UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE, MILANO, Largo Gemelli 1
LUNEDì 25 OTTOBRE 2010 alle ore 15,30
Antropologia dei sensi. I sensi come luogo di confronto scientifico tra la ricerca di una regolarità e il riconoscimento della varietà
Ne discutono: Antonio MARAZZI, autore, ordinario di antropologia, Università di Padova; Anna CASELLA, ricercatore di antropologia, Università Cattolica del Sacro Cuore; Gianni GASPARINI, ordinario di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore; Muganda MUHINDO, dottore di ricerca, Università di Siena; Italo PICCOLI, associato di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore; Giovanna SALVIONI, associato di antropologia, Università Cattolica del Sacro Cuore.
Introduce: Vincenzo CESAREO
venerdì 22 ottobre 2010
mercoledì 20 ottobre 2010
ANTROPOLOGIA DEI SENSI
È attraverso i sensi che l'uomo entra in contatto con il mondo esterno e con il proprio stesso corpo. Lungi dall'essere un processo meccanico determinato unicamente da leggi fisiche e dalla fisiologia umana, la percezione sensoriale è un laboratorio affidato in larga parte a codici culturali specifici e a esperienze personali inscritte in memorie che l'attività neuronale utilizza per interpretare i messaggi che dai sensi giungono al cervello. Dopo "Antropologia della visione", Marazzi affronta qui un nuovo ambito di analisi della condizione umana.
Editore: Carocci
Data di pubblicazione: 2010
Origine del record: Il copyright dei dati bibliografici e catalografici e delle Immagini fornite è di Informazioni Editoriali I.E. Srl o di chi gliene ha concesso l’autorizzazione. Tutti i diritti sono riservati.
martedì 19 ottobre 2010
CONFERENZA - PRESENTAZIONE LIBRO "ANTROPOLOGIA DEI SENSI"
//////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////
Mercoledì 17 novembre ore 14.00-16.00
//////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////
"ANTONIO MARAZZI
terrà una conferenza su: SENSI E CULTURA".
//////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////
Presso il Dipartimento di Studi Storici
Palazzo Malcanton Marcorà, II piano, in sala grande.
Università Ca’ Foscari di Venezia
///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////
Abstract
L’antropologia ha da tempo abbandonato la prospettiva olistica originaria di studio dell’uomo attraverso l’osservazione della varietà delle popolazioni e delle loro culture, per cogliere da vicino le particolarità e trasmetterle a noi. L’esperienza in tal modo minuziosamente accumulata nel corso di decenni attraverso il contatto diretto con le società vicine o remote alle quali ha rivolto la propria attenzione ha senza dubbio fornito conoscenze preziose di quelle varietà, spesso soggette a rapida trasformazione o addirittura minacciate di sparizione, offrendo contributi di incalcolabile valore alle scienze umane. Lungi dall’essere minacciata anch’essa di sparizione per la crescente omologazione culturale (la fin des voyages di cui parlava già oltre mezzo secolo fa Lévi-Strauss), l’antropologia oggi sembra essere chiamata con urgenza a nuovi compiti, nell’era della globalizzazione. Interrotti i fili di tante tradizioni, il genere umano si trova a dover ripensare il senso delle proprie appartenenze e il modo di comunicare tra di esse. Nuove tecnologie incalzano di continuo, chiamando il corpo e la mente dell’uomo a affrontare le potenzialità offerte da informatica, robotica, bionica e altre espansioni artificiali del nostro essere nel mondo. Contemporaneamente, le neuroscienze vanno disvelando molti misteri del funzionamento del nostro cervello, sollevando al tempo stesso altrettanti interrogativi, ai quali l’antropologia non può sentirsi estranea. Come affrontare queste nuove sfide? Il volume che presentiamo propone di rimanere fedeli all’identità della disciplina, rifuggendo da speculazioni filosofiche così come da ambiti scientifici non di sua competenza, per indagare la fenomenologia delle esperienze osservabili nelle varietà individuali e culturali, a partire dalle comuni dotazioni sensoriali. E’ attraverso i sensi che l’uomo ha conoscenza di sé, degli altri e del mondo intorno. E’ servendosi delle proprie dotazioni sensoriali che l’uomo comunica con gli altri uomini e costruisce, attraverso la varietà delle culture, un proprio universo di senso. E’ espandendo le proprie potenzialità sensoriali che l’uomo di oggi sta inventando il futuro dell’umanità. Nel solco della più tradizionale pratica antropologica, queste riflessioni scaturiscono dalle conoscenze fornite dall’osservazione etnografica, che rivelano come, al di là della comune dotazione fisiologica, le varie culture sappiano adottare specifici strumenti sensoriali di contatto con il mondo per dare un senso alla propria condizione umana.
"Nota biografica"
Rappresentante della IUAES (International Union of Anthropological and Ethnological Sciences) presso il Comité International de Philosophie et Sciences Humaines.////
Già Professore ordinario di Antropologia culturale e Direttore del corso di perfezionamento in antropologia culturale e sociale presso l’Università di Padova. Chairman (1992-2003) della Commission on Visual Anthropology della IUAES. ////
Ha tenuto corsi di Visual Thinking presso la New York University e ha svolto attività di ricerca presso il National Museum of Ethnology di Osaka. Membro fondatore dell’I.S.Mu (Iniziative e studi sulla multietnicità) di Milano. Responsabile di progetti europei sulla multietnicità./////
Ha compiuto ricerche sul campo presso i profughi tibetani in India e Europa, e in Giappone su aspetti tradizionali e contemporanei di quella cultura. Autore di numerose pubblicazioni e di video etnografici./////
Membro dell’Advisory Board del Margaret Mead film and video festival di New York. Membro del comitato scientifico delle riviste Diogène e Visual Anthropology.
Etichette:
Antonio Marazzi,
antropologia dei sensi,
antropologia visiva,
conferenza,
cultura,
culturale,
culture,
presentazione libro,
università Ca' Foscari Venezia
mercoledì 13 ottobre 2010
INTELLECTUAL AND CULTURAL PROPERTY IN ANTHROPOLOGICAL PERSPECTIVE*
Circulation of ideas and artefacts has enormously expanded in recent years, following a worldwide network of communications and exchanges, in which internet – commonly referred to with the symbolically appropriated term of ‘the web’ – plays a major role. There is no longer any place that can be considered isolated from the rest of the world and cannot be reached, via satellite if not by more traditional system of communication. This unprecedented condition of humankind offers unlimited opportunities and at the same time raises equally vast problems.
Before this fundamental change in human destiny, anthropology played the role – at a micro scale – of connecting small, neglected, often ignored societies and marginal groups to the increasingly ‘developed’, ‘modern’ world. The primary role of ethnographic fieldwork and subsequent anthropological analysis has been to build up. through accurate, direct testimonies, an increased knowledge of human diversity. Based on that knowledge was an awareness that this very diversity is a primary, positive value of our species, the sign of our unique adaptability to different ecological and historical conditions.
The time-consuming, scrupulous work of the anthropologist – of transferring and translating social rules and cultural expressions of groups often referred to as ‘exotic’, in terms and meanings more familiar to her/his audience and readers – anticipated, in its own way, intercultural communication, a growing present concern. In a way. That is, predominantly in one way: from the ‘isolated’ to the ‘developed’.
In that direction, anthropologists developed, along with scientific techniques, a moral concern of respect and defence of the delicate matter that was in thei hands, the core of individual and social identity of the group they were studying, and of which they were the self-appointed representatives. Indigenous groups and minorities had little opportunities to check the accuracy of the anthropologists’ narratives, if only due to the linguistic barrier, further complicated by the scientific jargon. To correct this bias, visual anthropologists introduced the habit of returning to the people they had filmed, showing the images and discussing together the accuracy of their representations. This was what Jean Rouch called “anthropologie partagée”, the result being often more a moral relief for the anthropologist than a guarantee for the people represented.
In any case, independently from the support for their representations – be it written, visual or oral -, the underlying question is always: whose story is it? (To borrow an expression used as title for one of his articles by David McDougall, not by chance, like Rouch, also a visual anthropologist and filmmmaker). Are we anthropologists the authors of our narratives, or do we simply expand the knowledge of others’ cultural expressions?
The legitimization of the anthropologist’s work has moved from an initial cultural self-reference , for the sake of our knowledge , to an intercultural mission , to present their point of view. If this is a central concern for anthropologists, the idea in general is not an unfamiliar one. There is a long intellectual tradition and a growing awareness concerning the respect due to cultural differences. In theory, at least, we are all ready to recognize the right of people living in different parts of the world, or coming from there, to follow their credos and ways of life. But the answer to the question we have put before – whose story is it? –is, in fact, more complex than one would expect. In traditional societies, an epic, a ritual, a performance reproduced from one generation to another, a design, material artefacts made following socially established patterns, objects and actions produced and reproduced as codified expressions of religious meanings, aesthetic representations in images, sounds or bodily expressions are all something that the performer, the narrator or the artist does not consider her/his own. Nor does society consider the outcome as an invention, but rather the execution, following certain, sometimes secret rules, of a cultural legacy.
This is what allows us to give to a society the otherwise vague attribute o ‘traditional’. There, cultural expressions central for for reinforcing through time social identities and considered something inherited from the ancestors, the founding fathers or the spirits of another world. They are the authors, the living merely follow the received patterns.
All this seems distant from the present process of globalization and, with it, of intercultural contacts: again, ‘exotic’. But consider an example. In recent years, paintings made by Australian aborigines have entered the art market of the West: mostly made with acrylic colours, often with the ‘dot’ technique. As Fred Myers – an anthropologist that has extensively studied this phenomenon as part of his lifelong research on Central Australian aborigines - explained in a recent article, this is at least partly the curious consequence of the process of assimilation fostered by the Australian government, as a reaction to it, in order to preserve indigenous cultural identity, and partly to the support received by a schoolteacher sympathetic with the Western Desert painting movement.
There is here a complex involvement of different forces: the local artists, the context out of which the artistic movement grew, the local supporters, the all-powerful art market system and its logic of commoditisation of the ‘object’. These paintings are visual representations of what we could call the ‘cultural treasures’ of the aborigines. They are part of a collective patrimony, often intended to be preserved for controlled, sometimes secret, uses and interpretations. Apart for the recognition of the individual artist’s merits and skills – and their consequent right to have a copyright and receive economic compensation for the exchange of the object –, we should answer the previous question by saying that these are their culture’s stories.
In fact, Myers reports the comments of the Pintupi painters: they “always insisted to me that their images ‘are not made up, not made by us. They are from the Dreaming’ “ (Myers 2004:14). For the aborigines, “ the story-song-design complexes of the Dreaming – like the rituals of which they are considered part and like the landscape, which is a further manifestation – are ‘held’ (kanyinu) by various groups of people “ (Myers 2004:5). They are not the autonomous expressions of an individual artist. “Intellectual copyright law may allow compensation for unauthorized use of designs, but – as most supporters of this remedy acknowledge – copyright does not represent fully what is at stake in the problematic circulation of acrylic paintings as cultural artefacts” (Myers 2004:109.
The problem of attribution of authorship and consequent possible rights over images or texts is also raised by Giancarlo Scoditti, an anthropologist that has done intensive fieldwork in the island of Kitawa, Melanesia, focusing on the aesthetic sense of the islanders. “Often, in an oral culture, in order to give force to a certain image [...] its construction is attributed to a superior being, a hero for instance, especially if the image is inserted in texts concerning myths, like the narration of the foundation of a clan or sub-clan, or in poems recited in occasion of a ritual exchange. Once composed, the image is fixed, made sacred. Thenceforth is no longer relevant to detect the name of its author and/or the singer that gave it voice for the first time “ (Scoditti 2003:45) (1). The role of the single artist is recognized as important as that of an interpreter
Scoditti uses the metaphor of a musical performance of a classical symphony in our culture, of a receive “canon”. “It is not relevant to discover who is the canon’s author, but we know that it exists”. (Scoditti 2003:45) (2). Proof of this “hypotesis”, for Scooditti, is “the long series of polychromic tables, kept in various collections of ethnographic museums, that can all be reported to their respective patterns, in turn derived from some fundamental schemes/styles: goragora, nagega, and tadobu”. (Scoditti 2003:46) (3). He contends that “in this case, the author [...] leaves his hand on the polychromic table and to detect his name can be totally irrelevant, because it is already kept in the way he has carved onto the wood the graphic texture. In the same way, the author of a poetic text leaves the mark of his hand in the verbal texture of the work.” (Scoditti 2003:46) (4).
The right over the narration of a myth pass from one generation to another, following the direct line of descent. “The text composed by the First Author, coinciding with the androgynous ancestor founder of the referred clan and sub-clan group, is donated by him to his direct descendants, that were born from him by parthenogenesis :[...] the woman will keep the text in her womb, while to the man is attributed the function to narrate it, and so communicate to the descendants the grounds and reasons for their power [...] At childbirth, the woman donates to her sons, together with life, the vital breath, also the text: in a sort of literary insemination
and an immediate acquisition of the text by the newborns” (Scoditti 2003:67) (5).
From her fieldwork in the same area, the Trobriand islands, Annette Weiner came to similar conclusions for what she called the “inalienable possessions”. “What gives these possessions their fame and power is their authentication through an authority perceived to be outside the present” (Weiner 1992:42).
These are but a few of the many testimonies by ethnologists of local attributions and validations of authorship in traditional, oral societies. As we have seen, this credit is not given to single persons – the narrator, the performer, the artist – since what is at stake is not their personal achievement, but something perceived as coming from “outside the present” and belonging to the whole community. It is through this sense of sharing a unique legacy that what we call cultural identity is built. But we can ask ourselves what or who gives an outsider – the anthropologist – the authorization to play, in a way, th same role of local narrators, to bring to the present the legacy so carefully preserved within well-defined limits of time and space and to diffuse it outside these borders.
From the point of view of the ethics of our discipline, more than from the feeling of contributing to broaden knowledge, I think that this should derive from the intimate acquaintance with local populations through the rite of passage of fieldwork. This is not to go native, but to become a kind of appointed representative, able to play outside a similar role of the local person-in-charge, in a reliable and respectful way, in other languages, in other societies, with their rules. These rules being, for instance, the copyright laws regulating the market of written texts, objects, images and music in our societies.
Nonetheless, we can ask ourselves: who is really the author of Dieu d’eau (Griaule 1948) ? The French ethnologist Marcel Griaule, or the Dogon wise man Ogotemmeli who told him (using an interpreter) the complex cosmology elaborated through ages by his society, in the same way as he himself was instructed before by others of his group? No doubt that Griaule and his descendants had legitimately the copyright of that book: he wrote the text, he put his name on the cover. And correctly in the text he quotes the real name of the person from which he received the narration – the cultural legacy: something that is rarely done in our social sciences, where anonymity, initials and pseudonyms are preferred, due to an ill-placed use of the concept of privacy. Through Ogotemmeli, Griaule became what we have called the appointed representative of Dogon’s cosmology in the Western world, its guardian, relying on the copyright legal system to control the spread of that knowledge outside its proper cultural borders.
The African continent s particularly rich in oral traditions, narratives of myths and local ideologies, and the work of transference done by Griaule is by no means an isolated case. More recently, Jack Goody made accessible to the outside world the monumental myth of the Bagre (Goody 1972) and the scientific endeavour that made this possible is certainly to be entirely attributed to him: at the same time, the myth is the legacy of a culture metaphorically adopted. Or rather, shouldn’t we say that it was Goody that has been adopted by the owners – through spiritual descent – of the myth?
Societies that have a long tradition of writing faced the question of authorial attribution in cases that we may consider having some analogies. But here the crucial moment of the transference from the oral to the written is very far in the past. In any case, no one would consider the amanuenses to be the authors of our most classical, mythical or realistic, narratives. No one challenges the attribution of the Iliades to Homer, nor of the Histories to Herodotus: even if- so the story goes – it all began with a group of people gathered under the shade of a tree to listen to a poet, in the first case, with an audience in an agorà, curious to hear the tales of someone that had been there, in the second.
One could continue, with the Indian Vedas and Upanishads, the Mahabharata and the Ramayana, and their uncountable different versions, in Java and elsewhere. If we follow this line of analysis, we should logically come to the conclusion that we need to enlarge our frame of thought. We would need to embrace something involving many different people in different roles, a content that can go back to a mythical past, an authorial attribution that includes living beings, ancestors and spirits, and beliefs that are at the same time specific to a group and essential for its common identity. All this may seem exotic, eccentric and, in the end, irrelevant. It would indeed be very far from the logic of the market society we live in, the economic and legal rules that regulate our behaviour.
Raising its voice in the name of minorities and indigenous people, anthropology is used to fight a battle in which its arguments are at the same time weak and strong: weak in terms of the ‘real powers’, strong as a crucial defence of precious patrimonies of humankind. But there is a new perspective, of historical momentum. This brings us back to the beginning of our argument, to the world connected through the web of internet and the impulse of globalization.
We begin to be aware that globalization concerns not only markets and political strategies. The fascinating, if bizarre, metaphor used by ecologists of the wings of the butterfly that, through a chain of consequences can be applied to our cultures, if we reverse the image. The powerful storms of our ever-growing and ever-expanding societies can now much more easily than in the past, wipe out the frail espressions of faraway human beings. This, in the end, would negatively affect us all.
Some indigenous groups have shown a strong consciousness that their common cultural patrimony can become a strong argument to raise their often endangered rights, in a wider social arena: Native Americans in the United States (some in particular, like the Navajo or the Lakota) and in Canada, the Maori of New Zealand. Recognition of their cultural properties can avoid two extremes: isolation in an exotic ghetto, or the disappearance of original, often ancient traditions into a national ‘melting pot’ or, now, in a global homogenisation.
Once again, through its experience, anthropology can offer its contribution. Making its typical long turn outside what is familiar to us, it can come back with a new insight, a global one, that can be useful for us, here. Working at a micro scale, focusing on marginality and least known human expressions, anthropological knowledge can offer a test to the possible generalization of some of our own ideas and strtegies, in an increasingly ‘connected’ world. In the specific case we have focused on here, anthropological experience suggests the use of a broader category than that indicated by the term ‘intellectual property – with its reference to an individual quality – and to think more in general of ‘cultural property’. Cultural properties can be considered as belonging to humankind, as universal, and at the same time being specific to individual social groups with their unique characters and histories. Cultural property can be shared, but it has also to be protected and regulated in its circulation and exchange. Concern for the preservation of the cultural patrimony, as expressed in different societies and kept within their often neglected or endangered traditions, has been expressed by the international community, notably the UNESCO, where a Division du Patrimoine Culturel has been established.
Adopting the anthropological meaning of the term culture, now based on a common understanding, the scope of this ‘patrimony’ has been expanded to include not only what has a ‘static’ nature, like books, manuscripts and artistic images, but also what has been called ‘immaterial patrimony’ (Bouchenaky 1999: 4). This is important, both in terms of widening the concept and in terms of the actions to be taken in order to protect its manifestations.
Under the pressure of the world’s interconnectedness, intercultural exchanges and contacts, further steps are now needed. Ideas and values superimposed from outside about what has to be protected, and how – defining rules and categories – could collide with other societies’ perceptions. These perceptions cannot be separated, within a society, from the actual expressions of which they are but a manifestation. The values encapsulated within these material or immaterial elements are part of that “complex whole” (Tylor 1871) that makes a society’s culture. Thus is what gives them a place and a role, and from there comes the wider meaning of the term ‘property’, when we attribute it to a cultural expression.
At the same time, we have also to consider these cultural properties being part of the humankind’s patrimony. This conciousness becomes more acute with the world’s interconnectedness and the recent, enormous increase of what circulates among people of different societies. The idea of cultural property should not mean that no others than the ones that ‘own’ these expressions – having created or inherited them . can have access to them. But more and more often local groups or individuals see that outsiders take advantage – in terms of money and prestige – from the selling and circulation of original goods and their copies to other cultural expressions, sometimes part of a tourist package. And they ask their share.
Who should set the rules and limits for the access by outsiders to something that usually has rules and limits concerning the members of a group – and who should be in charge of that – is an open question. Certainly it is one that is no easy to answer; one that can, and should, be approached from different points of view. Pure, Western-style commoditisation cannot be the answer. Nor is the even more distorted and contradictory adoption of the logic of the market as it is sometimes used in societies equating cultural value with economic value and therefore giving a price to anything, from a religious object to an interview.
Leaving these questions open to analysis in a hopefully intercultural discussion, we can return to the Internet as a fact and a metaphor. Widening enormously the circulation of ideas and human expressions, giving them free access to people the world over, the web stimulates a new approach to the intellectual immaterial property, to be considered today as a world’s common cultural patrimony, a vital bond for the destiny of humanity.
Notes.
1. Translation mine. Original text (Italian): “ Spesso in una cultura orale, per dare forza a una data immagine – la cui formulazione ha richiesto la formulazione di più ipotesi e vari tentativi per realizzare la più corretta – se ne attribuisce la costruzione a un essere superiore, per esempio un eroe, soprattutto se l’immagine è racchiusa in testi relativi a miti, come il racconto di fondazione di un clan e subclan, oppure nelle poesie salmodiate per lo scambio rituale. Una volta composta, l’immagine viene irrigidita, sacralizzata, appunto, per cui non è rilevante individuare il nome del suo autore e/o del cantore che l’ha sonorizzata per la prima volta”.
