution that includes living beings, ancestors and spirits, and beliefs that are at the same time specific to a group and essential for its common identity. All this may seem exotic, eccentric and, in the end, irrelevant. It would indeed be very far from the logic of the market society we live in, the economic and legal rules that regulate our behaviour.
Raising its voice in the name of minorities and indigenous people, anthropology is used to fight a battle in which its arguments are at the same time weak and strong: weak in terms of the ‘real powers’, strong as a crucial defence of precious patrimonies of humankind. But there is a new perspective, of historical momentum. This brings us back to the beginning of our argument, to the world connected through the web of internet and the impulse of globalization.
We begin to be aware that globalization concerns not only markets and political strategies. The fascinating, if bizarre, metaphor used by ecologists of the wings of the butterfly that, through a chain of consequences can be applied to our cultures, if we reverse the image. The powerful storms of our ever-growing and ever-expanding societies can now much more easily than in the past, wipe out the frail espressions of faraway human beings. This, in the end, would negatively affect us all.
Some indigenous groups have shown a strong consciousness that their common cultural patrimony can become a strong argument to raise their often endangered rights, in a wider social arena: Native Americans in the United States (some in particular, like the Navajo or the Lakota) and in Canada, the Maori of New Zealand. Recognition of their cultural properties can avoid two extremes: isolation in an exotic ghetto, or the disappearance of original, often ancient traditions into a national ‘melting pot’ or, now, in a global homogenisation.
Once again, through its experience, anthropology can offer its contribution. Making its typical long turn outside what is familiar to us, it can come back with a new insight, a global one, that can be useful for us, here. Working at a micro scale, focusing on marginality and least known human expressions, anthropological knowledge can offer a test to the possible generalization of some of our own ideas and strtegies, in an increasingly ‘connected’ world. In the specific case we have focused on here, anthropological experience suggests the use of a broader category than that indicated by the term ‘intellectual property – with its reference to an individual quality – and to think more in general of ‘cultural property’. Cultural properties can be considered as belonging to humankind, as universal, and at the same time being specific to individual social groups with their unique characters and histories. Cultural property can be shared, but it has also to be protected and regulated in its circulation and exchange. Concern for the preservation of the cultural patrimony, as expressed in different societies and kept within their often neglected or endangered traditions, has been expressed by the international community, notably the UNESCO, where a Division du Patrimoine Culturel has been established.
Adopting the anthropological meaning of the term culture, now based on a common understanding, the scope of this ‘patrimony’ has been expanded to include not only what has a ‘static’ nature, like books, manuscripts and artistic images, but also what has been called ‘immaterial patrimony’ (Bouchenaky 1999: 4). This is important, both in terms of widening the concept and in terms of the actions to be taken in order to protect its manifestations.
Under the pressure of the world’s interconnectedness, intercultural exchanges and contacts, further steps are now needed. Ideas and values superimposed from outside about what has to be protected, and how – defining rules and categories – could collide with other societies’ perceptions. These perceptions cannot be separated, within a society, from the actual expressions of which they are but a manifestation. The values encapsulated within these material or immaterial elements are part of that “complex whole” (Tylor 1871) that makes a society’s culture. Thus is what gives them a place and a role, and from there comes the wider meaning of the term ‘property’, when we attribute it to a cultural expression.
At the same time, we have also to consider these cultural properties being part of the humankind’s patrimony. This conciousness becomes more acute with the world’s interconnectedness and the recent, enormous increase of what circulates among people of different societies. The idea of cultural property should not mean that no others than the ones that ‘own’ these expressions – having created or inherited them . can have access to them. But more and more often local groups or individuals see that outsiders take advantage – in terms of money and prestige – from the selling and circulation of original goods and their copies to other cultural expressions, sometimes part of a tourist package. And they ask their share.
Who should set the rules and limits for the access by outsiders to something that usually has rules and limits concerning the members of a group – and who should be in charge of that – is an open question. Certainly it is one that is no easy to answer; one that can, and should, be approached from different points of view. Pure, Western-style commoditisation cannot be the answer. Nor is the even more distorted and contradictory adoption of the logic of the market as it is sometimes used in societies equating cultural value with economic value and therefore giving a price to anything, from a religious object to an interview.
Leaving these questions open to analysis in a hopefully intercultural discussion, we can return to the Internet as a fact and a metaphor. Widening enormously the circulation of ideas and human expressions, giving them free access to people the world over, the web stimulates a new approach to the intellectual immaterial property, to be considered today as a world’s common cultural patrimony, a vital bond for the destiny of humanity.
Notes.
1. Translation mine. Original text (Italian): “ Spesso in una cultura orale, per dare forza a una data immagine – la cui formulazione ha richiesto la formulazione di più ipotesi e vari tentativi per realizzare la più corretta – se ne attribuisce la costruzione a un essere superiore, per esempio un eroe, soprattutto se l’immagine è racchiusa in testi relativi a miti, come il racconto di fondazione di un clan e subclan, oppure nelle poesie salmodiate per lo scambio rituale. Una volta composta, l’immagine viene irrigidita, sacralizzata, appunto, per cui non è rilevante individuare il nome del suo autore e/o del cantore che l’ha sonorizzata per la prima volta”.
2. Translation mine. Original text (Italian): “[...] non è rilevante scoprire l’autore del canone ma sappiamo che esiste”.
3. Translation mine. Original text (Italian): “La lunga serie di tavole policrome, conservate nelle varie collezioni dei musei etnografici, tutte rapportbili ai loro rispettivi modelli di riferimento, a loro volta derivati da alcuni schemi/stili fondamentali: goragora, nagega e tanobu”.
4. Translation mine. Original text (Italian): “ In questo caso l’autore (foss’anche il semplice incisore che reitera un dato modello progettato da un tokabitamu bougwaœ, maestro-incisore) lascia la sua mano e individuare il suo nome può essere del tutto irrilevante perché ormai è rimasto racchiuso nel modo con cui ha inciso sul legno la tessitura grafica. Anche l’autore di un testo poetico lascia la sua mano nella tessitura verbale dell’opera [...]”.