2. Translation mine. Original text (Italian): “[...] non è rilevante scoprire l’autore del canone ma sappiamo che esiste”.
3. Translation mine. Original text (Italian): “La lunga serie di tavole policrome, conservate nelle varie collezioni dei musei etnografici, tutte rapportbili ai loro rispettivi modelli di riferimento, a loro volta derivati da alcuni schemi/stili fondamentali: goragora, nagega e tanobu”.
4. Translation mine. Original text (Italian): “ In questo caso l’autore (foss’anche il semplice incisore che reitera un dato modello progettato da un tokabitamu bougwaœ, maestro-incisore) lascia la sua mano e individuare il suo nome può essere del tutto irrilevante perché ormai è rimasto racchiuso nel modo con cui ha inciso sul legno la tessitura grafica. Anche l’autore di un testo poetico lascia la sua mano nella tessitura verbale dell’opera [...]”.
5. Translation mine. Original text (Italian): “ Il testo del racconto composto dal Primo Autore, che coincide con l’antenata androgina fondatrice del gruppo clanico e subclanico cui si riferisce il testo, viene donato da questi suoi discendenti diretti, ai quali ha dato vita per partenogenesi. Con il nome del segmento di lignaggio e la proprietà della terra l’antenata mitica dona anche il testo del racconto relativo a questi stessi atti fondanti. Lo dona al primo figlio e alla prima figlia, ai primi due distinti di se stesso. Da ora in poi alla donna spetterà la funzione di conservare nel suo ventre il testo del racconto, come all’uomo la funzione di narrarlo per comunicare ai discendenti i fondamenti, le ragioni de loro potere. La donna al momento del aprto dona ai propri figli, oltre che la vita, il soffio vitale, anche il testo del racconto: sarà, questa, una sorta di inseminazione letteraria e una acquisizione immEdiata del testo da parte dei nuovi nati.”
Bibliography.
BOUCHENAKI Mounir 1999 Préface. La culture populaire, in Francesco Lucarelli e Lello Mazzacane (eds) L’UNESCO et la tutelle du patrimoine immatériel. Les Fetes traditionnelles – Les Gigli de Nola, Extra Moenia, Nola.
GOODY, Jack 1972 The Myth of the Bagre, Oxford University Press, Oxford.
GRIAULE, Marcel 1948 Dieu d’eau, entretiens avec Ogotemmeli, Editions du Chene, Paris.
MYERS, Fred 2004 “Ontologies of the image and economies of exchange”, American Ethnologist, Vol. 31, Issue 1, pp. 1-16.
SCODITTI Giancarlo 2003 Kitawa. Il suono e il colore della memoria, Bollati Boringhieri, Torino.
TYLOR, Edward B. 1871 Primitive Culture, Oxford University Press Oxford.
WEINER Annette B. 1992 Inalienable Possessions. The Paradox of Keping-While-Giving, University of California Press, Berkeley, Los Angeles.
* Paper presented at the General Assembly of the CIPSH (Conseil International de la Philosophie et des Sciences Humaines), Beijing 2004.
Before this fundamental change in human destiny, anthropology played the role – at a micro scale – of connecting small, neglected, often ignored societies and marginal groups to the increasingly ‘developed’, ‘modern’ world. The primary role of ethnographic fieldwork and subsequent anthropological analysis has been to build up. through accurate, direct testimonies, an increased knowledge of human diversity. Based on that knowledge was an awareness that this very diversity is a primary, positive value of our species, the sign of our unique adaptability to different ecological and historical conditions.
The time-consuming, scrupulous work of the anthropologist – of transferring and translating social rules and cultural expressions of groups often referred to as ‘exotic’, in terms and meanings more familiar to her/his audience and readers – anticipated, in its own way, intercultural communication, a growing present concern. In a way. That is, predominantly in one way: from the ‘isolated’ to the ‘developed’.
In that direction, anthropologists developed, along with scientific techniques, a moral concern of respect and defence of the delicate matter that was in thei hands, the core of individual and social identity of the group they were studying, and of which they were the self-appointed representatives. Indigenous groups and minorities had little opportunities to check the accuracy of the anthropologists’ narratives, if only due to the linguistic barrier, further complicated by the scientific jargon. To correct this bias, visual anthropologists introduced the habit of returning to the people they had filmed, showing the images and discussing together the accuracy of their representations. This was what Jean Rouch called “anthropologie partagée”, the result being often more a moral relief for the anthropologist than a guarantee for the people represented.
In any case, independently from the support for their representations – be it written, visual or oral -, the underlying question is always: whose story is it? (To borrow an expression used as title for one of his articles by David McDougall, not by chance, like Rouch, also a visual anthropologist and filmmmaker). Are we anthropologists the authors of our narratives, or do we simply expand the knowledge of others’ cultural expressions?
The legitimization of the anthropologist’s work has moved from an initial cultural self-reference , for the sake of our knowledge , to an intercultural mission , to present their point of view. If this is a central concern for anthropologists, the idea in general is not an unfamiliar one. There is a long intellectual tradition and a growing awareness concerning the respect due to cultural differences. In theory, at least, we are all ready to recognize the right of people living in different parts of the world, or coming from there, to follow their credos and ways of life. But the answer to the question we have put before – whose story is it? –is, in fact, more complex than one would expect. In traditional societies, an epic, a ritual, a performance reproduced from one generation to another, a design, material artefacts made following socially established patterns, objects and actions produced and reproduced as codified expressions of religious meanings, aesthetic representations in images, sounds or bodily expressions are all something that the performer, the narrator or the artist does not consider her/his own. Nor does society consider the outcome as an invention, but rather the execution, following certain, sometimes secret rules, of a cultural legacy.
This is what allows us to give to a society the otherwise vague attribute o ‘traditional’. There, cultural expressions central for for reinforcing through time social identities and considered something inherited from the ancestors, the founding fathers or the spirits of another world. They are the authors, the living merely follow the received patterns.
All this seems distant from the present process of globalization and, with it, of intercultural contacts: again, ‘exotic’. But consider an example. In recent years, paintings made by Australian aborigines have entered the art market of the West: mostly made with acrylic colours, often with the ‘dot’ technique. As Fred Myers – an anthropologist that has extensively studied this phenomenon as part of his lifelong research on Central Australian aborigines - explained in a recent article, this is at least partly the curious consequence of the process of assimilation fostered by the Australian government, as a reaction to it, in order to preserve indigenous cultural identity, and partly to the support received by a schoolteacher sympathetic with the Western Desert painting movement.
There is here a complex involvement of different forces: the local artists, the context out of which the artistic movement grew, the local supporters, the all-powerful art market system and its logic of commoditisation of the ‘object’. These paintings are visual representations of what we could call the ‘cultural treasures’ of the aborigines. They are part of a collective patrimony, often intended to be preserved for controlled, sometimes secret, uses and interpretations. Apart for the recognition of the individual artist’s merits and skills – and their consequent right to have a copyright and receive economic compensation for the exchange of the object –, we should answer the previous question by saying that these are their culture’s stories.
In fact, Myers reports the comments of the Pintupi painters: they “always insisted to me that their images ‘are not made up, not made by us. They are from the Dreaming’ “ (Myers 2004:14). For the aborigines, “ the story-song-design complexes of the Dreaming – like the rituals of which they are considered part and like the landscape, which is a further manifestation – are ‘held’ (kanyinu) by various groups of people “ (Myers 2004:5). They are not the autonomous expressions of an individual artist. “Intellectual copyright law may allow compensation for unauthorized use of designs, but – as most supporters of this remedy acknowledge – copyright does not represent fully what is at stake in the problematic circulation of acrylic paintings as cultural artefacts” (Myers 2004:109.
The problem of attribution of authorship and consequent possible rights over images or texts is also raised by Giancarlo Scoditti, an anthropologist that has done intensive fieldwork in the island of Kitawa, Melanesia, focusing on the aesthetic sense of the islanders. “Often, in an oral culture, in order to give force to a certain image [...] its construction is attributed to a superior being, a hero for instance, especially if the image is inserted in texts concerning myths, like the narration of the foundation of a clan or sub-clan, or in poems recited in occasion of a ritual exchange. Once composed, the image is fixed, made sacred. Thenceforth is no longer relevant to detect the name of its author and/or the singer that gave it voice for the first time “ (Scoditti 2003:45) (1). The role of the single artist is recognized as important as that of an interpreter
Scoditti uses the metaphor of a musical performance of a classical symphony in our culture, of a receive “canon”. “It is not relevant to discover who is the canon’s author, but we know that it exists”. (Scoditti 2003:45) (2). Proof of this “hypotesis”, for Scooditti, is “the long series of polychromic tables, kept in various collections of ethnographic museums, that can all be reported to their respective patterns, in turn derived from some fundamental schemes/styles: goragora, nagega, and tadobu”. (Scoditti 2003:46) (3). He contends that “in this case, the author [...] leaves his hand on the polychromic table and to detect his name can be totally irrelevant, because it is already kept in the way he has carved onto the wood the graphic texture. In the same way, the author of a poetic text leaves the mark of his hand in the verbal texture of the work.” (Scoditti 2003:46) (4).
The right over the narration of a myth pass from one generation to another, following the direct line of descent. “The text composed by the First Author, coinciding with the androgynous ancestor founder of the referred clan and sub-clan group, is donated by him to his direct descendants, that were born from him by parthenogenesis :[...] the woman will keep the text in her womb, while to the man is attributed the function to narrate it, and so communicate to the descendants the grounds and reasons for their power [...] At childbirth, the woman donates to her sons, together with life, the vital breath, also the text: in a sort of literary insemination
and an immediate acquisition of the text by the newborns” (Scoditti 2003:67) (5).
From her fieldwork in the same area, the Trobriand islands, Annette Weiner came to similar conclusions for what she called the “inalienable possessions”. “What gives these possessions their fame and power is their authentication through an authority perceived to be outside the present” (Weiner 1992:42).
These are but a few of the many testimonies by ethnologists of local attributions and validations of authorship in traditional, oral societies. As we have seen, this credit is not given to single persons – the narrator, the performer, the artist – since what is at stake is not their personal achievement, but something perceived as coming from “outside the present” and belonging to the whole community. It is through this sense of sharing a unique legacy that what we call cultural identity is built. But we can ask ourselves what or who gives an outsider – the anthropologist – the authorization to play, in a way, th same role of local narrators, to bring to the present the legacy so carefully preserved within well-defined limits of time and space and to diffuse it outside these borders.
From the point of view of the ethics of our discipline, more than from the feeling of contributing to broaden knowledge, I think that this should derive from the intimate acquaintance with local populations through the rite of passage of fieldwork. This is not to go native, but to become a kind of appointed representative, able to play outside a similar role of the local person-in-charge, in a reliable and respectful way, in other languages, in other societies, with their rules. These rules being, for instance, the copyright laws regulating the market of written texts, objects, images and music in our societies.
Nonetheless, we can ask ourselves: who is really the author of Dieu d’eau (Griaule 1948) ? The French ethnologist Marcel Griaule, or the Dogon wise man Ogotemmeli who told him (using an interpreter) the complex cosmology elaborated through ages by his society, in the same way as he himself was instructed before by others of his group? No doubt that Griaule and his descendants had legitimately the copyright of that book: he wrote the text, he put his name on the cover. And correctly in the text he quotes the real name of the person from which he received the narration – the cultural legacy: something that is rarely done in our social sciences, where anonymity, initials and pseudonyms are preferred, due to an ill-placed use of the concept of privacy. Through Ogotemmeli, Griaule became what we have called the appointed representative of Dogon’s cosmology in the Western world, its guardian, relying on the copyright legal system to control the spread of that knowledge outside its proper cultural borders.
The African continent s particularly rich in oral traditions, narratives of myths and local ideologies, and the work of transference done by Griaule is by no means an isolated case. More recently, Jack Goody made accessible to the outside world the monumental myth of the Bagre (Goody 1972) and the scientific endeavour that made this possible is certainly to be entirely attributed to him: at the same time, the myth is the legacy of a culture metaphorically adopted. Or rather, shouldn’t we say that it was Goody that has been adopted by the owners – through spiritual descent – of the myth?
Societies that have a long tradition of writing faced the question of authorial attribution in cases that we may consider having some analogies. But here the crucial moment of the transference from the oral to the written is very far in the past. In any case, no one would consider the amanuenses to be the authors of our most classical, mythical or realistic, narratives. No one challenges the attribution of the Iliades to Homer, nor of the Histories to Herodotus: even if- so the story goes – it all began with a group of people gathered under the shade of a tree to listen to a poet, in the first case, with an audience in an agorà, curious to hear the tales of someone that had been there, in the second.
One could continue, with the Indian Vedas and Upanishads, the Mahabharata and the Ramayana, and their uncountable different versions, in Java and elsewhere. If we follow this line of analysis, we should logically come to the conclusion that we need to enlarge our frame of thought. We would need to embrace something involving many different people in different roles, a content that can go back to a mythical past, an authorial attribution that includes living beings, ancestors and spirits, and beliefs that are at the same time specific to a group and essential for its common identity. All this may seem exotic, eccentric and, in the end, irrelevant. It would indeed be very far from the logic of the market society we live in, the economic and legal rules that regulate our behaviour.
Raising its voice in the name of minorities and indigenous people, anthropology is used to fight a battle in which its arguments are at the same time weak and strong: weak in terms of the ‘real powers’, strong as a crucial defence of precious patrimonies of humankind. But there is a new perspective, of historical momentum. This brings us back to the beginning of our argument, to the world connected through the web of internet and the impulse of globalization.
We begin to be aware that globalization concerns not only markets and political strategies. The fascinating, if bizarre, metaphor used by ecologists of the wings of the butterfly that, through a chain of consequences can be applied to our cultures, if we reverse the image. The powerful storms of our ever-growing and ever-expanding societies can now much more easily than in the past, wipe out the frail espressions of faraway human beings. This, in the end, would negatively affect us all.
Some indigenous groups have shown a strong consciousness that their common cultural patrimony can become a strong argument to raise their often endangered rights, in a wider social arena: Native Americans in the United States (some in particular, like the Navajo or the Lakota) and in Canada, the Maori of New Zealand. Recognition of their cultural properties can avoid two extremes: isolation in an exotic ghetto, or the disappearance of original, often ancient traditions into a national ‘melting pot’ or, now, in a global homogenisation.
Once again, through its experience, anthropology can offer its contribution. Making its typical long turn outside what is familiar to us, it can come back with a new insight, a global one, that can be useful for us, here. Working at a micro scale, focusing on marginality and least known human expressions, anthropological knowledge can offer a test to the possible generalization of some of our own ideas and strtegies, in an increasingly ‘connected’ world. In the specific case we have focused on here, anthropological experience suggests the use of a broader category than that indicated by the term ‘intellectual property – with its reference to an individual quality – and to think more in general of ‘cultural property’. Cultural properties can be considered as belonging to humankind, as universal, and at the same time being specific to individual social groups with their unique characters and histories. Cultural property can be shared, but it has also to be protected and regulated in its circulation and exchange. Concern for the preservation of the cultural patrimony, as expressed in different societies and kept within their often neglected or endangered traditions, has been expressed by the international community, notably the UNESCO, where a Division du Patrimoine Culturel has been established.
Adopting the anthropological meaning of the term culture, now based on a common understanding, the scope of this ‘patrimony’ has been expanded to include not only what has a ‘static’ nature, like books, manuscripts and artistic images, but also what has been called ‘immaterial patrimony’ (Bouchenaky 1999: 4). This is important, both in terms of widening the concept and in terms of the actions to be taken in order to protect its manifestations.
Under the pressure of the world’s interconnectedness, intercultural exchanges and contacts, further steps are now needed. Ideas and values superimposed from outside about what has to be protected, and how – defining rules and categories – could collide with other societies’ perceptions. These perceptions cannot be separated, within a society, from the actual expressions of which they are but a manifestation. The values encapsulated within these material or immaterial elements are part of that “complex whole” (Tylor 1871) that makes a society’s culture. Thus is what gives them a place and a role, and from there comes the wider meaning of the term ‘property’, when we attribute it to a cultural expression.
At the same time, we have also to consider these cultural properties being part of the humankind’s patrimony. This conciousness becomes more acute with the world’s interconnectedness and the recent, enormous increase of what circulates among people of different societies. The idea of cultural property should not mean that no others than the ones that ‘own’ these expressions – having created or inherited them . can have access to them. But more and more often local groups or individuals see that outsiders take advantage – in terms of money and prestige – from the selling and circulation of original goods and their copies to other cultural expressions, sometimes part of a tourist package. And they ask their share.
Who should set the rules and limits for the access by outsiders to something that usually has rules and limits concerning the members of a group – and who should be in charge of that – is an open question. Certainly it is one that is no easy to answer; one that can, and should, be approached from different points of view. Pure, Western-style commoditisation cannot be the answer. Nor is the even more distorted and contradictory adoption of the logic of the market as it is sometimes used in societies equating cultural value with economic value and therefore giving a price to anything, from a religious object to an interview.
Leaving these questions open to analysis in a hopefully intercultural discussion, we can return to the Internet as a fact and a metaphor. Widening enormously the circulation of ideas and human expressions, giving them free access to people the world over, the web stimulates a new approach to the intellectual immaterial property, to be considered today as a world’s common cultural patrimony, a vital bond for the destiny of humanity.
Notes.
1. Translation mine. Original text (Italian): “ Spesso in una cultura orale, per dare forza a una data immagine – la cui formulazione ha richiesto la formulazione di più ipotesi e vari tentativi per realizzare la più corretta – se ne attribuisce la costruzione a un essere superiore, per esempio un eroe, soprattutto se l’immagine è racchiusa in testi relativi a miti, come il racconto di fondazione di un clan e subclan, oppure nelle poesie salmodiate per lo scambio rituale. Una volta composta, l’immagine viene irrigidita, sacralizzata, appunto, per cui non è rilevante individuare il nome del suo autore e/o del cantore che l’ha sonorizzata per la prima volta”.
2. Translation mine. Original text (Italian): “[...] non è rilevante scoprire l’autore del canone ma sappiamo che esiste”.
3. Translation mine. Original text (Italian): “La lunga serie di tavole policrome, conservate nelle varie collezioni dei musei etnografici, tutte rapportbili ai loro rispettivi modelli di riferimento, a loro volta derivati da alcuni schemi/stili fondamentali: goragora, nagega e tanobu”.
4. Translation mine. Original text (Italian): “ In questo caso l’autore (foss’anche il semplice incisore che reitera un dato modello progettato da un tokabitamu bougwaœ, maestro-incisore) lascia la sua mano e individuare il suo nome può essere del tutto irrilevante perché ormai è rimasto racchiuso nel modo con cui ha inciso sul legno la tessitura grafica. Anche l’autore di un testo poetico lascia la sua mano nella tessitura verbale dell’opera [...]”.
5. Translation mine. Original text (Italian): “ Il testo del racconto composto dal Primo Autore, che coincide con l’antenata androgina fondatrice del gruppo clanico e subclanico cui si riferisce il testo, viene donato da questi suoi discendenti diretti, ai quali ha dato vita per partenogenesi. Con il nome del segmento di lignaggio e la proprietà della terra l’antenata mitica dona anche il testo del racconto relativo a questi stessi atti fondanti. Lo dona al primo figlio e alla prima figlia, ai primi due distinti di se stesso. Da ora in poi alla donna spetterà la funzione di conservare nel suo ventre il testo del racconto, come all’uomo la funzione di narrarlo per comunicare ai discendenti i fondamenti, le ragioni de loro potere. La donna al momento del aprto dona ai propri figli, oltre che la vita, il soffio vitale, anche il testo del racconto: sarà, questa, una sorta di inseminazione letteraria e una acquisizione immEdiata del testo da parte dei nuovi nati.”
Bibliography.
BOUCHENAKI Mounir 1999 Préface. La culture populaire, in Francesco Lucarelli e Lello Mazzacane (eds) L’UNESCO et la tutelle du patrimoine immatériel. Les Fetes traditionnelles – Les Gigli de Nola, Extra Moenia, Nola.
GOODY, Jack 1972 The Myth of the Bagre, Oxford University Press, Oxford.
GRIAULE, Marcel 1948 Dieu d’eau, entretiens avec Ogotemmeli, Editions du Chene, Paris.
MYERS, Fred 2004 “Ontologies of the image and economies of exchange”, American Ethnologist, Vol. 31, Issue 1, pp. 1-16.
SCODITTI Giancarlo 2003 Kitawa. Il suono e il colore della memoria, Bollati Boringhieri, Torino.
TYLOR, Edward B. 1871 Primitive Culture, Oxford University Press Oxford.
WEINER Annette B. 1992 Inalienable Possessions. The Paradox of Keping-While-Giving, University of California Press, Berkeley, Los Angeles.