5. Translation mine. Original text (Italian): “ Il testo del racconto composto dal Primo Autore, che coincide con l’antenata androgina fondatrice del gruppo clanico e subclanico cui si riferisce il testo, viene donato da questi suoi discendenti diretti, ai quali ha dato vita per partenogenesi. Con il nome del segmento di lignaggio e la proprietà della terra l’antenata mitica dona anche il testo del racconto relativo a questi stessi atti fondanti. Lo dona al primo figlio e alla prima figlia, ai primi due distinti di se stesso. Da ora in poi alla donna spetterà la funzione di conservare nel suo ventre il testo del racconto, come all’uomo la funzione di narrarlo per comunicare ai discendenti i fondamenti, le ragioni de loro potere. La donna al momento del aprto dona ai propri figli, oltre che la vita, il soffio vitale, anche il testo del racconto: sarà, questa, una sorta di inseminazione letteraria e una acquisizione immEdiata del testo da parte dei nuovi nati.”
Bibliography.
BOUCHENAKI Mounir 1999 Préface. La culture populaire, in Francesco Lucarelli e Lello Mazzacane (eds) L’UNESCO et la tutelle du patrimoine immatériel. Les Fetes traditionnelles – Les Gigli de Nola, Extra Moenia, Nola.
GOODY, Jack 1972 The Myth of the Bagre, Oxford University Press, Oxford.
GRIAULE, Marcel 1948 Dieu d’eau, entretiens avec Ogotemmeli, Editions du Chene, Paris.
MYERS, Fred 2004 “Ontologies of the image and economies of exchange”, American Ethnologist, Vol. 31, Issue 1, pp. 1-16.
SCODITTI Giancarlo 2003 Kitawa. Il suono e il colore della memoria, Bollati Boringhieri, Torino.
TYLOR, Edward B. 1871 Primitive Culture, Oxford University Press Oxford.
WEINER Annette B. 1992 Inalienable Possessions. The Paradox of Keping-While-Giving, University of California Press, Berkeley, Los Angeles.
* Paper presented at the General Assembly of the CIPSH (Conseil International de la Philosophie et des Sciences Humaines), Beijing 2004.
martedì 12 ottobre 2010
AN ANTHROPOLOGICAL VIEW OF VISION
In: Diogenes, n. 199, Volume 50, Issue 3, pp.89-98, Sage Publications
UN REGARD ANTHROPOLOGIQUE SUR LA VISION
Article publié sur Diogène n. 199 2002/3
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lunedì 11 ottobre 2010
LA GRATITUDINE
Voll Verdienst, doch dichterisch wohnet
Der Mensch auf dieser Erde
(F. Hölderlin)
Secondo il dizionario Devoto-Oli, gratitudine è un “sentimento di affettuosa riconoscenza per un beneficio o un favore ricevuto e di sincera completa disponibilità a contraccambiarlo. Si tratta di una definizione pressoché identica a quella di tale “virtù” secondo son Tommaso d’Aquino. Se in mezzo vogliamo metterci un capitoletto intitolato Riconoscenza in quella summa di buoni sentimenti che è il Cuore di De Amicis – una lunga lettera di consigli edificanti del padre al figlio adolescente al fine di suscitare in lui quel moto dell’animo specie nei confronti del maestro -, ne abbiamo abbastanza per sapere cosa intendiamo.
E, dato che siamo stati qui chiamati per trattare di essa come parte di una lunga lista di ‘sentimenti’, sappiamo anche di poter collocare la gratitudine dalla parte dei ‘buoni’, ben lontano dai ‘cattivi’ sentimenti dell’odio e della gelosia.
Tuttavia, sembra esservi un limite implicito nell’opportunità di provare e di manifestare tale sentimento nei confronti di qualcun altro. Dobbiamo infatti chiarire un punto preliminare: a differenza di altri sentimenti della lista che si è deciso di prendere in considerazione, come la gioia e la melanconia, la gratitudine è un modo di sentire relazionale, esiste cioè soltanto nei confronti di qualcun altro, con il quale scatta a causa di ciò un legame. E’ tale vincolo a creare disagio nei confronti di un sentimento che, idealmente, è considerato positivo, ma che nel vissuto quotidiano viene sentito anche come un peso, un obbligo da assolvere, magari liberandosene con una buona azione, una volta per tutte.
Qui sta, forse, il significato della seconda parte di ogni definizione di ‘gratitudine’: la “disponibilità a contraccambiare”, quella che san Tommaso esprime come “manifestazione esterna e ricambio nei fatti”. Segni concreti di gratitudine sono ovunque, intorno a noi, come manifestazioni esteriori del riconoscimento di un obbligo per qualcosa che si è ricevuto e della volontà di ricambiarlo, secondo le proprie possibilità: sono segni che ci vengono spesso dal passato, sotto forma di monumenti e memorie di azioni virtuose, che celebrano la virtù di chi, in quei modi visibili, ha dato prova di aver assolto il proprio debito.
Una virtù. insomma, che ha un suo costo: un costo anzitutto psicologico, di cui gli aspetti materiali e le manifestazioni visibili sarebbero l’espressione simbolica. In questo modo d’intendere, si tratterebbe di qualcosa di indotto dall’esterno, da un gesto o da una manifestazione d’affetto di cui siamo stati l’oggetto: non, quindi, di un sentimento spontaneo, che nasce da noi stessi. Per prendere le distanze da un vincolo di tale sorta, molti affermano talvolta di compiere un’azione a favore di qualcuno, o di esprimergli amicizia, per un puro senso di simpatia e di amore, e non perché sentano di avere, nei confronti di quella persona, un debito di riconoscenza.
Dopo questa breve analisi, vorrei suggerire un’interpretazione che, da una parte, inserisca questo nostro, diffuso modo di sentire –ammesso che l’analisi proposta venga condivisa – nel contesto culturale all’interno del quale anche i nostri sentimenti vengono plasmati e ne vengono suggerite le modalità di espressione; e dall’altra liberi la gratitudine da quella percezione di rappresentare un debito morale, che sembra accompagnare lo slancio incondizionato d’affetto.