* Paper presented at the General Assembly of the CIPSH (Conseil International de la Philosophie et des Sciences Humaines), Beijing 2004.
martedì 12 ottobre 2010
AN ANTHROPOLOGICAL VIEW OF VISION
In: Diogenes, n. 199, Volume 50, Issue 3, pp.89-98, Sage Publications
UN REGARD ANTHROPOLOGIQUE SUR LA VISION
Article publié sur Diogène n. 199 2002/3
Consulter en accès libre www.cairn.info
Consulter en accès libre www.cairn.info
lunedì 11 ottobre 2010
LA GRATITUDINE
Voll Verdienst, doch dichterisch wohnet
Der Mensch auf dieser Erde
(F. Hölderlin)
Secondo il dizionario Devoto-Oli, gratitudine è un “sentimento di affettuosa riconoscenza per un beneficio o un favore ricevuto e di sincera completa disponibilità a contraccambiarlo. Si tratta di una definizione pressoché identica a quella di tale “virtù” secondo son Tommaso d’Aquino. Se in mezzo vogliamo metterci un capitoletto intitolato Riconoscenza in quella summa di buoni sentimenti che è il Cuore di De Amicis – una lunga lettera di consigli edificanti del padre al figlio adolescente al fine di suscitare in lui quel moto dell’animo specie nei confronti del maestro -, ne abbiamo abbastanza per sapere cosa intendiamo.
E, dato che siamo stati qui chiamati per trattare di essa come parte di una lunga lista di ‘sentimenti’, sappiamo anche di poter collocare la gratitudine dalla parte dei ‘buoni’, ben lontano dai ‘cattivi’ sentimenti dell’odio e della gelosia.
Tuttavia, sembra esservi un limite implicito nell’opportunità di provare e di manifestare tale sentimento nei confronti di qualcun altro. Dobbiamo infatti chiarire un punto preliminare: a differenza di altri sentimenti della lista che si è deciso di prendere in considerazione, come la gioia e la melanconia, la gratitudine è un modo di sentire relazionale, esiste cioè soltanto nei confronti di qualcun altro, con il quale scatta a causa di ciò un legame. E’ tale vincolo a creare disagio nei confronti di un sentimento che, idealmente, è considerato positivo, ma che nel vissuto quotidiano viene sentito anche come un peso, un obbligo da assolvere, magari liberandosene con una buona azione, una volta per tutte.
Qui sta, forse, il significato della seconda parte di ogni definizione di ‘gratitudine’: la “disponibilità a contraccambiare”, quella che san Tommaso esprime come “manifestazione esterna e ricambio nei fatti”. Segni concreti di gratitudine sono ovunque, intorno a noi, come manifestazioni esteriori del riconoscimento di un obbligo per qualcosa che si è ricevuto e della volontà di ricambiarlo, secondo le proprie possibilità: sono segni che ci vengono spesso dal passato, sotto forma di monumenti e memorie di azioni virtuose, che celebrano la virtù di chi, in quei modi visibili, ha dato prova di aver assolto il proprio debito.
Una virtù. insomma, che ha un suo costo: un costo anzitutto psicologico, di cui gli aspetti materiali e le manifestazioni visibili sarebbero l’espressione simbolica. In questo modo d’intendere, si tratterebbe di qualcosa di indotto dall’esterno, da un gesto o da una manifestazione d’affetto di cui siamo stati l’oggetto: non, quindi, di un sentimento spontaneo, che nasce da noi stessi. Per prendere le distanze da un vincolo di tale sorta, molti affermano talvolta di compiere un’azione a favore di qualcuno, o di esprimergli amicizia, per un puro senso di simpatia e di amore, e non perché sentano di avere, nei confronti di quella persona, un debito di riconoscenza.
Dopo questa breve analisi, vorrei suggerire un’interpretazione che, da una parte, inserisca questo nostro, diffuso modo di sentire –ammesso che l’analisi proposta venga condivisa – nel contesto culturale all’interno del quale anche i nostri sentimenti vengono plasmati e ne vengono suggerite le modalità di espressione; e dall’altra liberi la gratitudine da quella percezione di rappresentare un debito morale, che sembra accompagnare lo slancio incondizionato d’affetto.
L’origine di tale ambivalenza mi pare possa ricercarsi in uno dei capisaldi della cultura cui apparteniamo, che rappresenta una delle linee-guida per la formazione, a partire dall’infanzia, di uomini e donne adulti. Essi vengono considerati maturi quando mostrano di essere individui indipendenti, autosufficienti. Per ottenere ciò, il legame di dipendenza dalle figure genitoriali deve allentarsi fino a cessare, per prepararsi a una condizione adulta autonoma e in seguito a riprodurre, da altra posizione, un legame analogo con i propri figli. La gratitudine nei confronti dei genitori, per le cure e la dedizione ricevute, diventa allora una sopravvivenza, una virtù facoltativa. Ma vi è qualcosa di più profondo, che riguarda il legame psicologico intimo con il proprio padre e la propria madre. Per superare i travagli dell’adolescenza, si ritiene che un individuo debba liberarsi dai legami con gli amati/odiati genitori, che si aggiungono alla consapevolezza del legame biologico, di dovere cioè all’atto sessuale tra di essi il fatto stesso di essere in vita. A ognuno le proprie responsabilità: decidendo di mettere al mondo un figlio, i genitori si assumono il dovere di crescerlo e rispondono delle sue azioni fino a quando raggiunge la maggiore età, quasi che egli non sia che il loro prolungamento naturale. Quanto ai figli, essi non si sentono responsabili del fatto di essere venuti al mondo figli di quei genitori. Tutto quanto hanno ricevuto a partire dalle cure cui devono la loro stessa sopravvivenza, essi non l’hanno chiesto. E’ da ciò che nasce il carattere impositivo della gratitudine che ne consegue: restituzione ideale, sul piano dei sentimenti, dei doni ricevuti, a partire dalla vita stessa.
Vi può essere un altro modo di vedere le cose, a partire da come, all’interno di una cultura, si sia pensato di interpretare il mistero della nascita. Non è tanto essere o meno a conoscenza del meccanismo biologico della riproduzione. Come è noto, testimonianze di antropologi hanno documentato come alcune popolazioni, ancora in epoca contemporanea, ignorassero il rapporto tra atto sessuale e fertilità, o almeno lo considerassero esistente su un piano simbolico, propiziatorio, ma non fisiologico. Era il caso degli abitanti delle isole Trobriand, quando furono studiati da Bronislav Malinowski. Pur non essendo considerato genitore – colui, cioè, che genera – chi si era unito sessualmente alla madre di un bambino ne era considerato il ‘padre’, ruolo che quella società gli riconosceva per quell’atto ritenuto rituale, e che egli esprimeva affettivamente nei confronti del figlio. Quest’ultimo, a sua volta, era grato a quell’adulto che si occupava di lui senza esercitare autorità, non appartenendo al gruppo all’interno del quale egli stava crescendo. Quell’incompleto riconoscimento della funzione del padre si esprimeva infatti a livello sociale , essendo il figlio riconosciuto appartenente al gruppo di parentela della madre ma non di quello del padre. Rispetto a quella figura che si occupava di lui e gli insegnava tante cose utili, il figlio provava gratitudine, mentre l’autorità era esercitata era prerogativa del fratello della madre, l’adulto più vicino a lui all’interno del suo gruppo di parentela.
Non dobbiamo però, dando prova di ingenuità, limitarci a casi come questi, in cui si ha una risposta culturale derivante da una inadeguata conoscenza scientifica. Sapere che i propri padri sono anch’essi genitori, così come le madri, non esaurisce la questione delle cause delle nascite e dei destini che ne derivano. Le interpretazioni sul perché si viene al mondo possono essere molto diverse dalle nostre, presso culture con altra tradizione.Là dove si ritiene che i destini dell’uomo siano retti dalla grande ruota del karma, sarebbero le azioni compiute in una vita precedente a condizionare quella nuova e, fra l’altro, a farci nascere in una certa famiglia piuttosto che in un’altra.
Ospiti passeggeri di quei genitori, in un rapporto che essenzialmente a noi va imputato, ci troviamo alleggeriti da una dipendenza fisica e psicologica da essi. Ecco quindi che in un rapporto privo di aggressività repressa e di conflittualità può scattare un senso di gratitudine del tutto gratuita per quelle persone che, come madre e come padre, si sono occupate di noi permettendoci di realizzare il nostro karma. Sarà una gratitudine che non si esaurirà a una certa età ma alimenterà piuttosto un affetto e un rispetto crescenti col passare degli anni.
Provare gratitudine, e manifestarlo, è inoltre un modo per accumulare karma positivo: è una virtù che non esprime un debito accumulato dalla nascita, ma un atto di pietà filiale. Secondo tale visione, le figure genitoriali non sono un ostacolo al pieno sviluppo della nostra personalità, come mostrano invece molti costrutti culturali occidentali, dal complesso di Edipo al ‘mammismo’.
Sia nel contesto occidentale che nei casi a cui abbiamo accennato, comunque, possiamo dire che la gratitudine si ‘impara’ dalla nascita; prende forma, cioè, nella psicologia infantile come risposta a quel senso di stretta empatia e di dipendenza psicofisica nei confronti di chi assicura la nostra sopravvivenza fin dai primi giorni di vita. Semmai potremmo aggiungere come la diversa interpretazione razionale di questo sentimento mette in risalto che, forse, contrariamente a quanto si crede, non sia l’Occidente il luogo di più accentuato individualismo: considerarsi parte della nostra famiglia per un reciproco destino karmico dà un senso di indipendenza dagli altri, quanto ai propri pensieri e alle nostre azioni , e al senso ultimo della vita; e ciò rende più altruistico, e quindi più meritorio, il senso di gratitudine che deriva dai rapporti con gli altri.
Vi è una cultura orientale, quella giapponese, che ha elaborato una espressione della gratitudine in cui si ha un totale rovesciamento nei modi di sentire il legame che ne deriva. Essa si manifesta in quel modo di sentire che lo psicologo Takeo Doi ha individuato come amae, definito come il piacere de la dipendenza. Si tratta della dipendenza psicologica che si sviluppa insieme a, e a partire da, quella dipendenza fisica che ha il bambino dalla propria madre. Un rapporto quasi esclusivo – la figura del padre, in Giappone, è e deve essere quasi assente – e così gratificante in quella società che si desidera perpetuarlo anche nella vita adulta, trasferendolo ad altre figure dal ruolo influente, come il maestro o il datore di lavoro. Anche se sarà impossibile trovare qualcuno che, come la propria madre, sia capace e desideroso di soddisfare ogni desiderio, i cogliere nell’intimo sogni, dubbi, umori e timori, quello è il rapporto che si cerca di riprodurre nella vita adulta. Un rapporto di gratificante dipendenza, sul modello di quello instauratosi nell’infanzia con la madre. Un modello psicologico che diventa un modello sociale. In Giappone, le madri sono culturalmente incoraggiate a indulgere nella spontanea propensione a viziare i propri figli finché non giungono all’età scolare, ad assecondare ogni loro capriccio; provvederà poi la società stessa, attraverso le sue istituzioni,a impartire una rigida disciplina ai ragazzi, non appena inizieranno a uscrie dall’ambito familiare dominato dalla diade madre-figlio. In quest’ultimo rimarrà un ricordo nostalgico indelebile, e una inestinguibile gratitudine, sempre più rafforzata dal duro impatto con la vita esterna.
Il desiderio di riprodurre quel modello, pur sapendo che sarà impossibile, porta con sé anche una rinnovata disponibilità a provare gratitudine nei confronti di chi si pone in una posizione di benevola protezione, nella vita adulta. E anche qui, la società favorisce tali dinamiche formalizzando le mille forme di rispetto dovute ai superiori e assecondando l’etica confuciana che attribuisce quanto si riceve alla benevolenza altrui più che ai meriti personali. Lungi dal provocare frustrazioni, come vorrebbe una mentalità egocentrica, questa costante riproduzione di un legame di dipendenza provoca un sottile piacere, dato che ricorda - pur senza eguagliarlo – il ‘paradiso perduto’ della gratificante dipendenza dalla madre. Ed è facile allora che la risposta a quella benevolenza di cui si è l’oggetto sia un senso di gratitudine, anch’esso modellato su quello originario infantile.
Quale può essere l’interesse di un’incursione come questa in modi di pensiero altri, al di là della semplice curiosità per qualcosa di esotico? Constatare che altri uomini hanno idee e comportamenti diversi e che ciò non è imputabile a qualche bizzarria ma a consapevoli scelte e convinzioni non significa, come teme qualcuno, appiattire tutto in una visione genericamente relativista, per cui una cosa vale l’altra. Affermare la relatività delle espressioni culturali significa, al contrario, affermare la ricchezza e rinforzare il valore dell’una nel confronto con le molte altre. Ciò si può applicare anche al nostro caso. A taluno, nel nostro ambito culturale, la gratitudine può apparire come una virtù lodevole certo ma un pò infantile, forse anche poco dignitosa, quasi il riconoscimento della sottomissione del beneficiato nei confronti di chi gli ha elargito i suoi favori; il ‘grazie’ di chi, in stato di bisogno, tende la mano.
Non così figura, ad esempio, nel Bushido, il codice dei samurai, espressione di un’etica severa e aristocratica. Il guerriero scelto per difendere una nobile causa è grato a chi l’ha ritenuto degno di assolvere a tale compito, anche se dovesse comportare il sacrificio della propria vita. Quella stessa cultura esprime un senso di gratitudine delicato, struggente e nostalgico, nell’amae. Potremmo considerarli i due poli opposti della gratitudine, virile l’uno e originato da un rapporto femminile l’altro. Ambedue manifestazioni spontanee, segno di generosità d’animo e di dignità personale, pur nel roconoscimento della superiorità gerarchica di chi è oggetto della gratitudine.
Esempi come questo, che ci vengono da società lontane invitano a riflettere sulla nostra elaborazione culturale di questo sentimento e ad interrogarci sul significato da dare al suo apparire nel nostro animo, al suo carattere: è anche, per noi, nobile e disinteressato?
Può essere utile in proposito riflettere sull’esistenza di un concetto, e di un termine linguistico esplicito di riferimento, per indicare il suo opposto: l’ingratitudine, appunto. Non abbiamo bisogno di avere a disposizione una parola per rimproverere a qualcuno, che so, di non essere beato, o gioioso ( sempre per riferirmi a alcuni dei sentimenti considerati in questo simposio). Ma quante volte ricorre, in letteratura e nel linguaggio corrente, l’accusa di ingratitudine! Ciò significa che si dà per implicito che ricorra un do ut des affettivo: ho ricevuto amore e affetto da parte dei genitori, devo allora essere grato, mostrare gratitudine. E così ugualmente nei confronti di chi mi ha fatto dei favori, la società: la patria, si diceva una volta. Si svela allora anche all’interno dei moti d’affetto il carattere di scambio che sembra dominare l’attribuzione di senso e il valore delle azioni umane. E non soltanto per un’estensione del significato mercantilistico attribuito alle cose di questo mondo: anche riguardo all’aldilà il notro comportamento si aspetta di ricevere una ricompensa divina. Non è quindi soltanto in una visione materialistica, ma in un contesto di senso assai più ampio che la gratitudine viene intesa come compenso che ci si attende da parte di chi ha ricevuto qualcosa da noi: pensieri, parole o opere. Altrimenti, si è debitori, si è insolventi, si è ingrati. La gratitudine, intesa in tal senso, non è un atto gratuito.
Il Romanticismo incoraggiò, in una fusione tra arte e vita, lo slancio generoso, altruistico, che non si aspetta altra ricompensa se non quella che deriva dalla consapevolezza di avere saputo elevarsi dalle miserie della quotidianità, nel dialogo con la natura e nell’agire seguendo l’impulso di ideali disinteressati. In questo clima culturale, l’eroe non si aspettava gratitudine per i suoi gesti dall’uomo comune, ma non ne era per questo amareggiato. Era piuttosto all’interno delle piccole virtù borghesi ottocentesche dell’operosità, dei legami familiari e delle vicende patrie, esaltate dal protestantesimo, che si riteneva legittimo aspettarsi un compenso: sotto forma di gratitudine da parte dei figli o della nazione, soddisfazione personale ma anche segno di avere bene operato e di essersi meritati un riconoscimento da parte degli uomini. Poco prima che si affermassero nella cultura europea quelle piccole virtù borghesi, a suggerire una forma estrema di disinteressato sentimento di gratitudine , è stata la voce, sublime ma inascoltata, di Hölderlin. Secondo il poeta tedesco, “ l’uomo si eleva al di sopra della necessità nella misura in cui si ricorda del suo destino e può e vuole essere grato della sua vita”. E’ il dono stesso della vita che vincola l’uomo a esprimere gratitudine. In un suo verso famoso (che abbiamo inserito in originale in testa a questo scritto), Hölderlin precisa: “Pieno di merito ma poeticamente abita/ l’uomo su questa terra”. “Pieno di merito” fa riferimento a quella figura che potremmo chiamare dell’homo faber: l’uomo ha in larga parte plasmato il suo modo di vivere su questa terra e ne è consapevole, meriti (e danni) gliene vanno attribuiti. Ciò che aggiunge Hoölderlin è davvero degno di un poeta, ed è quel “ma poeticamente”: significa, come suggeriscono i suoi esegeti, che vi è qualcosa in più, rappresentato appunto dalla gratitudine per il dono ricevuto della vita, anche se accompagnato dalla nozione drammatica del trascorrere del tempo e quindi del termine di essa.
Eppure, se scendiamo dall’empireo ideale del mondo poetico e, da osservatori dell’uomo, posiamo un occhio forse impietoso sull’uomo Hölderlin, possiamo scorgere nella drammaticità stessa della sua vita la contraddizione insanabile di un modo dualistico di concepire la gratitudine, puro slancio da una parte, ma anche compenso di un credito che il beneficiante si aspetta gli venga riconosciuto; altrimenti, scatta l’arma di accusa di ingratitudine. Simbolicamente, la follia dell’uomo Hölderlin, che passa la seconda metà della sua vita rinchiuso nella torre della casa del falegname di Tübingen, esprime l’ingratitudine che il poeta ha provato da parte del mondo, che non ha riconosciuto la sua grandezza e l’ha fatto oggetto di molte grettezze e ingiustizie. Ma perché mai il mondo, possiamo chiederci lucidamente anche se impietosamente, avrebbe dovuto essergli grato? E perché mai quella stessa gratitudine per aver ricevuto la vita, che egli aveva saputo così bene esprimere, non poteva manifestarsi gratuitamente, senza che il poeta nulla chiedesse al mondo?
Possiamo ritenere che la sua, la nostra cultura non gli abbia fornito i modi adeguati per maturare in sé e manifestare in modo libero e non condizionato quel sentimento, senza cioè nulla aspettarsi dagli altri. Dagli altri mortali almeno, se non dagli dei, veri interlocutori dei poeti.
La follia in cui si rifugiò Hölderlin non è forse altro che una inadeguata risposta agli interrogativi che ci pone la vita per i quali la cultura alla quale apparteniamo ci propone delle soluzioni non da tutti accettate o accettabili.
Der Mensch auf dieser Erde
(F. Hölderlin)
Secondo il dizionario Devoto-Oli, gratitudine è un “sentimento di affettuosa riconoscenza per un beneficio o un favore ricevuto e di sincera completa disponibilità a contraccambiarlo. Si tratta di una definizione pressoché identica a quella di tale “virtù” secondo son Tommaso d’Aquino. Se in mezzo vogliamo metterci un capitoletto intitolato Riconoscenza in quella summa di buoni sentimenti che è il Cuore di De Amicis – una lunga lettera di consigli edificanti del padre al figlio adolescente al fine di suscitare in lui quel moto dell’animo specie nei confronti del maestro -, ne abbiamo abbastanza per sapere cosa intendiamo.
E, dato che siamo stati qui chiamati per trattare di essa come parte di una lunga lista di ‘sentimenti’, sappiamo anche di poter collocare la gratitudine dalla parte dei ‘buoni’, ben lontano dai ‘cattivi’ sentimenti dell’odio e della gelosia.
Tuttavia, sembra esservi un limite implicito nell’opportunità di provare e di manifestare tale sentimento nei confronti di qualcun altro. Dobbiamo infatti chiarire un punto preliminare: a differenza di altri sentimenti della lista che si è deciso di prendere in considerazione, come la gioia e la melanconia, la gratitudine è un modo di sentire relazionale, esiste cioè soltanto nei confronti di qualcun altro, con il quale scatta a causa di ciò un legame. E’ tale vincolo a creare disagio nei confronti di un sentimento che, idealmente, è considerato positivo, ma che nel vissuto quotidiano viene sentito anche come un peso, un obbligo da assolvere, magari liberandosene con una buona azione, una volta per tutte.
Qui sta, forse, il significato della seconda parte di ogni definizione di ‘gratitudine’: la “disponibilità a contraccambiare”, quella che san Tommaso esprime come “manifestazione esterna e ricambio nei fatti”. Segni concreti di gratitudine sono ovunque, intorno a noi, come manifestazioni esteriori del riconoscimento di un obbligo per qualcosa che si è ricevuto e della volontà di ricambiarlo, secondo le proprie possibilità: sono segni che ci vengono spesso dal passato, sotto forma di monumenti e memorie di azioni virtuose, che celebrano la virtù di chi, in quei modi visibili, ha dato prova di aver assolto il proprio debito.
Una virtù. insomma, che ha un suo costo: un costo anzitutto psicologico, di cui gli aspetti materiali e le manifestazioni visibili sarebbero l’espressione simbolica. In questo modo d’intendere, si tratterebbe di qualcosa di indotto dall’esterno, da un gesto o da una manifestazione d’affetto di cui siamo stati l’oggetto: non, quindi, di un sentimento spontaneo, che nasce da noi stessi. Per prendere le distanze da un vincolo di tale sorta, molti affermano talvolta di compiere un’azione a favore di qualcuno, o di esprimergli amicizia, per un puro senso di simpatia e di amore, e non perché sentano di avere, nei confronti di quella persona, un debito di riconoscenza.
Dopo questa breve analisi, vorrei suggerire un’interpretazione che, da una parte, inserisca questo nostro, diffuso modo di sentire –ammesso che l’analisi proposta venga condivisa – nel contesto culturale all’interno del quale anche i nostri sentimenti vengono plasmati e ne vengono suggerite le modalità di espressione; e dall’altra liberi la gratitudine da quella percezione di rappresentare un debito morale, che sembra accompagnare lo slancio incondizionato d’affetto.
L’origine di tale ambivalenza mi pare possa ricercarsi in uno dei capisaldi della cultura cui apparteniamo, che rappresenta una delle linee-guida per la formazione, a partire dall’infanzia, di uomini e donne adulti. Essi vengono considerati maturi quando mostrano di essere individui indipendenti, autosufficienti. Per ottenere ciò, il legame di dipendenza dalle figure genitoriali deve allentarsi fino a cessare, per prepararsi a una condizione adulta autonoma e in seguito a riprodurre, da altra posizione, un legame analogo con i propri figli. La gratitudine nei confronti dei genitori, per le cure e la dedizione ricevute, diventa allora una sopravvivenza, una virtù facoltativa. Ma vi è qualcosa di più profondo, che riguarda il legame psicologico intimo con il proprio padre e la propria madre. Per superare i travagli dell’adolescenza, si ritiene che un individuo debba liberarsi dai legami con gli amati/odiati genitori, che si aggiungono alla consapevolezza del legame biologico, di dovere cioè all’atto sessuale tra di essi il fatto stesso di essere in vita. A ognuno le proprie responsabilità: decidendo di mettere al mondo un figlio, i genitori si assumono il dovere di crescerlo e rispondono delle sue azioni fino a quando raggiunge la maggiore età, quasi che egli non sia che il loro prolungamento naturale. Quanto ai figli, essi non si sentono responsabili del fatto di essere venuti al mondo figli di quei genitori. Tutto quanto hanno ricevuto a partire dalle cure cui devono la loro stessa sopravvivenza, essi non l’hanno chiesto. E’ da ciò che nasce il carattere impositivo della gratitudine che ne consegue: restituzione ideale, sul piano dei sentimenti, dei doni ricevuti, a partire dalla vita stessa.
Vi può essere un altro modo di vedere le cose, a partire da come, all’interno di una cultura, si sia pensato di interpretare il mistero della nascita. Non è tanto essere o meno a conoscenza del meccanismo biologico della riproduzione. Come è noto, testimonianze di antropologi hanno documentato come alcune popolazioni, ancora in epoca contemporanea, ignorassero il rapporto tra atto sessuale e fertilità, o almeno lo considerassero esistente su un piano simbolico, propiziatorio, ma non fisiologico. Era il caso degli abitanti delle isole Trobriand, quando furono studiati da Bronislav Malinowski. Pur non essendo considerato genitore – colui, cioè, che genera – chi si era unito sessualmente alla madre di un bambino ne era considerato il ‘padre’, ruolo che quella società gli riconosceva per quell’atto ritenuto rituale, e che egli esprimeva affettivamente nei confronti del figlio. Quest’ultimo, a sua volta, era grato a quell’adulto che si occupava di lui senza esercitare autorità, non appartenendo al gruppo all’interno del quale egli stava crescendo. Quell’incompleto riconoscimento della funzione del padre si esprimeva infatti a livello sociale , essendo il figlio riconosciuto appartenente al gruppo di parentela della madre ma non di quello del padre. Rispetto a quella figura che si occupava di lui e gli insegnava tante cose utili, il figlio provava gratitudine, mentre l’autorità era esercitata era prerogativa del fratello della madre, l’adulto più vicino a lui all’interno del suo gruppo di parentela.
Non dobbiamo però, dando prova di ingenuità, limitarci a casi come questi, in cui si ha una risposta culturale derivante da una inadeguata conoscenza scientifica. Sapere che i propri padri sono anch’essi genitori, così come le madri, non esaurisce la questione delle cause delle nascite e dei destini che ne derivano. Le interpretazioni sul perché si viene al mondo possono essere molto diverse dalle nostre, presso culture con altra tradizione.Là dove si ritiene che i destini dell’uomo siano retti dalla grande ruota del karma, sarebbero le azioni compiute in una vita precedente a condizionare quella nuova e, fra l’altro, a farci nascere in una certa famiglia piuttosto che in un’altra.
Ospiti passeggeri di quei genitori, in un rapporto che essenzialmente a noi va imputato, ci troviamo alleggeriti da una dipendenza fisica e psicologica da essi. Ecco quindi che in un rapporto privo di aggressività repressa e di conflittualità può scattare un senso di gratitudine del tutto gratuita per quelle persone che, come madre e come padre, si sono occupate di noi permettendoci di realizzare il nostro karma. Sarà una gratitudine che non si esaurirà a una certa età ma alimenterà piuttosto un affetto e un rispetto crescenti col passare degli anni.
Provare gratitudine, e manifestarlo, è inoltre un modo per accumulare karma positivo: è una virtù che non esprime un debito accumulato dalla nascita, ma un atto di pietà filiale. Secondo tale visione, le figure genitoriali non sono un ostacolo al pieno sviluppo della nostra personalità, come mostrano invece molti costrutti culturali occidentali, dal complesso di Edipo al ‘mammismo’.
Sia nel contesto occidentale che nei casi a cui abbiamo accennato, comunque, possiamo dire che la gratitudine si ‘impara’ dalla nascita; prende forma, cioè, nella psicologia infantile come risposta a quel senso di stretta empatia e di dipendenza psicofisica nei confronti di chi assicura la nostra sopravvivenza fin dai primi giorni di vita. Semmai potremmo aggiungere come la diversa interpretazione razionale di questo sentimento mette in risalto che, forse, contrariamente a quanto si crede, non sia l’Occidente il luogo di più accentuato individualismo: considerarsi parte della nostra famiglia per un reciproco destino karmico dà un senso di indipendenza dagli altri, quanto ai propri pensieri e alle nostre azioni , e al senso ultimo della vita; e ciò rende più altruistico, e quindi più meritorio, il senso di gratitudine che deriva dai rapporti con gli altri.
Vi è una cultura orientale, quella giapponese, che ha elaborato una espressione della gratitudine in cui si ha un totale rovesciamento nei modi di sentire il legame che ne deriva. Essa si manifesta in quel modo di sentire che lo psicologo Takeo Doi ha individuato come amae, definito come il piacere de la dipendenza. Si tratta della dipendenza psicologica che si sviluppa insieme a, e a partire da, quella dipendenza fisica che ha il bambino dalla propria madre. Un rapporto quasi esclusivo – la figura del padre, in Giappone, è e deve essere quasi assente – e così gratificante in quella società che si desidera perpetuarlo anche nella vita adulta, trasferendolo ad altre figure dal ruolo influente, come il maestro o il datore di lavoro. Anche se sarà impossibile trovare qualcuno che, come la propria madre, sia capace e desideroso di soddisfare ogni desiderio, i cogliere nell’intimo sogni, dubbi, umori e timori, quello è il rapporto che si cerca di riprodurre nella vita adulta. Un rapporto di gratificante dipendenza, sul modello di quello instauratosi nell’infanzia con la madre. Un modello psicologico che diventa un modello sociale. In Giappone, le madri sono culturalmente incoraggiate a indulgere nella spontanea propensione a viziare i propri figli finché non giungono all’età scolare, ad assecondare ogni loro capriccio; provvederà poi la società stessa, attraverso le sue istituzioni,a impartire una rigida disciplina ai ragazzi, non appena inizieranno a uscrie dall’ambito familiare dominato dalla diade madre-figlio. In quest’ultimo rimarrà un ricordo nostalgico indelebile, e una inestinguibile gratitudine, sempre più rafforzata dal duro impatto con la vita esterna.
Il desiderio di riprodurre quel modello, pur sapendo che sarà impossibile, porta con sé anche una rinnovata disponibilità a provare gratitudine nei confronti di chi si pone in una posizione di benevola protezione, nella vita adulta. E anche qui, la società favorisce tali dinamiche formalizzando le mille forme di rispetto dovute ai superiori e assecondando l’etica confuciana che attribuisce quanto si riceve alla benevolenza altrui più che ai meriti personali. Lungi dal provocare frustrazioni, come vorrebbe una mentalità egocentrica, questa costante riproduzione di un legame di dipendenza provoca un sottile piacere, dato che ricorda - pur senza eguagliarlo – il ‘paradiso perduto’ della gratificante dipendenza dalla madre. Ed è facile allora che la risposta a quella benevolenza di cui si è l’oggetto sia un senso di gratitudine, anch’esso modellato su quello originario infantile.
Quale può essere l’interesse di un’incursione come questa in modi di pensiero altri, al di là della semplice curiosità per qualcosa di esotico? Constatare che altri uomini hanno idee e comportamenti diversi e che ciò non è imputabile a qualche bizzarria ma a consapevoli scelte e convinzioni non significa, come teme qualcuno, appiattire tutto in una visione genericamente relativista, per cui una cosa vale l’altra. Affermare la relatività delle espressioni culturali significa, al contrario, affermare la ricchezza e rinforzare il valore dell’una nel confronto con le molte altre. Ciò si può applicare anche al nostro caso. A taluno, nel nostro ambito culturale, la gratitudine può apparire come una virtù lodevole certo ma un pò infantile, forse anche poco dignitosa, quasi il riconoscimento della sottomissione del beneficiato nei confronti di chi gli ha elargito i suoi favori; il ‘grazie’ di chi, in stato di bisogno, tende la mano.
Non così figura, ad esempio, nel Bushido, il codice dei samurai, espressione di un’etica severa e aristocratica. Il guerriero scelto per difendere una nobile causa è grato a chi l’ha ritenuto degno di assolvere a tale compito, anche se dovesse comportare il sacrificio della propria vita. Quella stessa cultura esprime un senso di gratitudine delicato, struggente e nostalgico, nell’amae. Potremmo considerarli i due poli opposti della gratitudine, virile l’uno e originato da un rapporto femminile l’altro. Ambedue manifestazioni spontanee, segno di generosità d’animo e di dignità personale, pur nel roconoscimento della superiorità gerarchica di chi è oggetto della gratitudine.
Esempi come questo, che ci vengono da società lontane invitano a riflettere sulla nostra elaborazione culturale di questo sentimento e ad interrogarci sul significato da dare al suo apparire nel nostro animo, al suo carattere: è anche, per noi, nobile e disinteressato?
Può essere utile in proposito riflettere sull’esistenza di un concetto, e di un termine linguistico esplicito di riferimento, per indicare il suo opposto: l’ingratitudine, appunto. Non abbiamo bisogno di avere a disposizione una parola per rimproverere a qualcuno, che so, di non essere beato, o gioioso ( sempre per riferirmi a alcuni dei sentimenti considerati in questo simposio). Ma quante volte ricorre, in letteratura e nel linguaggio corrente, l’accusa di ingratitudine! Ciò significa che si dà per implicito che ricorra un do ut des affettivo: ho ricevuto amore e affetto da parte dei genitori, devo allora essere grato, mostrare gratitudine. E così ugualmente nei confronti di chi mi ha fatto dei favori, la società: la patria, si diceva una volta. Si svela allora anche all’interno dei moti d’affetto il carattere di scambio che sembra dominare l’attribuzione di senso e il valore delle azioni umane. E non soltanto per un’estensione del significato mercantilistico attribuito alle cose di questo mondo: anche riguardo all’aldilà il notro comportamento si aspetta di ricevere una ricompensa divina. Non è quindi soltanto in una visione materialistica, ma in un contesto di senso assai più ampio che la gratitudine viene intesa come compenso che ci si attende da parte di chi ha ricevuto qualcosa da noi: pensieri, parole o opere. Altrimenti, si è debitori, si è insolventi, si è ingrati. La gratitudine, intesa in tal senso, non è un atto gratuito.
Il Romanticismo incoraggiò, in una fusione tra arte e vita, lo slancio generoso, altruistico, che non si aspetta altra ricompensa se non quella che deriva dalla consapevolezza di avere saputo elevarsi dalle miserie della quotidianità, nel dialogo con la natura e nell’agire seguendo l’impulso di ideali disinteressati. In questo clima culturale, l’eroe non si aspettava gratitudine per i suoi gesti dall’uomo comune, ma non ne era per questo amareggiato. Era piuttosto all’interno delle piccole virtù borghesi ottocentesche dell’operosità, dei legami familiari e delle vicende patrie, esaltate dal protestantesimo, che si riteneva legittimo aspettarsi un compenso: sotto forma di gratitudine da parte dei figli o della nazione, soddisfazione personale ma anche segno di avere bene operato e di essersi meritati un riconoscimento da parte degli uomini. Poco prima che si affermassero nella cultura europea quelle piccole virtù borghesi, a suggerire una forma estrema di disinteressato sentimento di gratitudine , è stata la voce, sublime ma inascoltata, di Hölderlin. Secondo il poeta tedesco, “ l’uomo si eleva al di sopra della necessità nella misura in cui si ricorda del suo destino e può e vuole essere grato della sua vita”. E’ il dono stesso della vita che vincola l’uomo a esprimere gratitudine. In un suo verso famoso (che abbiamo inserito in originale in testa a questo scritto), Hölderlin precisa: “Pieno di merito ma poeticamente abita/ l’uomo su questa terra”. “Pieno di merito” fa riferimento a quella figura che potremmo chiamare dell’homo faber: l’uomo ha in larga parte plasmato il suo modo di vivere su questa terra e ne è consapevole, meriti (e danni) gliene vanno attribuiti. Ciò che aggiunge Hoölderlin è davvero degno di un poeta, ed è quel “ma poeticamente”: significa, come suggeriscono i suoi esegeti, che vi è qualcosa in più, rappresentato appunto dalla gratitudine per il dono ricevuto della vita, anche se accompagnato dalla nozione drammatica del trascorrere del tempo e quindi del termine di essa.
Eppure, se scendiamo dall’empireo ideale del mondo poetico e, da osservatori dell’uomo, posiamo un occhio forse impietoso sull’uomo Hölderlin, possiamo scorgere nella drammaticità stessa della sua vita la contraddizione insanabile di un modo dualistico di concepire la gratitudine, puro slancio da una parte, ma anche compenso di un credito che il beneficiante si aspetta gli venga riconosciuto; altrimenti, scatta l’arma di accusa di ingratitudine. Simbolicamente, la follia dell’uomo Hölderlin, che passa la seconda metà della sua vita rinchiuso nella torre della casa del falegname di Tübingen, esprime l’ingratitudine che il poeta ha provato da parte del mondo, che non ha riconosciuto la sua grandezza e l’ha fatto oggetto di molte grettezze e ingiustizie. Ma perché mai il mondo, possiamo chiederci lucidamente anche se impietosamente, avrebbe dovuto essergli grato? E perché mai quella stessa gratitudine per aver ricevuto la vita, che egli aveva saputo così bene esprimere, non poteva manifestarsi gratuitamente, senza che il poeta nulla chiedesse al mondo?
Possiamo ritenere che la sua, la nostra cultura non gli abbia fornito i modi adeguati per maturare in sé e manifestare in modo libero e non condizionato quel sentimento, senza cioè nulla aspettarsi dagli altri. Dagli altri mortali almeno, se non dagli dei, veri interlocutori dei poeti.
La follia in cui si rifugiò Hölderlin non è forse altro che una inadeguata risposta agli interrogativi che ci pone la vita per i quali la cultura alla quale apparteniamo ci propone delle soluzioni non da tutti accettate o accettabili.
domenica 10 ottobre 2010
UN RICORDO DI LEVI-STRAUSS
"Je ne lis pas facilement l’italien, mais j’y arrive en m’appliquant". Il 7 giugno 1991 ricevo da Claude Lévi-Strauss una lettera che così inizia. Mi ringrazia per avergli inviato due miei libri sul Giappone, da poco usciti. Avevo saputo che Lévi-Strauss era di ritorno da quel paese dove, al seguito della moglie, esperta di tessuti tradizionali, aveva visitato tra l’altro la collezione di kimono del Museo nazionale di etnologia a Osaka, dove avevo a lungo fatto ricerche, e i miei colleghi di lì mi avevano comunicato quanto egli si fosse mostrato colpito da quella cultura che poco conosceva. Eccitato dal fatto che il ‘mio’ Giappone avesse sedotto anche il Maestro, ero stato colto dall’impulso di fargli quell’omaggio, senza riflettere sulla questione della lingua, anzi senza minimamente aspettarmi che trovasse tempo e voglia di leggere le mie pagine.
Tralascio il seguito di quella prima riga, per l’imbarazzo che provo a rileggerne i lusinghieri, immeritati apprezzamenti: ma il suo commento mostrava chiaramente che quei testi in italiano di un suo semisconosciuto collega egli se li stata davvero leggendo, sia pure a fatica. Non si trattava di una semplice espressione di francese cortesia.
E me lo immaginai, quel celebrato maître à penser, ottantatreenne, nel suo studio in alto nella biblioteca del Collège, chino sulle mie pagine, nello sforzo di comprenderne le parole, ‘en s’appliquant’. Che lezione!
Una lezione che a me torna alla mente quasi ogni giorno, una lezione per tutti noi di rigore e di passione per il comune mestiere di osservatori dell’uomo, una lezione di modestia scientifica nel continuo ricercare. Quale migliore insegnamento, attraverso questo piccolo aneddoto rivelatore, che invitarci a lavorare, a vivere, en s’appliquant?
Tralascio il seguito di quella prima riga, per l’imbarazzo che provo a rileggerne i lusinghieri, immeritati apprezzamenti: ma il suo commento mostrava chiaramente che quei testi in italiano di un suo semisconosciuto collega egli se li stata davvero leggendo, sia pure a fatica. Non si trattava di una semplice espressione di francese cortesia.
E me lo immaginai, quel celebrato maître à penser, ottantatreenne, nel suo studio in alto nella biblioteca del Collège, chino sulle mie pagine, nello sforzo di comprenderne le parole, ‘en s’appliquant’. Che lezione!
Una lezione che a me torna alla mente quasi ogni giorno, una lezione per tutti noi di rigore e di passione per il comune mestiere di osservatori dell’uomo, una lezione di modestia scientifica nel continuo ricercare. Quale migliore insegnamento, attraverso questo piccolo aneddoto rivelatore, che invitarci a lavorare, a vivere, en s’appliquant?
mercoledì 29 settembre 2010
I SENSI AL CINEMA *
Una delle più belle e delicate dichiarazioni d’amore – di una donna a un uomo- è la battuta finale di Luci della città. Alla bella fioraia ritrovata, che ha riacquistato la vista, Chaplin incredulo domanda: “Ma allora, ci vedete?” e lei risponde “Adesso, sì”. Come a dire che è quell’incontro a dare un senso al suo senso ritrovato.
Con una geniale inversione, Chaplin vuole dirci che è l’amore a farci vedere, non già la vista a suscitarci i moti dell’animo, attraverso il fascino e l’avvenenza fisica. Si aggiunga che, per comunicare questo allo spettatore, Chaplin aveva scelto di rinunciare alle voci, girando nel 1931 il suo ultimo film nello stile classico del muto, in piena esplosione del sonoro. Le parole dei protagonisti compaiono scritte nei tipici, scarni pannelli neri che interrompono la scena. Non è con frasi suadenti e incantatrici che chi è cieco deve cercare un surrogato all’impossibilità di entrare in contatto con il mondo attraverso la vista. Bastano due parole. Gli occhi della fioraia trovano conferma di ciò che lei già aveva sentito, con quella acuità che solo la mancanza può suscitare.
Il cinema è l’invenzione che forse nel modo più potente celebra la visualità. Ma, diversamente dalle altre arti visive, deve emergere a ogni rappresentazione dal suo opposto, il buio. E’ dal ‘buio in sala’ che ogni volta il cinema rinasce. Una opposizione che ne rivela la stretta relazione, qualcosa che somiglia al rapporto tra il blocco informe di marmo e la statua che già, nella mente dello scultore, vi è contenuta. Se Michelangelo diceva che la scultura è l’arte del togliere, si può dire che il cinema, tutto il cinema, sia l’arte di far emergere dal buio la luce, quella invisibile luce interiore che è contenuta in ciò che si intende rappresentare, e che va distinto da ciò che è passivamente, percettivamente visto: come quell’attimo di buio totale prima dell’inizio di un film sottolinea efficacemente.