L’origine di tale ambivalenza mi pare possa ricercarsi in uno dei capisaldi della cultura cui apparteniamo, che rappresenta una delle linee-guida per la formazione, a partire dall’infanzia, di uomini e donne adulti. Essi vengono considerati maturi quando mostrano di essere individui indipendenti, autosufficienti. Per ottenere ciò, il legame di dipendenza dalle figure genitoriali deve allentarsi fino a cessare, per prepararsi a una condizione adulta autonoma e in seguito a riprodurre, da altra posizione, un legame analogo con i propri figli. La gratitudine nei confronti dei genitori, per le cure e la dedizione ricevute, diventa allora una sopravvivenza, una virtù facoltativa. Ma vi è qualcosa di più profondo, che riguarda il legame psicologico intimo con il proprio padre e la propria madre. Per superare i travagli dell’adolescenza, si ritiene che un individuo debba liberarsi dai legami con gli amati/odiati genitori, che si aggiungono alla consapevolezza del legame biologico, di dovere cioè all’atto sessuale tra di essi il fatto stesso di essere in vita. A ognuno le proprie responsabilità: decidendo di mettere al mondo un figlio, i genitori si assumono il dovere di crescerlo e rispondono delle sue azioni fino a quando raggiunge la maggiore età, quasi che egli non sia che il loro prolungamento naturale. Quanto ai figli, essi non si sentono responsabili del fatto di essere venuti al mondo figli di quei genitori. Tutto quanto hanno ricevuto a partire dalle cure cui devono la loro stessa sopravvivenza, essi non l’hanno chiesto. E’ da ciò che nasce il carattere impositivo della gratitudine che ne consegue: restituzione ideale, sul piano dei sentimenti, dei doni ricevuti, a partire dalla vita stessa.
Vi può essere un altro modo di vedere le cose, a partire da come, all’interno di una cultura, si sia pensato di interpretare il mistero della nascita. Non è tanto essere o meno a conoscenza del meccanismo biologico della riproduzione. Come è noto, testimonianze di antropologi hanno documentato come alcune popolazioni, ancora in epoca contemporanea, ignorassero il rapporto tra atto sessuale e fertilità, o almeno lo considerassero esistente su un piano simbolico, propiziatorio, ma non fisiologico. Era il caso degli abitanti delle isole Trobriand, quando furono studiati da Bronislav Malinowski. Pur non essendo considerato genitore – colui, cioè, che genera – chi si era unito sessualmente alla madre di un bambino ne era considerato il ‘padre’, ruolo che quella società gli riconosceva per quell’atto ritenuto rituale, e che egli esprimeva affettivamente nei confronti del figlio. Quest’ultimo, a sua volta, era grato a quell’adulto che si occupava di lui senza esercitare autorità, non appartenendo al gruppo all’interno del quale egli stava crescendo. Quell’incompleto riconoscimento della funzione del padre si esprimeva infatti a livello sociale , essendo il figlio riconosciuto appartenente al gruppo di parentela della madre ma non di quello del padre. Rispetto a quella figura che si occupava di lui e gli insegnava tante cose utili, il figlio provava gratitudine, mentre l’autorità era esercitata era prerogativa del fratello della madre, l’adulto più vicino a lui all’interno del suo gruppo di parentela.
Non dobbiamo però, dando prova di ingenuità, limitarci a casi come questi, in cui si ha una risposta culturale derivante da una inadeguata conoscenza scientifica. Sapere che i propri padri sono anch’essi genitori, così come le madri, non esaurisce la questione delle cause delle nascite e dei destini che ne derivano. Le interpretazioni sul perché si viene al mondo possono essere molto diverse dalle nostre, presso culture con altra tradizione.Là dove si ritiene che i destini dell’uomo siano retti dalla grande ruota del karma, sarebbero le azioni compiute in una vita precedente a condizionare quella nuova e, fra l’altro, a farci nascere in una certa famiglia piuttosto che in un’altra.
Ospiti passeggeri di quei genitori, in un rapporto che essenzialmente a noi va imputato, ci troviamo alleggeriti da una dipendenza fisica e psicologica da essi. Ecco quindi che in un rapporto privo di aggressività repressa e di conflittualità può scattare un senso di gratitudine del tutto gratuita per quelle persone che, come madre e come padre, si sono occupate di noi permettendoci di realizzare il nostro karma. Sarà una gratitudine che non si esaurirà a una certa età ma alimenterà piuttosto un affetto e un rispetto crescenti col passare degli anni.
Provare gratitudine, e manifestarlo, è inoltre un modo per accumulare karma positivo: è una virtù che non esprime un debito accumulato dalla nascita, ma un atto di pietà filiale. Secondo tale visione, le figure genitoriali non sono un ostacolo al pieno sviluppo della nostra personalità, come mostrano invece molti costrutti culturali occidentali, dal complesso di Edipo al ‘mammismo’.
Sia nel contesto occidentale che nei casi a cui abbiamo accennato, comunque, possiamo dire che la gratitudine si ‘impara’ dalla nascita; prende forma, cioè, nella psicologia infantile come risposta a quel senso di stretta empatia e di dipendenza psicofisica nei confronti di chi assicura la nostra sopravvivenza fin dai primi giorni di vita. Semmai potremmo aggiungere come la diversa interpretazione razionale di questo sentimento mette in risalto che, forse, contrariamente a quanto si crede, non sia l’Occidente il luogo di più accentuato individualismo: considerarsi parte della nostra famiglia per un reciproco destino karmico dà un senso di indipendenza dagli altri, quanto ai propri pensieri e alle nostre azioni , e al senso ultimo della vita; e ciò rende più altruistico, e quindi più meritorio, il senso di gratitudine che deriva dai rapporti con gli altri.