Il buio percettivo di chi è cieco è stato fonte di ispirazione per molti film, dopo l’insuperato capolavoro di Chaplin. Il più noto, forse, è stato Profumo di donna che, dopo la pellicola diretta da Dino Risi nel 1974, ha conosciuto un remake hollywodiano nel 1992. In entrambi i casi, il soggetto – un ufficiale reduce dell’esercito, rimasto cieco in un episodio bellico, viene accompagnato da un ragazzo in un viaggio alla ricerca di sensazioni, preminentemente sessuali, e spericolate emozioni, a bordo di una Ferrari – è stato ritenuto un banco di prova per la recitazione del protagonista. Sono scesi in campo due autentici mattatori, Vittorio Gassman e Al Pacino, e in ognuno dei casi le loro prove sono state all’altezza della fama. Ma i dialoghi nei due film sono sconcertanti: non basta la vita militaresca alle spalle del protagonista a giustificare una insistenza - che nel film americano si fa imbarazzante - sull’associazione tra cecità e turpiloquio, quasi che la mancanza di contatti vitali derivante dalla prima volesse trovare una compensazione in una grevemente carnale espressività della parola.
Non è facile che un film riesca a rendere il fascino umbratile del vissuto di chi è spettatore di un mondo che gli si cela dietro uno schermo oscuro ma del quale tenta tuttavia di darsi una rappresentazione, creando un ineffabile mondo immaginato – ma non immaginario – in grado quindi di essere condiviso con chi guarda lo schermo al cinema.
Quando il cinema inventa le sue storie, viene evocata una realtà immaginaria: saper cogliere quella che impropriamente viene definita la ‘finzione’ cinematografica ci rivela quanto incommensurabili siano i confini dei nostri sensi, che immagini e suoni non fanno che stimolare. Questo potere evocatore di un universo invisibile – quale è quello delle emozioni e dei sentimenti dei personaggi sullo schermo – e di eventi messi in scena per volontà demiurgica dell’autore-regista, ci rimanda con forza metaforica a ciò che tutti noi compiamo in ogni momento della vita quotidiana.
Che siano spunti percettivi di onde hertziane che giungono agli occhi e alle orecchie, contatti fisici diretti sulla pelle e dagli alimenti nella bocca, o particelle che entrano per via aerea nelle narici, è sempre la nostra mente che si attiva per classificare, attribuire un significato, e per richiamare alla memoria altre esperienze, per suggerire un’interpretazione, un valore, piacere o disgusto, desiderio o pericolo. E’l’esperienza sensoriale a guidarci, anche quando non vi è una relazione immediata e diretta con ciò che avviene intorno a noi, perchè da qualche parte in quell’universo in miniatura che è il nostro cervello vi è immagazzinata la storia della nostra vita, dalla nascita e forse prima.
E’ per tutto questo che, non diversamente da quanto avviene con il teatro delle ombre indonesiano, delle silhouettes che, nel cinema, si muovono appiattite su uno schermo possono tanto coinvolgerci.
La prima reazione dei bambini balinesi portati a uno spettacolo di wayang kulit è quella di andare a vedere cosa c’è dietro allo schermo. Lì c’è il dalang, nobile professione ereditata di padre in figlio, a cui spetta il compito di far rivivere gli eventi del teatro epico; qui autori, registi e attori. Nell’un caso come nell’altro, si tratta di produrre semplici ombre proiettate su uno schermo: quanto più è evanescente il mezzo espressivo al quale è affidata l’azione scenica, tanto meglio se ne coglie il significato e la funzione. Sono messaggi sensoriali, niente di più: dentro o dietro allo schermo non vi è nulla di reale. Così come il dalang fa uscire i suoi personaggi dal baule, gli autori che nelle nostre culture si esprimono attraverso il cinema evocano le ombre che escono dalla loro mente e le comunicano a noi con luci, suoni. Semplici onde herziane: ma la nostra mente, guidata dall’esperienza, da memorie e dalla cultura in cui si è formata, le trasforma in eroi, donne in amore, feroci assassini, battaglie e poetici paesaggi.
Appare facilmente comprensibile che un mezzo espressivo visivo per eccellenza come il cinema, sia di invenzione che di documentazione, sia rimasto spesso attratto dalla vista, o meglio dalla sua mancanza, nei soggetti rappresentati. Sordità e olfatto hanno avuto il più delle volte ruoli comprimari, spesso macchiettistici. Un’eccezione è rappresentata da Profumo (206), del regista Twyker, tratto dal romanzo di Suskind, in cui al centro della trama sta l’avventura olfattiva del protagonista. Quanto al gusto, non si contano le tavolate di ogni genere e periodo storico.
Si va dalla scena surrealista nel Fascino discreto della borghesia (1972), di Luis Bunuel, in cui gli eleganti personaggi stanno seduti imperturbabili su tazze di water, alle scene casarecce di tante commedie all’italiana, come ad esempio quella , nella Famiglia Passaguai (1951), di Aldo Fabrizi, in cui lui stesso con Ave Ninchi e Peppino De Filippo celebrano gastronomicamente una gita al mare. Ma il gusto ha ispirato anche più sottili, e perverse, associazioni, come in Dillinger è morto (1968), di Marco Ferreri o, sempre di Ferreri, La grande bouffe (1973), in cui in ambedue i casi l’impegno a elaborare raffinati manicaretti si accompagna ambiguamente con un desiderio di procurare al tempo stesso piacere e morte.
Se poi veniamo al tatto, anche senza considerare la pornografia, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per le qualità tattili specifiche della tecnica espressiva adottata, basterà citare le riprese con cui l’obbiettivo, in Hiroshima mon amour (1959), di Alain Resnais, scorre lungo la pelle della protagonista Emmanuelle Riva come fosse la voluttuosa carezza del suo amante, simbolica reazione erotica alla morte atomica che li avvolge e che si intravvede dalla finestra della camera.
Grazie alla forza dell’immagine e al suo potere di venire archiviata con più efficaci e duraturi strumenti di altre impressioni sensoriali nella nostra mente, si depositano nella memoria gli stimoli sinestetici trasmessi da un filmato.
Di recente, grazie ai progressi che si stanno avendo nelle neuroscienze, espressioni quali memorie, eredità culturali, esperienze hanno trovato una loro localizzazione nel cervello e si va dipanando la fittissima rete di connessioni neuronali tra le varie parti, che collaborano affnché ci si possa formare un’idea di ciò che avviene fuori e dentro il nostro corpo, la nostra mente. Memoria, eredità culturale, esperienze non sono più soltanto astratte espressioni concettuali; sappiamo dove stanno e quando si attivano, che facciano parte del nostro patrimionio genetico o siano il risultato dell’archiviazione di eventi che, attraverso i sensi, si sono impressi nella mente.
Siamo eredi della classica divisione aristotelica in cinque sensi (anche se il filosofo greco in realtà ne comprendeva altri, interiori, come la memoria). Da allora, li immaginiamo come delle dotazioni che ci fanno reagire a stimoli esterni: onde luminose, onde sonore, pulviscoli odorosi, sapori che stimolano la lingua, contatti sulla pelle. In tutti i casi, si tratta di reazioni passive, e non a caso di parla di recettori sensoriali. Ma potremmo considerare appartenenti ai sensi anche quelle attività intenzionali di cui siamo dotati, e che fanno riferimento, come i primi, a organi specifici.
Il movimento, anzitutto, con il suo apparato di muscoli e tendini guidati da fasci nervosi che li collegano a cervello e midollo spinale. Ancor più quell’insieme che forma l’organo che possiamo chiamare di fonazione, e che comprende le corde vocali, stimolate dall’aria dei polmoni, i cui suoni sono amplificati dal palato che funziona da cassa di risonanza, da lingua e labbra.
Tenere conto di queste potenzialità vitali del nostro corpo e considerarle alla stregua di veri e propri sensi ci rende meglio consapevoli di come sia limitativo osservare solo la fisiologia del nostro corpo, e sia invece necessario considerare i fattori culturali che guidano le nostre azioni tanto da renderli indispensabili per il funzionamento stesso dei nostri organi. L’attività vocale, ad esempio, ha consentito l’espressione del linguaggio, su cui si è fondata l’evoluzione culturale dell’uomo, attraverso l’interazione con un altro senso, quello dell’udito. Questa interdipendenza sensoriale, e il suo fondamento culturale, trovano evidenza nel caso dei sordomuti che, come si sa, nella quasi totalità dei casi non sono muti affatto ma, essendo sordi fin dalla nascita, non possono ricevere le informazioni necessarie per elaborare i modi di esprimersi a parole.
Quando il cinema ha tratto la sua ispirazione direttamente dal mondo esterno, nelle varie forme dello stile documentario, l’ obiettivo è stato generalmente quello di trasmettere il più possibile allo spettatore l’impressione di essere là. Per ottenere questo effetto, ci si è serviti degli strumenti messi via via a disposizione dalla tecnologia per catturare nel modo più appropriato ambienti e comportamenti umani. Il rapido progresso degli strumenti di registrazione audiovisiva ha portato a una rincorsa, al fine di utilizzare le sempre più perfezionate possibilità di riproduzione di suoni e immagini. L’ultima e più significativa rivoluzione in tal senso è stata la digitalizzazione dei messaggi visivi e sonori, che ha reso al tempo stesso più semplici e più efficaci le riproduzioni. Silenziosità, possibilità di registrare in condizioni di luminosità estremamente basse, lunghezza quasi illimitata delle riprese e abbattimento dei costi delle attrezzature e dei supporti, hanno portato a trasformare le videocamere da totem professionali circondati di un’aura a protesi nelle mani di chiunque. La registrazione di suoni e immagini è oramai considerata un’estensione delle nostre dotazioni sensoriali e della possibilità di mettere quegli input in una nostra memoria, digitale anziché cerebrale, attivabile anch’essa a piacere per poter essere utilizzata al fine di richiamare e successivamente interpretare gli impulsi sensoriali.
In un certo senso, ciò ha finito per ‘umanizzare’ la tecnologia, rendendola un duttile strumento per potenziare le nostre dotazioni naturali. Ma, come si sa, l’incubo, alimentato dalla fantascienza, è che, all’opposto, ciò finisca per trasformare gli uomini in cyborg, cioè in organismi cibernetici, in parte naturali e in parte artificiali.
Un modo per affrontare la questione della nostra dipendenza dagli organi di senso, dalle percezioni che ne derivano e dalle conseguenti interpretazioni psicologiche e culturali, può seguire un percorso totalmente diverso da quello di accrescerne artificilmente le potenzialità. Non già, quindi, inseguire una espansione dei nostri recettori, come fa la bionica, sostituendosi a organi naturali danneggiati o mancanti, né inseguire le fantasie di un futuro di un’umanità cyborg, anticipata dagli attuali gadget elettronici, bensì documentare come si vive se non si può contare su uno o più dei cinque sensi di aristotelica memoria.
Si tratterà di avvicinarsi a una condizione umana poco conosciuta , al fine di stabilire un ponte tra i propri strumenti percettivi e quelli di chi ha elaborato una mappa sensoriale altra, condividere tale esperienza e cercare i modi per comunicarla servendosi degli strumenti concettuali e tecnici appropriati per la sua diffusione. Un processo che, nello spirito empatico e nella curiosità intellettuale che lo guida, si identifica con l’indagine antropologica in generale, rivolta com’è alla conoscenza di altri modi di vita rispetto a quelli che ci sono familiari: e con l’antropologia visuale in particolare. Se si intende qui sottolinearlo, è perché non appaia paradossale servirsi come ponte comunicativo degli strumenti audiovisivi per comunicare la condizione di non vedenti e non udenti.
Due, finora, sono stati gli approcci seguiti per raccogliere la sfida di far vedere realisticamente la condizione di chi non vede. Il primo, che potremmo chiamare documentaristico, può essere esemplificato dal film Slepe Lasky ( Blind Love, 2008), del regista slovacco Juraj Lehotsky. Vi si descrive la vita quotidiana di Peter e Iveta, che condividono la cecità ma anche una ricca gamma di esperienze sensoriali, come viene sottolineato da una colonna sonora particolarmente intensa. Il secondo, soggettivistico, di cui il più noto esempio è il film Blue (1993), di Derek Jarman, cerca di trasmettere allo spettatore la sensazione di chi, come il regista stesso, ha visto scomparire il mondo dinnanzi a sé. Lo schermo, in questo caso, è un monocromo blu per tutta la durata della pellicola. Piuttosto che suscitare suggestioni pittoriche – in questo caso, soprattutto il famoso blu delle tele di Yves Klein - quell’immagine fissa intende spostare l’attenzione sul vissuto psicologico di chi si trova piombato in quella condizione, anche ma non solo cercando alternative in altri messaggi sensoriali.
Altre volte, per rendere la percezione di come si affievolisca fino ad annullarsi la percezione visiva, ci si serve di effetti sfocati e variazioni di luminosità. C’è una frase, nell’ultimo romanzo di Doctorow, Homer & Langley, che rende efficacemente a parole ciò che vari film cercano di rappresentare: “La mia vista non se n’è andata di colpo: è stata una lenta dissolvenza, come nei film”.
Per quanto, ognuno a suo modo, ambedue questi generi siano empatici, la posizione del filmmaker è sempre quella di descrivere una mancanza fisica e come chi deve fare i conti con essa vi ponga rimedio, compensandola eventualmente con altre esperienze, siano esse percettive o psicologiche.
Una più approfondita indagine antropologica richiederebbe un passo ulteriore, al fine di testimoniare una condizione di vita a pieno titolo, seguendo la lezione di Terenzio, che fin dall’antichità ci avvertì come niente di ciò che è umano debba apparirci alieno.
Si tratta di rovesciare la prospettiva. Condividere una condizione comune di carenze percettive, derivanti dalla limitata dotazione sensoriale del corpo di tutti gli uomini. Consapevoli del fatto che in un mondo di non vedenti nessuno è cieco, e nessuno è sordo se fossimo tutti privi di orecchie, anche se il mondo intorno a noi rimanesse pieno di suoni e di tante belle cose da vedere, dovremmo metterci nella posizione di imparare come chi possiede uno scarto percettivo rispetto all’umanità in generale abbia saputo trovare i modi per comunicare con gli altri.
In questo caso, i diversi siamo noi. Potremmo cercare di scoprire come il mondo può apparire servendoci di una mappa sensoriale particolare, preziosa perché posseduta da pochi. Un’esperienza di riscoperta di un mondo, il nostro, che pensavamo di conoscere, rivelatrice oltre ogni immaginazione. E’ la rivelazione, attraverso un’esperienza umana particolare, di condividere una condizione universale, della quale non ci rendiamo sempre conto: di quanto del mondo intorno a noi ci sfugga, di come tutti noi siamo ciechi e sordi fuori da una ristretta fascia percettiva. Come è stato detto da Guy Lazorthes, i nostri sensi sono una porta stretta sul mondo.
Noi tutti, infatti, siamo ciechi alle radiazioni luminose estreme, infrarosse e ultraviolette, alle quali sono sensibili altri animali; così come siamo sordi a ultrasuoni e infrasuoni, mentre percepiamo le frequenze centrali, tra i venti e i ventimila hertz. Né reagiamo allo stesso modo di fronte a gusti e odori che la nostra cultura ci ha addestrati a apprezzare o rifiutare. Tutte le culture umane sono state elaborate a partire dalle reazioni condivise dalla quasi totalità dei suoi membri a certi colori, a certi suoni e a certe forme, così come alla possibilità di vedere e riconoscere i propri simili.
Noi, qui, non sappiamo utilizzare le sensibilità che utlizzano, ad esempio, i Kaluli della Nuova Guinea, come ci ha rivelato l’etnomusicologo Steve Feld. Essi hanno concettualizzato una geografia multisensoriale, nella quale lo spazio è al tempo stesso visto e sentito tattilmente, e questi sensi a loro volta interagiscono con il gusto, mentre la percezione dell’orientamento del proprio corpo avviene attraverso l’ascolto di suoni della natura e di voci: quello che Feld chiama un soundscape, un paesaggio sonoro.
Per fare un altro esempio, presso diverse popolazioni, come nel caso dei Suya del Mato Grosso descritti da Anthony Seeger, la società è divisa secondo classi olfattive, ognuna delle quali possiede una propria identità.
Le dotazioni sensoriali che possediamo ci bastano per vivere nell’ambiente a noi noto e per comunicare all’interno delle nostre società. Ma dovremmo avere la consapevolezza che, intorno a noi, vi è tutto un mondo, un mondo reale, fisico e concreto, che ignoriamo.
La cultura è, per una parte consistente, una risposta a questi limiti. Non essendo provvisti di ecolocazione come i pipistrelli e non ponendo quindi muoverci al buio evitando ostacoli, abbiamo inventato l’illuminazione artificiale. E certo i navigatori satellitari installati sulle automobili sono infinitamente più rozzi del cervello di un piccione viaggiatore.
Chi è deprivato di alcune potenzialità sensoriali può fornirci una quantità di informazioni di straordinario interesse sulle modificazioni che l’uomo è in grado di elaborare per compensare carenze nel set complessivo delle dotazioni standard che mettono un individuo in comunicazione con il mondo esterno. Ma soprattutto ci si può dischiudere un mondo interiore di straordinaria originalità, che fornisce contributi spesso trascurati. Chi ha di più, quindi, finisce per avere in realtà di meno, come spesso accade.
Un dialogo nel buio con chi non vede ciò che noi vediamo, ma ha sviluppato più di noi, i vedenti, una familiarità con la propria particolare mappa sensoriale, può trasmetterci una maggiore consapevolezza del nostro essere-nel-mondo.
Un senso di mancanza, quasi una delusione, accompagna talvolta la lettura, per altri versi stimolante, di certe monografie etnografiche. Nel mondo globalizzato di oggi sono comprese, sia pure soltanto per alcuni aspetti e almeno indirettamente, anche le isole Trobriand, luogo mitico per eccellenza della visione antropologica. Abbiamo perduto quindi un’occasione irripetibile per sapere com’era la vita quotidiana là all’inizio del secolo scorso, quando Malinowski vi compiva le sue tanto celebri ricerche. Malinowski mangiava? e che sapore aveva il cibo? Si potrebbe continuare con mille altre domande, destinate a rimanere senza risposta. Ciò che l’antropologo riteneva contasse era altro: le istituzioni e le relazioni sociali, le idee indigene riguardanti la vita sessuale, per verificare e contestare alcuni principi della psicanalisi, la presenza delle leggi economiche dello scambio.
Un accostamento che è andato affermandosi tra sensibilità percettiva e sensualità – una reazione emotiva culturalmente elaborata - ha fatto scattare oscurantiste censure puritane di cui l’antropologia non è stata al riparo, specie nel periodo vittoriano.
Lo scritturalismo, meglio controllabile e autocensurabile del visualismo, può bene accordarsi con l’iconofobia. L’osservazione antropologica risulta allora una visione parzialmente cieca della realtà e l’insistenza sulla necessità interpretativa di ciò che viene trasmesso può trasformarsi in strumento di controllo, sotto la veste di una analisi concettuale. Se il puritanesimo in senso stretto ha costretto di recente i restauratori della Cappella Sistina a ripulire gli affreschi michelangioleschi di panni e mutandoni aggiunti in seguito , una più celata autocensura ha portato Malinowski a affidare solo al suo diario intimo le sue reazioni emotive e le sue pulsioni sensoriali nell’incontro con i ‘selvaggi’ delle Trobriand.
Per esigenze delle proprie ricerche, l’antropologia ha sviluppato una speciale attenzione verso la tradizione orale. La preminenza assegnata a uno dei sensi per diffondere e tramandare gli elementi culturali propri di una società – l’udito, a cui è affidato l’ascolto della parola – diversamente dal primato assegnato alla parola scritta, che si serve della vista e solo subordinatamente della lettura ad alta voce, è stato considerato il fattore discriminante tra le società considerate primitive e quelle moderne. Tanto da far denominare le prime, una volta divenuto obsoleto il termine evoluzionistico di ‘primitivo’, società ‘prive di scrittura’. La comunicazione orale è diretta, faccia a faccia, spesso sottolineata da una appropriata gestualità, che agisce in modo subordinato a ciò che giunge all’udito. Da Ong a Goody, si è esaurientemente descritto come, là dove si è avuta la diffusione della stampa, la comunicazione culturale sia diventato un esercizio solitario, distanziando l’autore dai destinatari dei suoi messaggi: un carattere che si è vieppiù affermato con la comunicazione elettronica, in cui partecipiamo – ma in modo ‘freddo’, direbbe McLuhan – ad eventi avvenuti anche a grande distanza.
In tutte le dinamiche fondamentali per la comunicazione tra gli uomini, i sensi sono protagonisti, nella tradizione così come nel mutamento. E tuttavia l’antropologia, la cui ambizione è quella di testimoniare l’universalità della condizione umana attraverso l’espressione delle sue diversità, è apparsa troppo spesso insensibile e quasi timorosa di registrarne le manifestazioni nella loro peculiarità.