Vi è una cultura orientale, quella giapponese, che ha elaborato una espressione della gratitudine in cui si ha un totale rovesciamento nei modi di sentire il legame che ne deriva. Essa si manifesta in quel modo di sentire che lo psicologo Takeo Doi ha individuato come amae, definito come il piacere de la dipendenza. Si tratta della dipendenza psicologica che si sviluppa insieme a, e a partire da, quella dipendenza fisica che ha il bambino dalla propria madre. Un rapporto quasi esclusivo – la figura del padre, in Giappone, è e deve essere quasi assente – e così gratificante in quella società che si desidera perpetuarlo anche nella vita adulta, trasferendolo ad altre figure dal ruolo influente, come il maestro o il datore di lavoro. Anche se sarà impossibile trovare qualcuno che, come la propria madre, sia capace e desideroso di soddisfare ogni desiderio, i cogliere nell’intimo sogni, dubbi, umori e timori, quello è il rapporto che si cerca di riprodurre nella vita adulta. Un rapporto di gratificante dipendenza, sul modello di quello instauratosi nell’infanzia con la madre. Un modello psicologico che diventa un modello sociale. In Giappone, le madri sono culturalmente incoraggiate a indulgere nella spontanea propensione a viziare i propri figli finché non giungono all’età scolare, ad assecondare ogni loro capriccio; provvederà poi la società stessa, attraverso le sue istituzioni,a impartire una rigida disciplina ai ragazzi, non appena inizieranno a uscrie dall’ambito familiare dominato dalla diade madre-figlio. In quest’ultimo rimarrà un ricordo nostalgico indelebile, e una inestinguibile gratitudine, sempre più rafforzata dal duro impatto con la vita esterna.
Il desiderio di riprodurre quel modello, pur sapendo che sarà impossibile, porta con sé anche una rinnovata disponibilità a provare gratitudine nei confronti di chi si pone in una posizione di benevola protezione, nella vita adulta. E anche qui, la società favorisce tali dinamiche formalizzando le mille forme di rispetto dovute ai superiori e assecondando l’etica confuciana che attribuisce quanto si riceve alla benevolenza altrui più che ai meriti personali. Lungi dal provocare frustrazioni, come vorrebbe una mentalità egocentrica, questa costante riproduzione di un legame di dipendenza provoca un sottile piacere, dato che ricorda - pur senza eguagliarlo – il ‘paradiso perduto’ della gratificante dipendenza dalla madre. Ed è facile allora che la risposta a quella benevolenza di cui si è l’oggetto sia un senso di gratitudine, anch’esso modellato su quello originario infantile.
Quale può essere l’interesse di un’incursione come questa in modi di pensiero altri, al di là della semplice curiosità per qualcosa di esotico? Constatare che altri uomini hanno idee e comportamenti diversi e che ciò non è imputabile a qualche bizzarria ma a consapevoli scelte e convinzioni non significa, come teme qualcuno, appiattire tutto in una visione genericamente relativista, per cui una cosa vale l’altra. Affermare la relatività delle espressioni culturali significa, al contrario, affermare la ricchezza e rinforzare il valore dell’una nel confronto con le molte altre. Ciò si può applicare anche al nostro caso. A taluno, nel nostro ambito culturale, la gratitudine può apparire come una virtù lodevole certo ma un pò infantile, forse anche poco dignitosa, quasi il riconoscimento della sottomissione del beneficiato nei confronti di chi gli ha elargito i suoi favori; il ‘grazie’ di chi, in stato di bisogno, tende la mano.
Non così figura, ad esempio, nel Bushido, il codice dei samurai, espressione di un’etica severa e aristocratica. Il guerriero scelto per difendere una nobile causa è grato a chi l’ha ritenuto degno di assolvere a tale compito, anche se dovesse comportare il sacrificio della propria vita. Quella stessa cultura esprime un senso di gratitudine delicato, struggente e nostalgico, nell’amae. Potremmo considerarli i due poli opposti della gratitudine, virile l’uno e originato da un rapporto femminile l’altro. Ambedue manifestazioni spontanee, segno di generosità d’animo e di dignità personale, pur nel roconoscimento della superiorità gerarchica di chi è oggetto della gratitudine.
Esempi come questo, che ci vengono da società lontane invitano a riflettere sulla nostra elaborazione culturale di questo sentimento e ad interrogarci sul significato da dare al suo apparire nel nostro animo, al suo carattere: è anche, per noi, nobile e disinteressato?
Può essere utile in proposito riflettere sull’esistenza di un concetto, e di un termine linguistico esplicito di riferimento, per indicare il suo opposto: l’ingratitudine, appunto. Non abbiamo bisogno di avere a disposizione una parola per rimproverere a qualcuno, che so, di non essere beato, o gioioso ( sempre per riferirmi a alcuni dei sentimenti considerati in questo simposio). Ma quante volte ricorre, in letteratura e nel linguaggio corrente, l’accusa di ingratitudine! Ciò significa che si dà per implicito che ricorra un do ut des affettivo: ho ricevuto amore e affetto da parte dei genitori, devo allora essere grato, mostrare gratitudine. E così ugualmente nei confronti di chi mi ha fatto dei favori, la società: la patria, si diceva una volta. Si svela allora anche all’interno dei moti d’affetto il carattere di scambio che sembra dominare l’attribuzione di senso e il valore delle azioni umane. E non soltanto per un’estensione del significato mercantilistico attribuito alle cose di questo mondo: anche riguardo all’aldilà il notro comportamento si aspetta di ricevere una ricompensa divina. Non è quindi soltanto in una visione materialistica, ma in un contesto di senso assai più ampio che la gratitudine viene intesa come compenso che ci si attende da parte di chi ha ricevuto qualcosa da noi: pensieri, parole o opere. Altrimenti, si è debitori, si è insolventi, si è ingrati. La gratitudine, intesa in tal senso, non è un atto gratuito.
Il Romanticismo incoraggiò, in una fusione tra arte e vita, lo slancio generoso, altruistico, che non si aspetta altra ricompensa se non quella che deriva dalla consapevolezza di avere saputo elevarsi dalle miserie della quotidianità, nel dialogo con la natura e nell’agire seguendo l’impulso di ideali disinteressati. In questo clima culturale, l’eroe non si aspettava gratitudine per i suoi gesti dall’uomo comune, ma non ne era per questo amareggiato. Era piuttosto all’interno delle piccole virtù borghesi ottocentesche dell’operosità, dei legami familiari e delle vicende patrie, esaltate dal protestantesimo, che si riteneva legittimo aspettarsi un compenso: sotto forma di gratitudine da parte dei figli o della nazione, soddisfazione personale ma anche segno di avere bene operato e di essersi meritati un riconoscimento da parte degli uomini. Poco prima che si affermassero nella cultura europea quelle piccole virtù borghesi, a suggerire una forma estrema di disinteressato sentimento di gratitudine , è stata la voce, sublime ma inascoltata, di Hölderlin. Secondo il poeta tedesco, “ l’uomo si eleva al di sopra della necessità nella misura in cui si ricorda del suo destino e può e vuole essere grato della sua vita”. E’ il dono stesso della vita che vincola l’uomo a esprimere gratitudine. In un suo verso famoso (che abbiamo inserito in originale in testa a questo scritto), Hölderlin precisa: “Pieno di merito ma poeticamente abita/ l’uomo su questa terra”. “Pieno di merito” fa riferimento a quella figura che potremmo chiamare dell’homo faber: l’uomo ha in larga parte plasmato il suo modo di vivere su questa terra e ne è consapevole, meriti (e danni) gliene vanno attribuiti. Ciò che aggiunge Hoölderlin è davvero degno di un poeta, ed è quel “ma poeticamente”: significa, come suggeriscono i suoi esegeti, che vi è qualcosa in più, rappresentato appunto dalla gratitudine per il dono ricevuto della vita, anche se accompagnato dalla nozione drammatica del trascorrere del tempo e quindi del termine di essa.
Eppure, se scendiamo dall’empireo ideale del mondo poetico e, da osservatori dell’uomo, posiamo un occhio forse impietoso sull’uomo Hölderlin, possiamo scorgere nella drammaticità stessa della sua vita la contraddizione insanabile di un modo dualistico di concepire la gratitudine, puro slancio da una parte, ma anche compenso di un credito che il beneficiante si aspetta gli venga riconosciuto; altrimenti, scatta l’arma di accusa di ingratitudine. Simbolicamente, la follia dell’uomo Hölderlin, che passa la seconda metà della sua vita rinchiuso nella torre della casa del falegname di Tübingen, esprime l’ingratitudine che il poeta ha provato da parte del mondo, che non ha riconosciuto la sua grandezza e l’ha fatto oggetto di molte grettezze e ingiustizie. Ma perché mai il mondo, possiamo chiederci lucidamente anche se impietosamente, avrebbe dovuto essergli grato? E perché mai quella stessa gratitudine per aver ricevuto la vita, che egli aveva saputo così bene esprimere, non poteva manifestarsi gratuitamente, senza che il poeta nulla chiedesse al mondo?
Possiamo ritenere che la sua, la nostra cultura non gli abbia fornito i modi adeguati per maturare in sé e manifestare in modo libero e non condizionato quel sentimento, senza cioè nulla aspettarsi dagli altri. Dagli altri mortali almeno, se non dagli dei, veri interlocutori dei poeti.
La follia in cui si rifugiò Hölderlin non è forse altro che una inadeguata risposta agli interrogativi che ci pone la vita per i quali la cultura alla quale apparteniamo ci propone delle soluzioni non da tutti accettate o accettabili.
Der Mensch auf dieser Erde
(F. Hölderlin)
Secondo il dizionario Devoto-Oli, gratitudine è un “sentimento di affettuosa riconoscenza per un beneficio o un favore ricevuto e di sincera completa disponibilità a contraccambiarlo. Si tratta di una definizione pressoché identica a quella di tale “virtù” secondo son Tommaso d’Aquino. Se in mezzo vogliamo metterci un capitoletto intitolato Riconoscenza in quella summa di buoni sentimenti che è il Cuore di De Amicis – una lunga lettera di consigli edificanti del padre al figlio adolescente al fine di suscitare in lui quel moto dell’animo specie nei confronti del maestro -, ne abbiamo abbastanza per sapere cosa intendiamo.
E, dato che siamo stati qui chiamati per trattare di essa come parte di una lunga lista di ‘sentimenti’, sappiamo anche di poter collocare la gratitudine dalla parte dei ‘buoni’, ben lontano dai ‘cattivi’ sentimenti dell’odio e della gelosia.
Tuttavia, sembra esservi un limite implicito nell’opportunità di provare e di manifestare tale sentimento nei confronti di qualcun altro. Dobbiamo infatti chiarire un punto preliminare: a differenza di altri sentimenti della lista che si è deciso di prendere in considerazione, come la gioia e la melanconia, la gratitudine è un modo di sentire relazionale, esiste cioè soltanto nei confronti di qualcun altro, con il quale scatta a causa di ciò un legame. E’ tale vincolo a creare disagio nei confronti di un sentimento che, idealmente, è considerato positivo, ma che nel vissuto quotidiano viene sentito anche come un peso, un obbligo da assolvere, magari liberandosene con una buona azione, una volta per tutte.
Qui sta, forse, il significato della seconda parte di ogni definizione di ‘gratitudine’: la “disponibilità a contraccambiare”, quella che san Tommaso esprime come “manifestazione esterna e ricambio nei fatti”. Segni concreti di gratitudine sono ovunque, intorno a noi, come manifestazioni esteriori del riconoscimento di un obbligo per qualcosa che si è ricevuto e della volontà di ricambiarlo, secondo le proprie possibilità: sono segni che ci vengono spesso dal passato, sotto forma di monumenti e memorie di azioni virtuose, che celebrano la virtù di chi, in quei modi visibili, ha dato prova di aver assolto il proprio debito.
Una virtù. insomma, che ha un suo costo: un costo anzitutto psicologico, di cui gli aspetti materiali e le manifestazioni visibili sarebbero l’espressione simbolica. In questo modo d’intendere, si tratterebbe di qualcosa di indotto dall’esterno, da un gesto o da una manifestazione d’affetto di cui siamo stati l’oggetto: non, quindi, di un sentimento spontaneo, che nasce da noi stessi. Per prendere le distanze da un vincolo di tale sorta, molti affermano talvolta di compiere un’azione a favore di qualcuno, o di esprimergli amicizia, per un puro senso di simpatia e di amore, e non perché sentano di avere, nei confronti di quella persona, un debito di riconoscenza.
Dopo questa breve analisi, vorrei suggerire un’interpretazione che, da una parte, inserisca questo nostro, diffuso modo di sentire –ammesso che l’analisi proposta venga condivisa – nel contesto culturale all’interno del quale anche i nostri sentimenti vengono plasmati e ne vengono suggerite le modalità di espressione; e dall’altra liberi la gratitudine da quella percezione di rappresentare un debito morale, che sembra accompagnare lo slancio incondizionato d’affetto.