L’antropologia visuale si è assunta il compito di elaborare forme espressive idonee a trasmettere la fenomenologia di azioni individuali ed eventi collettivi – il ‘privato’ e il ‘pubblico’ – nei modi e nelle forme con cui gli attori sociali le mettono in atto, avvicinando così lo spettatore all’oggetto della rappresentazione, cioè ai soggetti presenti nelle riprese. Tale vocazione porta gli autori di film e video etnografici ad aprirsi a modalità espressive considerate nel loro insieme, così come si presentato secondo codici culturali condivisi e variabili nei diversi contesti: porta, quindi, alla multisensorialità.
Lo dimostrano le edizioni monotematiche della Rassegna di Nuoro (oggi SIEFF), da Magia e medicina (1996) a Musica e riti (1998), a Cibo (2002). Considerati nel loro insieme, i filmati selezionati mostravano non soltanto una caleidoscopica varietà di soggetti e di fonti d’ ispirazione, ma un’ampiezza di campo che contrastava l’egemonia di una interpretazione autoreferenziale. Il passaggio fondamentale consisteva nel portare all’esterno, attraverso l’autore e il mezzo da lui utilizzato, l’impatto sensoriale, emotivo del soggetto e di conseguenza l’elaborazione interpretativa dell’evento rappresentato. Il successo di tale coinvolgimento era provato dalla varietà di ciò che veniva notato, e quindi sensorialmente percepito, dagli spettatori. Diversamente da ciò che spesso accade leggendo le monografie etnografiche, dove non vi è la possibilità di elaborare diverse versioni di ciò che era avvenuto ‘là fuori’, in presenza dell’antropologo al momento della sua osservazione.
Nonostante tutti i distinguo e le sottigliezze semiologiche, l’antropologia visuale avvicina, e ci avvicina, noi antropologi e coloro con i quali vogliamo comunicare. In tal senso, non è tanto il risultato che va analizzato (si pensi alle oziose questioni sulla scelta dell’inquadratura e ciò che ne rimane fuori, o sulla presenza più o meno invasiva del filmmaker) quanto l’atteggiamento con cui ci si pone di fronte al ‘là fuori’ (chiamarla ‘realtà’ solleverebbe altre inutili questioni).
Un’ambizione così onnicomprensiva pone in modo inevitabile quanto salutare chi l’adotti in una situazione spesso imprevedibile. Addio rigorose classificazioni, più o meno aristoteliche, addio geometriche simmetrie, più o meno strutturaliste. Se le severe scienze fisiche non arretrano di fronte all’idea di esplorare il caos della materia, l’antropologia non abbia ad arretrare di fronte ai più vari modi con cui ci si presenta la condizione umana.
* Publicato nel catalogo dell'edizione 2010 del SIEFF (Sardinia International Ethographic Film Festival), Nuoro.
Con una geniale inversione, Chaplin vuole dirci che è l’amore a farci vedere, non già la vista a suscitarci i moti dell’animo, attraverso il fascino e l’avvenenza fisica. Si aggiunga che, per comunicare questo allo spettatore, Chaplin aveva scelto di rinunciare alle voci, girando nel 1931 il suo ultimo film nello stile classico del muto, in piena esplosione del sonoro. Le parole dei protagonisti compaiono scritte nei tipici, scarni pannelli neri che interrompono la scena. Non è con frasi suadenti e incantatrici che chi è cieco deve cercare un surrogato all’impossibilità di entrare in contatto con il mondo attraverso la vista. Bastano due parole. Gli occhi della fioraia trovano conferma di ciò che lei già aveva sentito, con quella acuità che solo la mancanza può suscitare.
Il cinema è l’invenzione che forse nel modo più potente celebra la visualità. Ma, diversamente dalle altre arti visive, deve emergere a ogni rappresentazione dal suo opposto, il buio. E’ dal ‘buio in sala’ che ogni volta il cinema rinasce. Una opposizione che ne rivela la stretta relazione, qualcosa che somiglia al rapporto tra il blocco informe di marmo e la statua che già, nella mente dello scultore, vi è contenuta. Se Michelangelo diceva che la scultura è l’arte del togliere, si può dire che il cinema, tutto il cinema, sia l’arte di far emergere dal buio la luce, quella invisibile luce interiore che è contenuta in ciò che si intende rappresentare, e che va distinto da ciò che è passivamente, percettivamente visto: come quell’attimo di buio totale prima dell’inizio di un film sottolinea efficacemente.
Il buio percettivo di chi è cieco è stato fonte di ispirazione per molti film, dopo l’insuperato capolavoro di Chaplin. Il più noto, forse, è stato Profumo di donna che, dopo la pellicola diretta da Dino Risi nel 1974, ha conosciuto un remake hollywodiano nel 1992. In entrambi i casi, il soggetto – un ufficiale reduce dell’esercito, rimasto cieco in un episodio bellico, viene accompagnato da un ragazzo in un viaggio alla ricerca di sensazioni, preminentemente sessuali, e spericolate emozioni, a bordo di una Ferrari – è stato ritenuto un banco di prova per la recitazione del protagonista. Sono scesi in campo due autentici mattatori, Vittorio Gassman e Al Pacino, e in ognuno dei casi le loro prove sono state all’altezza della fama. Ma i dialoghi nei due film sono sconcertanti: non basta la vita militaresca alle spalle del protagonista a giustificare una insistenza - che nel film americano si fa imbarazzante - sull’associazione tra cecità e turpiloquio, quasi che la mancanza di contatti vitali derivante dalla prima volesse trovare una compensazione in una grevemente carnale espressività della parola.
Non è facile che un film riesca a rendere il fascino umbratile del vissuto di chi è spettatore di un mondo che gli si cela dietro uno schermo oscuro ma del quale tenta tuttavia di darsi una rappresentazione, creando un ineffabile mondo immaginato – ma non immaginario – in grado quindi di essere condiviso con chi guarda lo schermo al cinema.
Quando il cinema inventa le sue storie, viene evocata una realtà immaginaria: saper cogliere quella che impropriamente viene definita la ‘finzione’ cinematografica ci rivela quanto incommensurabili siano i confini dei nostri sensi, che immagini e suoni non fanno che stimolare. Questo potere evocatore di un universo invisibile – quale è quello delle emozioni e dei sentimenti dei personaggi sullo schermo – e di eventi messi in scena per volontà demiurgica dell’autore-regista, ci rimanda con forza metaforica a ciò che tutti noi compiamo in ogni momento della vita quotidiana.
Che siano spunti percettivi di onde hertziane che giungono agli occhi e alle orecchie, contatti fisici diretti sulla pelle e dagli alimenti nella bocca, o particelle che entrano per via aerea nelle narici, è sempre la nostra mente che si attiva per classificare, attribuire un significato, e per richiamare alla memoria altre esperienze, per suggerire un’interpretazione, un valore, piacere o disgusto, desiderio o pericolo. E’l’esperienza sensoriale a guidarci, anche quando non vi è una relazione immediata e diretta con ciò che avviene intorno a noi, perchè da qualche parte in quell’universo in miniatura che è il nostro cervello vi è immagazzinata la storia della nostra vita, dalla nascita e forse prima.
E’ per tutto questo che, non diversamente da quanto avviene con il teatro delle ombre indonesiano, delle silhouettes che, nel cinema, si muovono appiattite su uno schermo possono tanto coinvolgerci.
La prima reazione dei bambini balinesi portati a uno spettacolo di wayang kulit è quella di andare a vedere cosa c’è dietro allo schermo. Lì c’è il dalang, nobile professione ereditata di padre in figlio, a cui spetta il compito di far rivivere gli eventi del teatro epico; qui autori, registi e attori. Nell’un caso come nell’altro, si tratta di produrre semplici ombre proiettate su uno schermo: quanto più è evanescente il mezzo espressivo al quale è affidata l’azione scenica, tanto meglio se ne coglie il significato e la funzione. Sono messaggi sensoriali, niente di più: dentro o dietro allo schermo non vi è nulla di reale. Così come il dalang fa uscire i suoi personaggi dal baule, gli autori che nelle nostre culture si esprimono attraverso il cinema evocano le ombre che escono dalla loro mente e le comunicano a noi con luci, suoni. Semplici onde herziane: ma la nostra mente, guidata dall’esperienza, da memorie e dalla cultura in cui si è formata, le trasforma in eroi, donne in amore, feroci assassini, battaglie e poetici paesaggi.
Appare facilmente comprensibile che un mezzo espressivo visivo per eccellenza come il cinema, sia di invenzione che di documentazione, sia rimasto spesso attratto dalla vista, o meglio dalla sua mancanza, nei soggetti rappresentati. Sordità e olfatto hanno avuto il più delle volte ruoli comprimari, spesso macchiettistici. Un’eccezione è rappresentata da Profumo (206), del regista Twyker, tratto dal romanzo di Suskind, in cui al centro della trama sta l’avventura olfattiva del protagonista. Quanto al gusto, non si contano le tavolate di ogni genere e periodo storico.
Si va dalla scena surrealista nel Fascino discreto della borghesia (1972), di Luis Bunuel, in cui gli eleganti personaggi stanno seduti imperturbabili su tazze di water, alle scene casarecce di tante commedie all’italiana, come ad esempio quella , nella Famiglia Passaguai (1951), di Aldo Fabrizi, in cui lui stesso con Ave Ninchi e Peppino De Filippo celebrano gastronomicamente una gita al mare. Ma il gusto ha ispirato anche più sottili, e perverse, associazioni, come in Dillinger è morto (1968), di Marco Ferreri o, sempre di Ferreri, La grande bouffe (1973), in cui in ambedue i casi l’impegno a elaborare raffinati manicaretti si accompagna ambiguamente con un desiderio di procurare al tempo stesso piacere e morte.
Se poi veniamo al tatto, anche senza considerare la pornografia, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per le qualità tattili specifiche della tecnica espressiva adottata, basterà citare le riprese con cui l’obbiettivo, in Hiroshima mon amour (1959), di Alain Resnais, scorre lungo la pelle della protagonista Emmanuelle Riva come fosse la voluttuosa carezza del suo amante, simbolica reazione erotica alla morte atomica che li avvolge e che si intravvede dalla finestra della camera.
Grazie alla forza dell’immagine e al suo potere di venire archiviata con più efficaci e duraturi strumenti di altre impressioni sensoriali nella nostra mente, si depositano nella memoria gli stimoli sinestetici trasmessi da un filmato.
Di recente, grazie ai progressi che si stanno avendo nelle neuroscienze, espressioni quali memorie, eredità culturali, esperienze hanno trovato una loro localizzazione nel cervello e si va dipanando la fittissima rete di connessioni neuronali tra le varie parti, che collaborano affnché ci si possa formare un’idea di ciò che avviene fuori e dentro il nostro corpo, la nostra mente. Memoria, eredità culturale, esperienze non sono più soltanto astratte espressioni concettuali; sappiamo dove stanno e quando si attivano, che facciano parte del nostro patrimionio genetico o siano il risultato dell’archiviazione di eventi che, attraverso i sensi, si sono impressi nella mente.
Siamo eredi della classica divisione aristotelica in cinque sensi (anche se il filosofo greco in realtà ne comprendeva altri, interiori, come la memoria). Da allora, li immaginiamo come delle dotazioni che ci fanno reagire a stimoli esterni: onde luminose, onde sonore, pulviscoli odorosi, sapori che stimolano la lingua, contatti sulla pelle. In tutti i casi, si tratta di reazioni passive, e non a caso di parla di recettori sensoriali. Ma potremmo considerare appartenenti ai sensi anche quelle attività intenzionali di cui siamo dotati, e che fanno riferimento, come i primi, a organi specifici.
Il movimento, anzitutto, con il suo apparato di muscoli e tendini guidati da fasci nervosi che li collegano a cervello e midollo spinale. Ancor più quell’insieme che forma l’organo che possiamo chiamare di fonazione, e che comprende le corde vocali, stimolate dall’aria dei polmoni, i cui suoni sono amplificati dal palato che funziona da cassa di risonanza, da lingua e labbra.
Tenere conto di queste potenzialità vitali del nostro corpo e considerarle alla stregua di veri e propri sensi ci rende meglio consapevoli di come sia limitativo osservare solo la fisiologia del nostro corpo, e sia invece necessario considerare i fattori culturali che guidano le nostre azioni tanto da renderli indispensabili per il funzionamento stesso dei nostri organi. L’attività vocale, ad esempio, ha consentito l’espressione del linguaggio, su cui si è fondata l’evoluzione culturale dell’uomo, attraverso l’interazione con un altro senso, quello dell’udito. Questa interdipendenza sensoriale, e il suo fondamento culturale, trovano evidenza nel caso dei sordomuti che, come si sa, nella quasi totalità dei casi non sono muti affatto ma, essendo sordi fin dalla nascita, non possono ricevere le informazioni necessarie per elaborare i modi di esprimersi a parole.
Quando il cinema ha tratto la sua ispirazione direttamente dal mondo esterno, nelle varie forme dello stile documentario, l’ obiettivo è stato generalmente quello di trasmettere il più possibile allo spettatore l’impressione di essere là. Per ottenere questo effetto, ci si è serviti degli strumenti messi via via a disposizione dalla tecnologia per catturare nel modo più appropriato ambienti e comportamenti umani. Il rapido progresso degli strumenti di registrazione audiovisiva ha portato a una rincorsa, al fine di utilizzare le sempre più perfezionate possibilità di riproduzione di suoni e immagini. L’ultima e più significativa rivoluzione in tal senso è stata la digitalizzazione dei messaggi visivi e sonori, che ha reso al tempo stesso più semplici e più efficaci le riproduzioni. Silenziosità, possibilità di registrare in condizioni di luminosità estremamente basse, lunghezza quasi illimitata delle riprese e abbattimento dei costi delle attrezzature e dei supporti, hanno portato a trasformare le videocamere da totem professionali circondati di un’aura a protesi nelle mani di chiunque. La registrazione di suoni e immagini è oramai considerata un’estensione delle nostre dotazioni sensoriali e della possibilità di mettere quegli input in una nostra memoria, digitale anziché cerebrale, attivabile anch’essa a piacere per poter essere utilizzata al fine di richiamare e successivamente interpretare gli impulsi sensoriali.
In un certo senso, ciò ha finito per ‘umanizzare’ la tecnologia, rendendola un duttile strumento per potenziare le nostre dotazioni naturali. Ma, come si sa, l’incubo, alimentato dalla fantascienza, è che, all’opposto, ciò finisca per trasformare gli uomini in cyborg, cioè in organismi cibernetici, in parte naturali e in parte artificiali.
Un modo per affrontare la questione della nostra dipendenza dagli organi di senso, dalle percezioni che ne derivano e dalle conseguenti interpretazioni psicologiche e culturali, può seguire un percorso totalmente diverso da quello di accrescerne artificilmente le potenzialità. Non già, quindi, inseguire una espansione dei nostri recettori, come fa la bionica, sostituendosi a organi naturali danneggiati o mancanti, né inseguire le fantasie di un futuro di un’umanità cyborg, anticipata dagli attuali gadget elettronici, bensì documentare come si vive se non si può contare su uno o più dei cinque sensi di aristotelica memoria.
Si tratterà di avvicinarsi a una condizione umana poco conosciuta , al fine di stabilire un ponte tra i propri strumenti percettivi e quelli di chi ha elaborato una mappa sensoriale altra, condividere tale esperienza e cercare i modi per comunicarla servendosi degli strumenti concettuali e tecnici appropriati per la sua diffusione. Un processo che, nello spirito empatico e nella curiosità intellettuale che lo guida, si identifica con l’indagine antropologica in generale, rivolta com’è alla conoscenza di altri modi di vita rispetto a quelli che ci sono familiari: e con l’antropologia visuale in particolare. Se si intende qui sottolinearlo, è perché non appaia paradossale servirsi come ponte comunicativo degli strumenti audiovisivi per comunicare la condizione di non vedenti e non udenti.
Due, finora, sono stati gli approcci seguiti per raccogliere la sfida di far vedere realisticamente la condizione di chi non vede. Il primo, che potremmo chiamare documentaristico, può essere esemplificato dal film Slepe Lasky ( Blind Love, 2008), del regista slovacco Juraj Lehotsky. Vi si descrive la vita quotidiana di Peter e Iveta, che condividono la cecità ma anche una ricca gamma di esperienze sensoriali, come viene sottolineato da una colonna sonora particolarmente intensa. Il secondo, soggettivistico, di cui il più noto esempio è il film Blue (1993), di Derek Jarman, cerca di trasmettere allo spettatore la sensazione di chi, come il regista stesso, ha visto scomparire il mondo dinnanzi a sé. Lo schermo, in questo caso, è un monocromo blu per tutta la durata della pellicola. Piuttosto che suscitare suggestioni pittoriche – in questo caso, soprattutto il famoso blu delle tele di Yves Klein - quell’immagine fissa intende spostare l’attenzione sul vissuto psicologico di chi si trova piombato in quella condizione, anche ma non solo cercando alternative in altri messaggi sensoriali.
Altre volte, per rendere la percezione di come si affievolisca fino ad annullarsi la percezione visiva, ci si serve di effetti sfocati e variazioni di luminosità. C’è una frase, nell’ultimo romanzo di Doctorow, Homer & Langley, che rende efficacemente a parole ciò che vari film cercano di rappresentare: “La mia vista non se n’è andata di colpo: è stata una lenta dissolvenza, come nei film”.
Per quanto, ognuno a suo modo, ambedue questi generi siano empatici, la posizione del filmmaker è sempre quella di descrivere una mancanza fisica e come chi deve fare i conti con essa vi ponga rimedio, compensandola eventualmente con altre esperienze, siano esse percettive o psicologiche.
Una più approfondita indagine antropologica richiederebbe un passo ulteriore, al fine di testimoniare una condizione di vita a pieno titolo, seguendo la lezione di Terenzio, che fin dall’antichità ci avvertì come niente di ciò che è umano debba apparirci alieno.
Si tratta di rovesciare la prospettiva. Condividere una condizione comune di carenze percettive, derivanti dalla limitata dotazione sensoriale del corpo di tutti gli uomini. Consapevoli del fatto che in un mondo di non vedenti nessuno è cieco, e nessuno è sordo se fossimo tutti privi di orecchie, anche se il mondo intorno a noi rimanesse pieno di suoni e di tante belle cose da vedere, dovremmo metterci nella posizione di imparare come chi possiede uno scarto percettivo rispetto all’umanità in generale abbia saputo trovare i modi per comunicare con gli altri.
In questo caso, i diversi siamo noi. Potremmo cercare di scoprire come il mondo può apparire servendoci di una mappa sensoriale particolare, preziosa perché posseduta da pochi. Un’esperienza di riscoperta di un mondo, il nostro, che pensavamo di conoscere, rivelatrice oltre ogni immaginazione. E’ la rivelazione, attraverso un’esperienza umana particolare, di condividere una condizione universale, della quale non ci rendiamo sempre conto: di quanto del mondo intorno a noi ci sfugga, di come tutti noi siamo ciechi e sordi fuori da una ristretta fascia percettiva. Come è stato detto da Guy Lazorthes, i nostri sensi sono una porta stretta sul mondo.
Noi tutti, infatti, siamo ciechi alle radiazioni luminose estreme, infrarosse e ultraviolette, alle quali sono sensibili altri animali; così come siamo sordi a ultrasuoni e infrasuoni, mentre percepiamo le frequenze centrali, tra i venti e i ventimila hertz. Né reagiamo allo stesso modo di fronte a gusti e odori che la nostra cultura ci ha addestrati a apprezzare o rifiutare. Tutte le culture umane sono state elaborate a partire dalle reazioni condivise dalla quasi totalità dei suoi membri a certi colori, a certi suoni e a certe forme, così come alla possibilità di vedere e riconoscere i propri simili.
Noi, qui, non sappiamo utilizzare le sensibilità che utlizzano, ad esempio, i Kaluli della Nuova Guinea, come ci ha rivelato l’etnomusicologo Steve Feld. Essi hanno concettualizzato una geografia multisensoriale, nella quale lo spazio è al tempo stesso visto e sentito tattilmente, e questi sensi a loro volta interagiscono con il gusto, mentre la percezione dell’orientamento del proprio corpo avviene attraverso l’ascolto di suoni della natura e di voci: quello che Feld chiama un soundscape, un paesaggio sonoro.
Per fare un altro esempio, presso diverse popolazioni, come nel caso dei Suya del Mato Grosso descritti da Anthony Seeger, la società è divisa secondo classi olfattive, ognuna delle quali possiede una propria identità.
Le dotazioni sensoriali che possediamo ci bastano per vivere nell’ambiente a noi noto e per comunicare all’interno delle nostre società. Ma dovremmo avere la consapevolezza che, intorno a noi, vi è tutto un mondo, un mondo reale, fisico e concreto, che ignoriamo.
La cultura è, per una parte consistente, una risposta a questi limiti. Non essendo provvisti di ecolocazione come i pipistrelli e non ponendo quindi muoverci al buio evitando ostacoli, abbiamo inventato l’illuminazione artificiale. E certo i navigatori satellitari installati sulle automobili sono infinitamente più rozzi del cervello di un piccione viaggiatore.