L’origine di tale ambivalenza mi pare possa ricercarsi in uno dei capisaldi della cultura cui apparteniamo, che rappresenta una delle linee-guida per la formazione, a partire dall’infanzia, di uomini e donne adulti. Essi vengono considerati maturi quando mostrano di essere individui indipendenti, autosufficienti. Per ottenere ciò, il legame di dipendenza dalle figure genitoriali deve allentarsi fino a cessare, per prepararsi a una condizione adulta autonoma e in seguito a riprodurre, da altra posizione, un legame analogo con i propri figli. La gratitudine nei confronti dei genitori, per le cure e la dedizione ricevute, diventa allora una sopravvivenza, una virtù facoltativa. Ma vi è qualcosa di più profondo, che riguarda il legame psicologico intimo con il proprio padre e la propria madre. Per superare i travagli dell’adolescenza, si ritiene che un individuo debba liberarsi dai legami con gli amati/odiati genitori, che si aggiungono alla consapevolezza del legame biologico, di dovere cioè all’atto sessuale tra di essi il fatto stesso di essere in vita. A ognuno le proprie responsabilità: decidendo di mettere al mondo un figlio, i genitori si assumono il dovere di crescerlo e rispondono delle sue azioni fino a quando raggiunge la maggiore età, quasi che egli non sia che il loro prolungamento naturale. Quanto ai figli, essi non si sentono responsabili del fatto di essere venuti al mondo figli di quei genitori. Tutto quanto hanno ricevuto a partire dalle cure cui devono la loro stessa sopravvivenza, essi non l’hanno chiesto. E’ da ciò che nasce il carattere impositivo della gratitudine che ne consegue: restituzione ideale, sul piano dei sentimenti, dei doni ricevuti, a partire dalla vita stessa.
Vi può essere un altro modo di vedere le cose, a partire da come, all’interno di una cultura, si sia pensato di interpretare il mistero della nascita. Non è tanto essere o meno a conoscenza del meccanismo biologico della riproduzione. Come è noto, testimonianze di antropologi hanno documentato come alcune popolazioni, ancora in epoca contemporanea, ignorassero il rapporto tra atto sessuale e fertilità, o almeno lo considerassero esistente su un piano simbolico, propiziatorio, ma non fisiologico. Era il caso degli abitanti delle isole Trobriand, quando furono studiati da Bronislav Malinowski. Pur non essendo considerato genitore – colui, cioè, che genera – chi si era unito sessualmente alla madre di un bambino ne era considerato il ‘padre’, ruolo che quella società gli riconosceva per quell’atto ritenuto rituale, e che egli esprimeva affettivamente nei confronti del figlio. Quest’ultimo, a sua volta, era grato a quell’adulto che si occupava di lui senza esercitare autorità, non appartenendo al gruppo all’interno del quale egli stava crescendo. Quell’incompleto riconoscimento della funzione del padre si esprimeva infatti a livello sociale , essendo il figlio riconosciuto appartenente al gruppo di parentela della madre ma non di quello del padre. Rispetto a quella figura che si occupava di lui e gli insegnava tante cose utili, il figlio provava gratitudine, mentre l’autorità era esercitata era prerogativa del fratello della madre, l’adulto più vicino a lui all’interno del suo gruppo di parentela.
Non dobbiamo però, dando prova di ingenuità, limitarci a casi come questi, in cui si ha una risposta culturale derivante da una inadeguata conoscenza scientifica. Sapere che i propri padri sono anch’essi genitori, così come le madri, non esaurisce la questione delle cause delle nascite e dei destini che ne derivano. Le interpretazioni sul perché si viene al mondo possono essere molto diverse dalle nostre, presso culture con altra tradizione.Là dove si ritiene che i destini dell’uomo siano retti dalla grande ruota del karma, sarebbero le azioni compiute in una vita precedente a condizionare quella nuova e, fra l’altro, a farci nascere in una certa famiglia piuttosto che in un’altra.
Ospiti passeggeri di quei genitori, in un rapporto che essenzialmente a noi va imputato, ci troviamo alleggeriti da una dipendenza fisica e psicologica da essi. Ecco quindi che in un rapporto privo di aggressività repressa e di conflittualità può scattare un senso di gratitudine del tutto gratuita per quelle persone che, come madre e come padre, si sono occupate di noi permettendoci di realizzare il nostro karma. Sarà una gratitudine che non si esaurirà a una certa età ma alimenterà piuttosto un affetto e un rispetto crescenti col passare degli anni.
Provare gratitudine, e manifestarlo, è inoltre un modo per accumulare karma positivo: è una virtù che non esprime un debito accumulato dalla nascita, ma un atto di pietà filiale. Secondo tale visione, le figure genitoriali non sono un ostacolo al pieno sviluppo della nostra personalità, come mostrano invece molti costrutti culturali occidentali, dal complesso di Edipo al ‘mammismo’.
Sia nel contesto occidentale che nei casi a cui abbiamo accennato, comunque, possiamo dire che la gratitudine si ‘impara’ dalla nascita; prende forma, cioè, nella psicologia infantile come risposta a quel senso di stretta empatia e di dipendenza psicofisica nei confronti di chi assicura la nostra sopravvivenza fin dai primi giorni di vita. Semmai potremmo aggiungere come la diversa interpretazione razionale di questo sentimento mette in risalto che, forse, contrariamente a quanto si crede, non sia l’Occidente il luogo di più accentuato individualismo: considerarsi parte della nostra famiglia per un reciproco destino karmico dà un senso di indipendenza dagli altri, quanto ai propri pensieri e alle nostre azioni , e al senso ultimo della vita; e ciò rende più altruistico, e quindi più meritorio, il senso di gratitudine che deriva dai rapporti con gli altri.