Chi è deprivato di alcune potenzialità sensoriali può fornirci una quantità di informazioni di straordinario interesse sulle modificazioni che l’uomo è in grado di elaborare per compensare carenze nel set complessivo delle dotazioni standard che mettono un individuo in comunicazione con il mondo esterno. Ma soprattutto ci si può dischiudere un mondo interiore di straordinaria originalità, che fornisce contributi spesso trascurati. Chi ha di più, quindi, finisce per avere in realtà di meno, come spesso accade.
Un dialogo nel buio con chi non vede ciò che noi vediamo, ma ha sviluppato più di noi, i vedenti, una familiarità con la propria particolare mappa sensoriale, può trasmetterci una maggiore consapevolezza del nostro essere-nel-mondo.
Un senso di mancanza, quasi una delusione, accompagna talvolta la lettura, per altri versi stimolante, di certe monografie etnografiche. Nel mondo globalizzato di oggi sono comprese, sia pure soltanto per alcuni aspetti e almeno indirettamente, anche le isole Trobriand, luogo mitico per eccellenza della visione antropologica. Abbiamo perduto quindi un’occasione irripetibile per sapere com’era la vita quotidiana là all’inizio del secolo scorso, quando Malinowski vi compiva le sue tanto celebri ricerche. Malinowski mangiava? e che sapore aveva il cibo? Si potrebbe continuare con mille altre domande, destinate a rimanere senza risposta. Ciò che l’antropologo riteneva contasse era altro: le istituzioni e le relazioni sociali, le idee indigene riguardanti la vita sessuale, per verificare e contestare alcuni principi della psicanalisi, la presenza delle leggi economiche dello scambio.
Un accostamento che è andato affermandosi tra sensibilità percettiva e sensualità – una reazione emotiva culturalmente elaborata - ha fatto scattare oscurantiste censure puritane di cui l’antropologia non è stata al riparo, specie nel periodo vittoriano.
Lo scritturalismo, meglio controllabile e autocensurabile del visualismo, può bene accordarsi con l’iconofobia. L’osservazione antropologica risulta allora una visione parzialmente cieca della realtà e l’insistenza sulla necessità interpretativa di ciò che viene trasmesso può trasformarsi in strumento di controllo, sotto la veste di una analisi concettuale. Se il puritanesimo in senso stretto ha costretto di recente i restauratori della Cappella Sistina a ripulire gli affreschi michelangioleschi di panni e mutandoni aggiunti in seguito , una più celata autocensura ha portato Malinowski a affidare solo al suo diario intimo le sue reazioni emotive e le sue pulsioni sensoriali nell’incontro con i ‘selvaggi’ delle Trobriand.
Per esigenze delle proprie ricerche, l’antropologia ha sviluppato una speciale attenzione verso la tradizione orale. La preminenza assegnata a uno dei sensi per diffondere e tramandare gli elementi culturali propri di una società – l’udito, a cui è affidato l’ascolto della parola – diversamente dal primato assegnato alla parola scritta, che si serve della vista e solo subordinatamente della lettura ad alta voce, è stato considerato il fattore discriminante tra le società considerate primitive e quelle moderne. Tanto da far denominare le prime, una volta divenuto obsoleto il termine evoluzionistico di ‘primitivo’, società ‘prive di scrittura’. La comunicazione orale è diretta, faccia a faccia, spesso sottolineata da una appropriata gestualità, che agisce in modo subordinato a ciò che giunge all’udito. Da Ong a Goody, si è esaurientemente descritto come, là dove si è avuta la diffusione della stampa, la comunicazione culturale sia diventato un esercizio solitario, distanziando l’autore dai destinatari dei suoi messaggi: un carattere che si è vieppiù affermato con la comunicazione elettronica, in cui partecipiamo – ma in modo ‘freddo’, direbbe McLuhan – ad eventi avvenuti anche a grande distanza.
In tutte le dinamiche fondamentali per la comunicazione tra gli uomini, i sensi sono protagonisti, nella tradizione così come nel mutamento. E tuttavia l’antropologia, la cui ambizione è quella di testimoniare l’universalità della condizione umana attraverso l’espressione delle sue diversità, è apparsa troppo spesso insensibile e quasi timorosa di registrarne le manifestazioni nella loro peculiarità.
L’antropologia visuale si è assunta il compito di elaborare forme espressive idonee a trasmettere la fenomenologia di azioni individuali ed eventi collettivi – il ‘privato’ e il ‘pubblico’ – nei modi e nelle forme con cui gli attori sociali le mettono in atto, avvicinando così lo spettatore all’oggetto della rappresentazione, cioè ai soggetti presenti nelle riprese. Tale vocazione porta gli autori di film e video etnografici ad aprirsi a modalità espressive considerate nel loro insieme, così come si presentato secondo codici culturali condivisi e variabili nei diversi contesti: porta, quindi, alla multisensorialità.
Lo dimostrano le edizioni monotematiche della Rassegna di Nuoro (oggi SIEFF), da Magia e medicina (1996) a Musica e riti (1998), a Cibo (2002). Considerati nel loro insieme, i filmati selezionati mostravano non soltanto una caleidoscopica varietà di soggetti e di fonti d’ ispirazione, ma un’ampiezza di campo che contrastava l’egemonia di una interpretazione autoreferenziale. Il passaggio fondamentale consisteva nel portare all’esterno, attraverso l’autore e il mezzo da lui utilizzato, l’impatto sensoriale, emotivo del soggetto e di conseguenza l’elaborazione interpretativa dell’evento rappresentato. Il successo di tale coinvolgimento era provato dalla varietà di ciò che veniva notato, e quindi sensorialmente percepito, dagli spettatori. Diversamente da ciò che spesso accade leggendo le monografie etnografiche, dove non vi è la possibilità di elaborare diverse versioni di ciò che era avvenuto ‘là fuori’, in presenza dell’antropologo al momento della sua osservazione.
Nonostante tutti i distinguo e le sottigliezze semiologiche, l’antropologia visuale avvicina, e ci avvicina, noi antropologi e coloro con i quali vogliamo comunicare. In tal senso, non è tanto il risultato che va analizzato (si pensi alle oziose questioni sulla scelta dell’inquadratura e ciò che ne rimane fuori, o sulla presenza più o meno invasiva del filmmaker) quanto l’atteggiamento con cui ci si pone di fronte al ‘là fuori’ (chiamarla ‘realtà’ solleverebbe altre inutili questioni).
Un’ambizione così onnicomprensiva pone in modo inevitabile quanto salutare chi l’adotti in una situazione spesso imprevedibile. Addio rigorose classificazioni, più o meno aristoteliche, addio geometriche simmetrie, più o meno strutturaliste. Se le severe scienze fisiche non arretrano di fronte all’idea di esplorare il caos della materia, l’antropologia non abbia ad arretrare di fronte ai più vari modi con cui ci si presenta la condizione umana.
* Publicato nel catalogo dell'edizione 2010 del SIEFF (Sardinia International Ethographic Film Festival), Nuoro.
THE SENSES IN CINEMA
One of the most beautiful and touching declaration of love – from a woman to a man – is the final line in City Lights. To the lovely newly-found florist who has recovered her sight Chaplin asks incredulously “You can see now?” and she answers “Yes, I can now.” As to say that it’s this encounter to give a meaning to the regained sense.
With an inspired inversion, Chaplin wants to tell us that it’s love that allows us to see, not just sight which kindles emotions through charm and physical attractiveness. In order to communicate this to the spectator, Chaplin had chosen to renounce to the voices, shooting during the full explosion of the sound era in 1931 his last movie in the classical mute style. The character’s words appear written on typical scrawny black panels which interrupt the scene. It isn’t with persuasive and enchanting sentences that who is blind must search for a surrogate to the impossibility of entering in touch with a world he cannot see. Four words are enough. The florist’s eyes find acknowledgement of what she already felt, with the acuity that only absence can awaken.
Cinema is possibly the invention that celebrates in the most powerful way visual quality. But unlike other visual arts, it must emerge at every performance from its opposite, the dark. And from the obscurity of the theatre, cinema brought back to life every time. In this opposition is revealed a close connection, something that resembles the relationship between a shapeless marble block and the statue that, in the mind of the sculptor, is already contained in it. If Michelangelo said that sculpture was the art of “taking off”, we can say that cinema, all the cinema, is the art of making light emerge from the dark, the invisible inner light that is contained in what we intend portraying, and that is different from what is passively, perceptibility seen: effectively underlined by the instant of total darkness before the beginning of a movie.
Perceptive darkness has been the source of inspiration for many films after the Chaplin’s unrivalled masterpiece. The most famous movie was probably Profumo di donna directed by Dino Risi in 1974 and its Hollywood remake Scent of a Woman in 1992. In both cases, the main character – a retired military officer who became blind in a war incident – is accompanied by a young man on a trip in search of sensations and dangerous emotions - predominantly sexual, on a Ferrari – which was regarded as the protagonist’s acting bench test. Star performers Vittorio Gassman and Al Pacino took the field, stood up to the test and proved to measure up to their fame. But the dialogues in the movie are bewildering: not only the military life left behind the main character justifies an insistence – that in the American film turns out to be embarrassing – on the association between blindness and scurrility, as if the lack of vital contacts that originates from blindness would be compensated by a heavy carnal expressiveness of the speech.
Not easily can a film convey the withdrawn moody appeal of experiences of who is a spectator in a world concealed behind a dark screen and yet tries to give himself a representation of it, creating an ineffable imagined world – but not imaginary – capable of being shared with who is watching the screen.
When cinema invents its stories, an imaginary reality is brought to mind: knowing how to seize the improperly called cinematographic “fiction” reveals how immeasurable are the boundaries of our senses relentlessly stimulated by pictures and sounds. This evocative power of an invisible universe - that of the protagonist’s emotions and feelings - and events depicted by the author-director’s demiurgic will, strongly and metaphorically sends us back to all that we accomplish in every moment of our daily lives.
Either being perceptive hints of hertzian waves that reach our eyes and ears, direct physical contact on our skin, food in our mouth, or particles that flow through the air in our nostrils, it’s always our brain that works to classify, give a meaning and recall to our mind other experiences and suggest an interpretation, a value, a pleasure or displeasure, desire or danger. We are guided by sensorial experience, even when there is no direct and immediate relationship between what happens around us, because somewhere in that miniature universe in our brain is stored the story of our lives, from birth and perhaps before. And for all these reasons, both in the Indonesian shadow theatre and in the cinema, flattened silhouettes that move on a screen can fascinate us so much.
When attending a wayang kulit show, the Balinese children’s first reaction is to find out what’s behind the screen. There, the dalang, illustrious inherited profession passed down from father to son, is fulfilling his duty of bringing back to life the events of the epic theatre; here, authors, directors and actors. In both circumstances, it consists in bringing forth simple shadows on a screen: the more the expressive means to which is left the scenic action is evanescent, the better you can grasp its meaning and purpose. They are sensorial messages, nothing more: there is nothing real inside or behind the screen. Just like the dalang pulls out of his trunk his characters, the authors of our culture express themselves through cinema, both evoke the shadows that come out of their mind and articulate them with light and sound. Simple hertzian waves: but our mind, guided by experience, from memory and culture in which it was formed, transforms them in heroes, lovers, brutal murderers, battles and poetic landscapes.
It’s easily understandable that an expressive visual tool as cinema, both for its inventive and documentary potential has often been attracted by sight, or better its absence, for its represented subjects. Deafness and the sense of smell have had more than their share of second lead roles, often ridiculous and grotesque. Profumo, from the director Twyker and inspired by Suskind’s novel, is an exception in which the central plot is the olfactory adventure of the leading character. As for taste, summing up all the numerous dinners in different historical periods isn’t easy.
From Bunuel’s surrealist scene in Le charme discret de la bourgeoisie (1972) in which the composed elegant characters are imperturbably seated on toilets to the homespun, unrefined scenes in Italian comedies for example Aldo Fabrizi’s Famiglia Passaguai (1951) in which, together with Ave Ninchi and Peppino De Filippo, they go on a gastronomic outing by the sea. But taste has also inspired more perverse, subtle connections as in Marc Ferreri’s Dillinger è morto (1968) and yet another film La grande bouffe(1973). In both films the consumption of elaborate and sophisticated delicacies are ambiguously associated with the desire to bring about simultaneously pleasure and death.
Without considering pornography, touch provides many examples from which to choose. For the specific tactile quality of the narrative technique chosen, it’s sufficient to mention the scene from Alain Resnais ‘s Hiroshima mon amour, in which the lens slides on Emmanuelle Riva’s skin resembling a voluptuous lover’s caress, symbolic erotic reaction to the atomic death that surrounds them and that is seen from the bedroom window.
The synesthetic stimuli transferred in a movie are deposited in our minds thanks to the strength of the image and its power to be stored with more efficient and long lasting tools than to other sensorial impressions.
Thanks to recent progresses in the neurosciences, words such as memory, cultural inheritance, experience have found their position in the brain and the thick, complex linkage of neuronal connections that are being unravelled, work together so that we can figure out what happens inside and outside our body, our mind. Memory, cultural inheritance, experience aren’t only conceptual abstract expressions; we know where they are and how to activate them, either being part of our genetic inheritance or being the registration of events that, through the senses, are imprinted in our mind.
We are heirs of the Aristotle’s classical division of the five senses (although the Greek philosopher believed that there were other interior ones, for example memory). Since then, we imagine them as endowments that help us to react to outside stimuli: sound and light waves, fragrant dusts, stimulating flavours, skin contact. They are all passive reactions, and therefore called sensorial receptors. But we could also consider belonging to the senses those intentional activities which we are equipped with and that refer to specific organs like the first ones.
Movement, above all, with its muscular system and tendons guided by nervous tissue that connect them to the brain and spinal cord.
Even more so, the complex phonation organ, that includes vocal cords, stimulated by the air in the lungs, which sounds are amplified by the palate that works as a resonance chamber, by the tongue and lips.
Considering the vital potentiality of our body as authentic senses makes us fully aware of how restrictive it is to merely observe the physiology of our body whereas it is necessary to consider the cultural factors that guide our actions to make them become essential for the functioning of our organs. Vocal activity, for example, has permitted the expression of language, on which is founded man’s cultural evolution, through interaction with hearing. This sensorial interdependence, and its cultural foundation, finds evidence in a deaf-mute person who, as we know, isn’t really mute but being deaf from birth, cannot receive the necessary information in order to elaborate ways of expressing himself with words.
When cinema draws its inspiration directly from the outside world, in the several forms of the documentary style, the purpose is generally transmitting to the spectator the impression of “being there”. In order to achieve this effect, we use the available technological tools that most appropriately capture the environment and human behaviour. The swift progress of audiovisual aids has made us part of a race where, in the end, we feel compelled to use state-of-the-art technology. The latest and most significant revolution in this is the digitalization of audiovisual messages, which have simplified and equally made reproduction more efficient. Soundless environments, the possibility to make a recording in extreme low brightness, the almost unlimited running time of the shots and the affordable prices of the equipment and technical assistance have transformed video cameras from professional totems surrounded by its aura into prosthesis accessible to all. Sound and image recording is nowadays considered extension of our sensorial capacities and gives us the possibility to lay aside the input in one of our memories, digital instead of cerebral, which can be activated on pleasure to be used in order to recall and re-elaborate sensorial impulses afterwards.
In a certain way, this humanized technology has been transformed in a malleable tool that strengthens our own natural capacities. But, as we know, this can transform man into a cyborg, partly natural, partly artificial cybernetic organism just like in a science fiction nightmare.
A way to deal with our addiction to the sensory organs, its deriving perceptions to the consequent psychological and cultural interpretations, is following a totally different path than the one that increases artificially our endowments. It isn’t by pursuing an expansion of our receptors, just like in bionics, changing natural damaged or missing organs, nor pursuing our fantasies of a cyborg humanity, speeded up by electronic gadgets, but rather by gathering information and documenting how we live if you can’t count on one or more of Aristotle’s five senses.
It’s about getting closer to a scarcely known human condition, in order to establish a bridge between our own perceptive tools e those of who has elaborated a different sensorial map, share this experience and seek ways to communicate it using the appropriate conceptual and technical devices to diffuse it. A process which, guided by an empathic spirit and intellectual curiosity, and identifies itself with anthropological investigation in general aimed at the knowledge of other ways of life that are unfamiliar: and especially with visual anthropology. The intention, at this time, is to underline this so it doesn’t seem paradoxical using as a communicative bridge audiovisual tools to communicate the condition of the blind and deaf.
Until now, there have been two approaches to accept the challenge to show in a realistic manner the condition of the unsighted. The first, we could call “documentaristic”, can be exemplified by Slovenian director Juraj Lehotsky with his film Slepe Lasky (Blind Love) 2008. It describes the daily life of Peter and Iveta who share not only blindness but also a rich range of sensorial experiences, underlined with a particularly intense sound track. The second, “subjectivistic”, best exemplified in Derek Jarman’s movie Blue (1993). The director tries to get across the sensation of who, in this case, like himself, saw the world vanish before him. The screen, in this case, is in a monochromatic blue during the entire picture. Rather than inspiring pictorial suggestions – above all Yves Klein’s famous blue paintings – that permanent image aims to shift our attention on the psychological existence of who has fallen into that condition and is looking for an alternative also in other sensorial messages.
In other circumstances, blurred effects and variation of brightness are used to portray the perception of how sight weakens until it completely fades out. There is a sentence, in Doctorow’s last novel, Homer & Langley, that efficiently puts into words what several films try to depict “ My sight has not suddenly left me : it has been a slow fading-out, like in the movies.”
Regardless of the fact that both approaches are empathic, each in its own way, the filmmaker’s position is to describe a physical deprivation and how who has to deal with it must find a remedy, compensating it with other perceptive or psychological experiences.
A more in-depth anthropological research would require an additional step, in order to testify a condition of life that is worthy, following Terenzio’s lesson, since antiquity warned us that nothing that is human must appear alienating.
It’s about reversing the perspective: sharing a common condition of perceptive shortage that originates from the limited sensorial capacity of the body of all humans.
In the world of the blind, no one is blind, and no one is non-hearing if we were all deprived of ears, even if the surrounding world would be filled with sound and so many beautiful things to see. We should put ourselves in the position to learn how who has a perceptive gap, compared with mankind in general, has found ways of communicating with others.
In this case, we are the different. We could try to discover how the world can appear using a particular sensorial map, precious because owned by few. An experience of rediscovery of a world, our own, that we thought we knew, revealing more than we could imagine.
It’s the revelation, through a particular human experience, of sharing a universal condition, of which we are not always aware: of how much the surrounding world escapes us, of how all of us are blind and non-hearing in a narrow perceptive segment. As Guy Lazorthes said, our senses are a narrow door on the world.
We are all, in fact, blind to the luminous infrared and ultraviolet radiations to which other animals are sensitive to, similar to the way we are non-hearing to ultrasounds and infra sounds, while we perceive central frequencies, between twenty and twenty thousand hertz. Nor do we react the same way to flavours and scents that our cultures have trained us to appreciate or reject. All human cultures have been developed starting from the shared reactions of almost all their members to certain colours, to certain sounds and certain shapes, and therefore to the possibility to see and recognize their own kind.
Ethnomusicologist Steve Feld has revealed that we don’t know how to use the same sensitivity that the Kaluli from New Guinea use. They have conceptualized a multi-sensorial geography, where space and time are seen and felt tactilely, and in turn these senses react with taste, while the perception of our body’s orientation comes through listening sounds of nature and voices: Feld called it soundscape, a resonant landscape.
Another example is the Anthony Seeger’s case of the Suya from Mato Grosso which illustrates a society divided by scent classes, each with its own identity.
Our sensorial endowments are sufficient to live in our familiar environment and to communicate within our society. But we should have the awareness that there’s a world, a real world, physical and tangible, that we ignore.
Culture is mostly an answer to these limits. Not having an ecological “habitat” like bats nor being able to fly in the dark avoiding obstacles, we had to invent artificial lighting. For sure satellite navigators installed on cars are infinitely less sophisticated than a voyager pigeon.
Who is deprived of some sensorial potentialities can supply us with an extraordinarily interesting quantity of information about the modifications that man can develop to compensate the shortage on the whole set of standard capacities that puts an individual in communication with the outer world. It can mainly contribute in opening us to an interior world of extraordinary originality often neglected.
A conversation in the dark with who doesn’t see what we see, but has developed more than the non-blind, a familiarity with his own particular sensorial map, can provide us a greater knowledge of our “being-in-the-world”.
A sense of deficiency, almost a disappointment, sometimes accompanies the reading, stimulating for other aspects, of some ethnographic monographs. In today’s globalized world are also included, only for some of its aspects and at least indirectly, the Trobriand Islands, a mythical place for anthropological vision. We have therefore lost an unrepeatable opportunity to find out how life was at the beginning of the century, when Malinowski did his famous research. Did Malinowski eat? What taste did the food have? We could go on with thousands of questions, meant to be unanswered. What anthropologists regarded as important was something else: institutions and social relations, indigenous idea concerning sexual life, to examine and challenge some of the principles of psychoanalysis, the presence of economical laws of exchange.
Perceptive sensibility has progressively combined its meaning with sensuality – a culturally intricate emotional reaction – which as triggered puritan censored obscurantism from which anthropology has never been guarded against, especially in the Victorian era.