Vi è una cultura orientale, quella giapponese, che ha elaborato una espressione della gratitudine in cui si ha un totale rovesciamento nei modi di sentire il legame che ne deriva. Essa si manifesta in quel modo di sentire che lo psicologo Takeo Doi ha individuato come amae, definito come il piacere de la dipendenza. Si tratta della dipendenza psicologica che si sviluppa insieme a, e a partire da, quella dipendenza fisica che ha il bambino dalla propria madre. Un rapporto quasi esclusivo – la figura del padre, in Giappone, è e deve essere quasi assente – e così gratificante in quella società che si desidera perpetuarlo anche nella vita adulta, trasferendolo ad altre figure dal ruolo influente, come il maestro o il datore di lavoro. Anche se sarà impossibile trovare qualcuno che, come la propria madre, sia capace e desideroso di soddisfare ogni desiderio, i cogliere nell’intimo sogni, dubbi, umori e timori, quello è il rapporto che si cerca di riprodurre nella vita adulta. Un rapporto di gratificante dipendenza, sul modello di quello instauratosi nell’infanzia con la madre. Un modello psicologico che diventa un modello sociale. In Giappone, le madri sono culturalmente incoraggiate a indulgere nella spontanea propensione a viziare i propri figli finché non giungono all’età scolare, ad assecondare ogni loro capriccio; provvederà poi la società stessa, attraverso le sue istituzioni,a impartire una rigida disciplina ai ragazzi, non appena inizieranno a uscrie dall’ambito familiare dominato dalla diade madre-figlio. In quest’ultimo rimarrà un ricordo nostalgico indelebile, e una inestinguibile gratitudine, sempre più rafforzata dal duro impatto con la vita esterna.
Il desiderio di riprodurre quel modello, pur sapendo che sarà impossibile, porta con sé anche una rinnovata disponibilità a provare gratitudine nei confronti di chi si pone in una posizione di benevola protezione, nella vita adulta. E anche qui, la società favorisce tali dinamiche formalizzando le mille forme di rispetto dovute ai superiori e assecondando l’etica confuciana che attribuisce quanto si riceve alla benevolenza altrui più che ai meriti personali. Lungi dal provocare frustrazioni, come vorrebbe una mentalità egocentrica, questa costante riproduzione di un legame di dipendenza provoca un sottile piacere, dato che ricorda - pur senza eguagliarlo – il ‘paradiso perduto’ della gratificante dipendenza dalla madre. Ed è facile allora che la risposta a quella benevolenza di cui si è l’oggetto sia un senso di gratitudine, anch’esso modellato su quello originario infantile.
Quale può essere l’interesse di un’incursione come questa in modi di pensiero altri, al di là della semplice curiosità per qualcosa di esotico? Constatare che altri uomini hanno idee e comportamenti diversi e che ciò non è imputabile a qualche bizzarria ma a consapevoli scelte e convinzioni non significa, come teme qualcuno, appiattire tutto in una visione genericamente relativista, per cui una cosa vale l’altra. Affermare la relatività delle espressioni culturali significa, al contrario, affermare la ricchezza e rinforzare il valore dell’una nel confronto con le molte altre. Ciò si può applicare anche al nostro caso. A taluno, nel nostro ambito culturale, la gratitudine può apparire come una virtù lodevole certo ma un pò infantile, forse anche poco dignitosa, quasi il riconoscimento della sottomissione del beneficiato nei confronti di chi gli ha elargito i suoi favori; il ‘grazie’ di chi, in stato di bisogno, tende la mano.
Non così figura, ad esempio, nel Bushido, il codice dei samurai, espressione di un’etica severa e aristocratica. Il guerriero scelto per difendere una nobile causa è grato a chi l’ha ritenuto degno di assolvere a tale compito, anche se dovesse comportare il sacrificio della propria vita. Quella stessa cultura esprime un senso di gratitudine delicato, struggente e nostalgico, nell’amae. Potremmo considerarli i due poli opposti della gratitudine, virile l’uno e originato da un rapporto femminile l’altro. Ambedue manifestazioni spontanee, segno di generosità d’animo e di dignità personale, pur nel roconoscimento della superiorità gerarchica di chi è oggetto della gratitudine.
Esempi come questo, che ci vengono da società lontane invitano a riflettere sulla nostra elaborazione culturale di questo sentimento e ad interrogarci sul significato da dare al suo apparire nel nostro animo, al suo carattere: è anche, per noi, nobile e disinteressato?
Può essere utile in proposito riflettere sull’esistenza di un concetto, e di un termine linguistico esplicito di riferimento, per indicare il suo opposto: l’ingratitudine, appunto. Non abbiamo bisogno di avere a disposizione una parola per rimproverere a qualcuno, che so, di non essere beato, o gioioso ( sempre per riferirmi a alcuni dei sentimenti considerati in questo simposio). Ma quante volte ricorre, in letteratura e nel linguaggio corrente, l’accusa di ingratitudine! Ciò significa che si dà per implicito che ricorra un do ut des affettivo: ho ricevuto amore e affetto da parte dei genitori, devo allora essere grato, mostrare gratitudine. E così ugualmente nei confronti di chi mi ha fatto dei favori, la società: la patria, si diceva una volta. Si svela allora anche all’interno dei moti d’affetto il carattere di scambio che sembra dominare l’attribuzione di senso e il valore delle azioni umane. E non soltanto per un’estensione del significato mercantilistico attribuito alle cose di questo mondo: anche riguardo all’aldilà il notro comportamento si aspetta di ricevere una ricompensa divina. Non è quindi soltanto in una visione materialistica, ma in un contesto di senso assai più ampio che la gratitudine viene intesa come compenso che ci si attende da parte di chi ha ricevuto qualcosa da noi: pensieri, parole o opere. Altrimenti, si è debitori, si è insolventi, si è ingrati. La gratitudine, intesa in tal senso, non è un atto gratuito.