“Scripturalism”, more controllable and auto-censurable than “visualism”, can correspond with iconophobia. The anthropological observation turns out to be a partially blind vision of reality and the insistence on the interpretative necessity of what is transmitted can transform itself into a control tool, disguised in conceptual analysis. If puritanism has recently in a strict sense forced the restorers of the Sistine Chapel to remove the added underpants and cloths from Michelangelo’s frescoes, a more concealed self-censorship has pushed Malinowski to write in his diary his intimate emotional reactions and sensorial pulsations of the encounter with Trobriand ‘s “savages.
Anthropology, for research requirements, has developed a particular attention to oral tradition. The superiority awarded to one of the senses to spread and hand down the cultural elements specific to a society – the sense of hearing, to which is assigned the listening of words – differently from the awarded supremacy of written words, that uses sight and only subordinately reading out loud, has been considered the discriminating factor between societies considered primitive and those considered modern. So as to call the former, once it has become obsolete the evolutionistic word
“primitive”, a society “without writing”.
Oral communication is direct, face to face, often underlined by an appropriate body language, that acts subordinately with what reaches our ears. From Ong to Goody¸ it has exhaustively been described how, where press is widespread, the cultural communication has become a solitary exercise, outdistancing the author from the recipient of his messages: even more so with electronic communication, in which we participate – but in a “cold and distant” way as McLuhan would say - at events that took place at great distance.
In tradition like in change, the senses are the protagonists in all the fundamental dynamics of communication between men. And nevertheless, anthropology, which ambition is to testify the universality of human condition through the expression of its diversity, has appeared too often insensitive e almost timorous of recording its manifestation in its singularity.
Visual anthropology has charged itself with the task of elaborating suitable expressive means to disclose the phenomenology of individual actions and collective events – the “private” and the “public” – in ways and manners which the social actors perform, getting the represented object closer to the spectator, that is to say to the depicted subjects while shooting. Such vocation leads the authors of ethnographic films and videos to open themselves to an expressive modality considered on the whole, as they show themselves according to shared and variable cultural codes in different contexts: it leads, therefore, to multisensoriality.
This is demonstrated during the monothematic editions of Nuoro’s exhibition (today SIEFF), from Magic and Medicine (1996), to Music and Rituals (1998), to Food (2002). These films not only illustrated a kaleidoscopic variety of subjects and inspirational sources but also a broad mindedness that contrasted the hegemony of an auto-referential interpretation. The fundamental passage was to expose, through the author and his tool, the subject’s emotional and sensorial impact and hence the interpretative elaboration of the represented event. The success of such an involvement was proven in the variety of what was being noticed and therefore, sensorially perceived, by the spectators. Differently from what often happens when reading the ethnographic monographs, where there is no possibility to develop different versions of what has happened “out there”, in the presence of the anthropologist at the time of his observation.
In spite of all the differences and semiologic subtleties, visual anthropology brings us closer - and also us as anthropologists - to those with who we want to communicate. It’s not really the result that needs analysis (think about the boring issues like framing and what is left out of it, or about the film maker’s more or less invasive presence) but rather the attitude in which he places himself in front of the “out there “ (calling it “reality” would raise other useless issues).
An all-embracing ambition that inevitably and favourably places who adopts it in an unpredictable situation. Goodbye rigorous classifications, more or less AristHotelic, goodbye geometric symmetries, more or less “structuralist”. If the rigorous physical sciences don’t withdraw in front of the idea to explore the chaos of the matter, anthropology shouldn’t have to withdraw in front of the many ways the human condition shows itself.
With an inspired inversion, Chaplin wants to tell us that it’s love that allows us to see, not just sight which kindles emotions through charm and physical attractiveness. In order to communicate this to the spectator, Chaplin had chosen to renounce to the voices, shooting during the full explosion of the sound era in 1931 his last movie in the classical mute style. The character’s words appear written on typical scrawny black panels which interrupt the scene. It isn’t with persuasive and enchanting sentences that who is blind must search for a surrogate to the impossibility of entering in touch with a world he cannot see. Four words are enough. The florist’s eyes find acknowledgement of what she already felt, with the acuity that only absence can awaken.
Cinema is possibly the invention that celebrates in the most powerful way visual quality. But unlike other visual arts, it must emerge at every performance from its opposite, the dark. And from the obscurity of the theatre, cinema brought back to life every time. In this opposition is revealed a close connection, something that resembles the relationship between a shapeless marble block and the statue that, in the mind of the sculptor, is already contained in it. If Michelangelo said that sculpture was the art of “taking off”, we can say that cinema, all the cinema, is the art of making light emerge from the dark, the invisible inner light that is contained in what we intend portraying, and that is different from what is passively, perceptibility seen: effectively underlined by the instant of total darkness before the beginning of a movie.
Perceptive darkness has been the source of inspiration for many films after the Chaplin’s unrivalled masterpiece. The most famous movie was probably Profumo di donna directed by Dino Risi in 1974 and its Hollywood remake Scent of a Woman in 1992. In both cases, the main character – a retired military officer who became blind in a war incident – is accompanied by a young man on a trip in search of sensations and dangerous emotions - predominantly sexual, on a Ferrari – which was regarded as the protagonist’s acting bench test. Star performers Vittorio Gassman and Al Pacino took the field, stood up to the test and proved to measure up to their fame. But the dialogues in the movie are bewildering: not only the military life left behind the main character justifies an insistence – that in the American film turns out to be embarrassing – on the association between blindness and scurrility, as if the lack of vital contacts that originates from blindness would be compensated by a heavy carnal expressiveness of the speech.
Not easily can a film convey the withdrawn moody appeal of experiences of who is a spectator in a world concealed behind a dark screen and yet tries to give himself a representation of it, creating an ineffable imagined world – but not imaginary – capable of being shared with who is watching the screen.
When cinema invents its stories, an imaginary reality is brought to mind: knowing how to seize the improperly called cinematographic “fiction” reveals how immeasurable are the boundaries of our senses relentlessly stimulated by pictures and sounds. This evocative power of an invisible universe - that of the protagonist’s emotions and feelings - and events depicted by the author-director’s demiurgic will, strongly and metaphorically sends us back to all that we accomplish in every moment of our daily lives.
Either being perceptive hints of hertzian waves that reach our eyes and ears, direct physical contact on our skin, food in our mouth, or particles that flow through the air in our nostrils, it’s always our brain that works to classify, give a meaning and recall to our mind other experiences and suggest an interpretation, a value, a pleasure or displeasure, desire or danger. We are guided by sensorial experience, even when there is no direct and immediate relationship between what happens around us, because somewhere in that miniature universe in our brain is stored the story of our lives, from birth and perhaps before. And for all these reasons, both in the Indonesian shadow theatre and in the cinema, flattened silhouettes that move on a screen can fascinate us so much.
When attending a wayang kulit show, the Balinese children’s first reaction is to find out what’s behind the screen. There, the dalang, illustrious inherited profession passed down from father to son, is fulfilling his duty of bringing back to life the events of the epic theatre; here, authors, directors and actors. In both circumstances, it consists in bringing forth simple shadows on a screen: the more the expressive means to which is left the scenic action is evanescent, the better you can grasp its meaning and purpose. They are sensorial messages, nothing more: there is nothing real inside or behind the screen. Just like the dalang pulls out of his trunk his characters, the authors of our culture express themselves through cinema, both evoke the shadows that come out of their mind and articulate them with light and sound. Simple hertzian waves: but our mind, guided by experience, from memory and culture in which it was formed, transforms them in heroes, lovers, brutal murderers, battles and poetic landscapes.
It’s easily understandable that an expressive visual tool as cinema, both for its inventive and documentary potential has often been attracted by sight, or better its absence, for its represented subjects. Deafness and the sense of smell have had more than their share of second lead roles, often ridiculous and grotesque. Profumo, from the director Twyker and inspired by Suskind’s novel, is an exception in which the central plot is the olfactory adventure of the leading character. As for taste, summing up all the numerous dinners in different historical periods isn’t easy.
From Bunuel’s surrealist scene in Le charme discret de la bourgeoisie (1972) in which the composed elegant characters are imperturbably seated on toilets to the homespun, unrefined scenes in Italian comedies for example Aldo Fabrizi’s Famiglia Passaguai (1951) in which, together with Ave Ninchi and Peppino De Filippo, they go on a gastronomic outing by the sea. But taste has also inspired more perverse, subtle connections as in Marc Ferreri’s Dillinger è morto (1968) and yet another film La grande bouffe(1973). In both films the consumption of elaborate and sophisticated delicacies are ambiguously associated with the desire to bring about simultaneously pleasure and death.
Without considering pornography, touch provides many examples from which to choose. For the specific tactile quality of the narrative technique chosen, it’s sufficient to mention the scene from Alain Resnais ‘s Hiroshima mon amour, in which the lens slides on Emmanuelle Riva’s skin resembling a voluptuous lover’s caress, symbolic erotic reaction to the atomic death that surrounds them and that is seen from the bedroom window.
The synesthetic stimuli transferred in a movie are deposited in our minds thanks to the strength of the image and its power to be stored with more efficient and long lasting tools than to other sensorial impressions.
Thanks to recent progresses in the neurosciences, words such as memory, cultural inheritance, experience have found their position in the brain and the thick, complex linkage of neuronal connections that are being unravelled, work together so that we can figure out what happens inside and outside our body, our mind. Memory, cultural inheritance, experience aren’t only conceptual abstract expressions; we know where they are and how to activate them, either being part of our genetic inheritance or being the registration of events that, through the senses, are imprinted in our mind.
We are heirs of the Aristotle’s classical division of the five senses (although the Greek philosopher believed that there were other interior ones, for example memory). Since then, we imagine them as endowments that help us to react to outside stimuli: sound and light waves, fragrant dusts, stimulating flavours, skin contact. They are all passive reactions, and therefore called sensorial receptors. But we could also consider belonging to the senses those intentional activities which we are equipped with and that refer to specific organs like the first ones.
Movement, above all, with its muscular system and tendons guided by nervous tissue that connect them to the brain and spinal cord.
Even more so, the complex phonation organ, that includes vocal cords, stimulated by the air in the lungs, which sounds are amplified by the palate that works as a resonance chamber, by the tongue and lips.
Considering the vital potentiality of our body as authentic senses makes us fully aware of how restrictive it is to merely observe the physiology of our body whereas it is necessary to consider the cultural factors that guide our actions to make them become essential for the functioning of our organs. Vocal activity, for example, has permitted the expression of language, on which is founded man’s cultural evolution, through interaction with hearing. This sensorial interdependence, and its cultural foundation, finds evidence in a deaf-mute person who, as we know, isn’t really mute but being deaf from birth, cannot receive the necessary information in order to elaborate ways of expressing himself with words.
When cinema draws its inspiration directly from the outside world, in the several forms of the documentary style, the purpose is generally transmitting to the spectator the impression of “being there”. In order to achieve this effect, we use the available technological tools that most appropriately capture the environment and human behaviour. The swift progress of audiovisual aids has made us part of a race where, in the end, we feel compelled to use state-of-the-art technology. The latest and most significant revolution in this is the digitalization of audiovisual messages, which have simplified and equally made reproduction more efficient. Soundless environments, the possibility to make a recording in extreme low brightness, the almost unlimited running time of the shots and the affordable prices of the equipment and technical assistance have transformed video cameras from professional totems surrounded by its aura into prosthesis accessible to all. Sound and image recording is nowadays considered extension of our sensorial capacities and gives us the possibility to lay aside the input in one of our memories, digital instead of cerebral, which can be activated on pleasure to be used in order to recall and re-elaborate sensorial impulses afterwards.
In a certain way, this humanized technology has been transformed in a malleable tool that strengthens our own natural capacities. But, as we know, this can transform man into a cyborg, partly natural, partly artificial cybernetic organism just like in a science fiction nightmare.
A way to deal with our addiction to the sensory organs, its deriving perceptions to the consequent psychological and cultural interpretations, is following a totally different path than the one that increases artificially our endowments. It isn’t by pursuing an expansion of our receptors, just like in bionics, changing natural damaged or missing organs, nor pursuing our fantasies of a cyborg humanity, speeded up by electronic gadgets, but rather by gathering information and documenting how we live if you can’t count on one or more of Aristotle’s five senses.
It’s about getting closer to a scarcely known human condition, in order to establish a bridge between our own perceptive tools e those of who has elaborated a different sensorial map, share this experience and seek ways to communicate it using the appropriate conceptual and technical devices to diffuse it. A process which, guided by an empathic spirit and intellectual curiosity, and identifies itself with anthropological investigation in general aimed at the knowledge of other ways of life that are unfamiliar: and especially with visual anthropology. The intention, at this time, is to underline this so it doesn’t seem paradoxical using as a communicative bridge audiovisual tools to communicate the condition of the blind and deaf.
Until now, there have been two approaches to accept the challenge to show in a realistic manner the condition of the unsighted. The first, we could call “documentaristic”, can be exemplified by Slovenian director Juraj Lehotsky with his film Slepe Lasky (Blind Love) 2008. It describes the daily life of Peter and Iveta who share not only blindness but also a rich range of sensorial experiences, underlined with a particularly intense sound track. The second, “subjectivistic”, best exemplified in Derek Jarman’s movie Blue (1993). The director tries to get across the sensation of who, in this case, like himself, saw the world vanish before him. The screen, in this case, is in a monochromatic blue during the entire picture. Rather than inspiring pictorial suggestions – above all Yves Klein’s famous blue paintings – that permanent image aims to shift our attention on the psychological existence of who has fallen into that condition and is looking for an alternative also in other sensorial messages.
In other circumstances, blurred effects and variation of brightness are used to portray the perception of how sight weakens until it completely fades out. There is a sentence, in Doctorow’s last novel, Homer & Langley, that efficiently puts into words what several films try to depict “ My sight has not suddenly left me : it has been a slow fading-out, like in the movies.”
Regardless of the fact that both approaches are empathic, each in its own way, the filmmaker’s position is to describe a physical deprivation and how who has to deal with it must find a remedy, compensating it with other perceptive or psychological experiences.
A more in-depth anthropological research would require an additional step, in order to testify a condition of life that is worthy, following Terenzio’s lesson, since antiquity warned us that nothing that is human must appear alienating.
It’s about reversing the perspective: sharing a common condition of perceptive shortage that originates from the limited sensorial capacity of the body of all humans.
In the world of the blind, no one is blind, and no one is non-hearing if we were all deprived of ears, even if the surrounding world would be filled with sound and so many beautiful things to see. We should put ourselves in the position to learn how who has a perceptive gap, compared with mankind in general, has found ways of communicating with others.
In this case, we are the different. We could try to discover how the world can appear using a particular sensorial map, precious because owned by few. An experience of rediscovery of a world, our own, that we thought we knew, revealing more than we could imagine.
It’s the revelation, through a particular human experience, of sharing a universal condition, of which we are not always aware: of how much the surrounding world escapes us, of how all of us are blind and non-hearing in a narrow perceptive segment. As Guy Lazorthes said, our senses are a narrow door on the world.
We are all, in fact, blind to the luminous infrared and ultraviolet radiations to which other animals are sensitive to, similar to the way we are non-hearing to ultrasounds and infra sounds, while we perceive central frequencies, between twenty and twenty thousand hertz. Nor do we react the same way to flavours and scents that our cultures have trained us to appreciate or reject. All human cultures have been developed starting from the shared reactions of almost all their members to certain colours, to certain sounds and certain shapes, and therefore to the possibility to see and recognize their own kind.
Ethnomusicologist Steve Feld has revealed that we don’t know how to use the same sensitivity that the Kaluli from New Guinea use. They have conceptualized a multi-sensorial geography, where space and time are seen and felt tactilely, and in turn these senses react with taste, while the perception of our body’s orientation comes through listening sounds of nature and voices: Feld called it soundscape, a resonant landscape.
Another example is the Anthony Seeger’s case of the Suya from Mato Grosso which illustrates a society divided by scent classes, each with its own identity.
Our sensorial endowments are sufficient to live in our familiar environment and to communicate within our society. But we should have the awareness that there’s a world, a real world, physical and tangible, that we ignore.
Culture is mostly an answer to these limits. Not having an ecological “habitat” like bats nor being able to fly in the dark avoiding obstacles, we had to invent artificial lighting. For sure satellite navigators installed on cars are infinitely less sophisticated than a voyager pigeon.
Who is deprived of some sensorial potentialities can supply us with an extraordinarily interesting quantity of information about the modifications that man can develop to compensate the shortage on the whole set of standard capacities that puts an individual in communication with the outer world. It can mainly contribute in opening us to an interior world of extraordinary originality often neglected.
A conversation in the dark with who doesn’t see what we see, but has developed more than the non-blind, a familiarity with his own particular sensorial map, can provide us a greater knowledge of our “being-in-the-world”.
A sense of deficiency, almost a disappointment, sometimes accompanies the reading, stimulating for other aspects, of some ethnographic monographs. In today’s globalized world are also included, only for some of its aspects and at least indirectly, the Trobriand Islands, a mythical place for anthropological vision. We have therefore lost an unrepeatable opportunity to find out how life was at the beginning of the century, when Malinowski did his famous research. Did Malinowski eat? What taste did the food have? We could go on with thousands of questions, meant to be unanswered. What anthropologists regarded as important was something else: institutions and social relations, indigenous idea concerning sexual life, to examine and challenge some of the principles of psychoanalysis, the presence of economical laws of exchange.
Perceptive sensibility has progressively combined its meaning with sensuality – a culturally intricate emotional reaction – which as triggered puritan censored obscurantism from which anthropology has never been guarded against, especially in the Victorian era.
“Scripturalism”, more controllable and auto-censurable than “visualism”, can correspond with iconophobia. The anthropological observation turns out to be a partially blind vision of reality and the insistence on the interpretative necessity of what is transmitted can transform itself into a control tool, disguised in conceptual analysis. If puritanism has recently in a strict sense forced the restorers of the Sistine Chapel to remove the added underpants and cloths from Michelangelo’s frescoes, a more concealed self-censorship has pushed Malinowski to write in his diary his intimate emotional reactions and sensorial pulsations of the encounter with Trobriand ‘s “savages.
Anthropology, for research requirements, has developed a particular attention to oral tradition. The superiority awarded to one of the senses to spread and hand down the cultural elements specific to a society – the sense of hearing, to which is assigned the listening of words – differently from the awarded supremacy of written words, that uses sight and only subordinately reading out loud, has been considered the discriminating factor between societies considered primitive and those considered modern. So as to call the former, once it has become obsolete the evolutionistic word
“primitive”, a society “without writing”.
Oral communication is direct, face to face, often underlined by an appropriate body language, that acts subordinately with what reaches our ears. From Ong to Goody¸ it has exhaustively been described how, where press is widespread, the cultural communication has become a solitary exercise, outdistancing the author from the recipient of his messages: even more so with electronic communication, in which we participate – but in a “cold and distant” way as McLuhan would say - at events that took place at great distance.
In tradition like in change, the senses are the protagonists in all the fundamental dynamics of communication between men. And nevertheless, anthropology, which ambition is to testify the universality of human condition through the expression of its diversity, has appeared too often insensitive e almost timorous of recording its manifestation in its singularity.
Visual anthropology has charged itself with the task of elaborating suitable expressive means to disclose the phenomenology of individual actions and collective events – the “private” and the “public” – in ways and manners which the social actors perform, getting the represented object closer to the spectator, that is to say to the depicted subjects while shooting. Such vocation leads the authors of ethnographic films and videos to open themselves to an expressive modality considered on the whole, as they show themselves according to shared and variable cultural codes in different contexts: it leads, therefore, to multisensoriality.
This is demonstrated during the monothematic editions of Nuoro’s exhibition (today SIEFF), from Magic and Medicine (1996), to Music and Rituals (1998), to Food (2002). These films not only illustrated a kaleidoscopic variety of subjects and inspirational sources but also a broad mindedness that contrasted the hegemony of an auto-referential interpretation. The fundamental passage was to expose, through the author and his tool, the subject’s emotional and sensorial impact and hence the interpretative elaboration of the represented event. The success of such an involvement was proven in the variety of what was being noticed and therefore, sensorially perceived, by the spectators. Differently from what often happens when reading the ethnographic monographs, where there is no possibility to develop different versions of what has happened “out there”, in the presence of the anthropologist at the time of his observation.
In spite of all the differences and semiologic subtleties, visual anthropology brings us closer - and also us as anthropologists - to those with who we want to communicate. It’s not really the result that needs analysis (think about the boring issues like framing and what is left out of it, or about the film maker’s more or less invasive presence) but rather the attitude in which he places himself in front of the “out there “ (calling it “reality” would raise other useless issues).
An all-embracing ambition that inevitably and favourably places who adopts it in an unpredictable situation. Goodbye rigorous classifications, more or less AristHotelic, goodbye geometric symmetries, more or less “structuralist”. If the rigorous physical sciences don’t withdraw in front of the idea to explore the chaos of the matter, anthropology shouldn’t have to withdraw in front of the many ways the human condition shows itself.
Iscriviti a:
Post (Atom)