Il Romanticismo incoraggiò, in una fusione tra arte e vita, lo slancio generoso, altruistico, che non si aspetta altra ricompensa se non quella che deriva dalla consapevolezza di avere saputo elevarsi dalle miserie della quotidianità, nel dialogo con la natura e nell’agire seguendo l’impulso di ideali disinteressati. In questo clima culturale, l’eroe non si aspettava gratitudine per i suoi gesti dall’uomo comune, ma non ne era per questo amareggiato. Era piuttosto all’interno delle piccole virtù borghesi ottocentesche dell’operosità, dei legami familiari e delle vicende patrie, esaltate dal protestantesimo, che si riteneva legittimo aspettarsi un compenso: sotto forma di gratitudine da parte dei figli o della nazione, soddisfazione personale ma anche segno di avere bene operato e di essersi meritati un riconoscimento da parte degli uomini. Poco prima che si affermassero nella cultura europea quelle piccole virtù borghesi, a suggerire una forma estrema di disinteressato sentimento di gratitudine , è stata la voce, sublime ma inascoltata, di Hölderlin. Secondo il poeta tedesco, “ l’uomo si eleva al di sopra della necessità nella misura in cui si ricorda del suo destino e può e vuole essere grato della sua vita”. E’ il dono stesso della vita che vincola l’uomo a esprimere gratitudine. In un suo verso famoso (che abbiamo inserito in originale in testa a questo scritto), Hölderlin precisa: “Pieno di merito ma poeticamente abita/ l’uomo su questa terra”. “Pieno di merito” fa riferimento a quella figura che potremmo chiamare dell’homo faber: l’uomo ha in larga parte plasmato il suo modo di vivere su questa terra e ne è consapevole, meriti (e danni) gliene vanno attribuiti. Ciò che aggiunge Hoölderlin è davvero degno di un poeta, ed è quel “ma poeticamente”: significa, come suggeriscono i suoi esegeti, che vi è qualcosa in più, rappresentato appunto dalla gratitudine per il dono ricevuto della vita, anche se accompagnato dalla nozione drammatica del trascorrere del tempo e quindi del termine di essa.
Eppure, se scendiamo dall’empireo ideale del mondo poetico e, da osservatori dell’uomo, posiamo un occhio forse impietoso sull’uomo Hölderlin, possiamo scorgere nella drammaticità stessa della sua vita la contraddizione insanabile di un modo dualistico di concepire la gratitudine, puro slancio da una parte, ma anche compenso di un credito che il beneficiante si aspetta gli venga riconosciuto; altrimenti, scatta l’arma di accusa di ingratitudine. Simbolicamente, la follia dell’uomo Hölderlin, che passa la seconda metà della sua vita rinchiuso nella torre della casa del falegname di Tübingen, esprime l’ingratitudine che il poeta ha provato da parte del mondo, che non ha riconosciuto la sua grandezza e l’ha fatto oggetto di molte grettezze e ingiustizie. Ma perché mai il mondo, possiamo chiederci lucidamente anche se impietosamente, avrebbe dovuto essergli grato? E perché mai quella stessa gratitudine per aver ricevuto la vita, che egli aveva saputo così bene esprimere, non poteva manifestarsi gratuitamente, senza che il poeta nulla chiedesse al mondo?
Possiamo ritenere che la sua, la nostra cultura non gli abbia fornito i modi adeguati per maturare in sé e manifestare in modo libero e non condizionato quel sentimento, senza cioè nulla aspettarsi dagli altri. Dagli altri mortali almeno, se non dagli dei, veri interlocutori dei poeti.
La follia in cui si rifugiò Hölderlin non è forse altro che una inadeguata risposta agli interrogativi che ci pone la vita per i quali la cultura alla quale apparteniamo ci propone delle soluzioni non da tutti accettate o accettabili.
domenica 10 ottobre 2010
UN RICORDO DI LEVI-STRAUSS
"Je ne lis pas facilement l’italien, mais j’y arrive en m’appliquant". Il 7 giugno 1991 ricevo da Claude Lévi-Strauss una lettera che così inizia. Mi ringrazia per avergli inviato due miei libri sul Giappone, da poco usciti. Avevo saputo che Lévi-Strauss era di ritorno da quel paese dove, al seguito della moglie, esperta di tessuti tradizionali, aveva visitato tra l’altro la collezione di kimono del Museo nazionale di etnologia a Osaka, dove avevo a lungo fatto ricerche, e i miei colleghi di lì mi avevano comunicato quanto egli si fosse mostrato colpito da quella cultura che poco conosceva. Eccitato dal fatto che il ‘mio’ Giappone avesse sedotto anche il Maestro, ero stato colto dall’impulso di fargli quell’omaggio, senza riflettere sulla questione della lingua, anzi senza minimamente aspettarmi che trovasse tempo e voglia di leggere le mie pagine.
Tralascio il seguito di quella prima riga, per l’imbarazzo che provo a rileggerne i lusinghieri, immeritati apprezzamenti: ma il suo commento mostrava chiaramente che quei testi in italiano di un suo semisconosciuto collega egli se li stata davvero leggendo, sia pure a fatica. Non si trattava di una semplice espressione di francese cortesia.
E me lo immaginai, quel celebrato maître à penser, ottantatreenne, nel suo studio in alto nella biblioteca del Collège, chino sulle mie pagine, nello sforzo di comprenderne le parole, ‘en s’appliquant’. Che lezione!
Una lezione che a me torna alla mente quasi ogni giorno, una lezione per tutti noi di rigore e di passione per il comune mestiere di osservatori dell’uomo, una lezione di modestia scientifica nel continuo ricercare. Quale migliore insegnamento, attraverso questo piccolo aneddoto rivelatore, che invitarci a lavorare, a vivere, en s’appliquant?
Tralascio il seguito di quella prima riga, per l’imbarazzo che provo a rileggerne i lusinghieri, immeritati apprezzamenti: ma il suo commento mostrava chiaramente che quei testi in italiano di un suo semisconosciuto collega egli se li stata davvero leggendo, sia pure a fatica. Non si trattava di una semplice espressione di francese cortesia.
E me lo immaginai, quel celebrato maître à penser, ottantatreenne, nel suo studio in alto nella biblioteca del Collège, chino sulle mie pagine, nello sforzo di comprenderne le parole, ‘en s’appliquant’. Che lezione!
Una lezione che a me torna alla mente quasi ogni giorno, una lezione per tutti noi di rigore e di passione per il comune mestiere di osservatori dell’uomo, una lezione di modestia scientifica nel continuo ricercare. Quale migliore insegnamento, attraverso questo piccolo aneddoto rivelatore, che invitarci a lavorare, a vivere, en s’appliquant?
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